Hollywood, anni Trenta. Robert e Gloria sono due tra i tanti giovani che durante la Grande Depressione si riversano da ogni parte d'America nella città del cinema, in cerca di un'occasione. Per sbarcare il lunario, decidono di partecipare a una gara di ballo, in cui non importa saper danzare, ciò che conta è stare in piedi, resistere per settimane, senza mai smettere di muoversi.
Esordio alla scrittura di Horace McCoy, pubblicato per la prima volta nel 1935, Non Si Uccidono Così Anche i Cavalli? ebbe uno scarso riscontro negli Stati Uniti, divenendo popolare, invece, fuori da confini patri, e in particolar modo in Francia, adottato dagli esistenzialisti, che vedevano in questa storia, feroce, cruda e urgente, un romanzo che si adattava perfettamente alle istanze del movimento.
McCoy ambienta la sua storia in un mondo che conosce perfettamente, quello hollywodiano (prima di darsi al giornalismo e alla scrittura, tentò invano la carriera di attore), rutilante mecca di glamour e lusso, meta di tanti aspiranti sognatori, che anelano il successo o, più semplicemente, cercano il riscatto di una vita ai margini.
L’ingenuo
Robert e la disincantata Gloria sono due giovani che approdano a
Hollywood con l’intento di diventare attori, cercando di essere
scritturati per delle comparsate, nella speranza che qualcuno, qualcuno
che conti davvero, li noti. Quando, tuttavia, i due personaggi entrano
in scena, i loro sogni sono già in frantumi, e sbarcare il lunario è
tutto ciò che resta da fare.
Decidono così di iscriversi a una gara di ballo, in cui non conta l’arte della danza, ma solo la resistenza fisica: vince il premio di mille dollari, e indirettamente l’attenzione dei media, l’ultima coppia che rimane sulla pedana. Ballare, ballare e ballare, fino allo sfinimento, rischiando la salute e, perché no, anche la vita. Un circo mediatico costruito ad hoc per attirare pubblico e denaro, una pista da ballo che è la metafora della vita di tutti gli ultimi, di quei reietti disposti a ogni cosa pur di emergere dalla melma in cui sono finiti, pronti a soffrire pene indicibili per ritagliarsi quella fetta di cielo, che durante questa lunghissima maratona al chiuso, non possono mai vedere, solo immaginare.
I poveracci danzano e danno spettacolo: intorno a loro il pubblico plaudente, insensibile alla tragedia, gli sponsor, che investono denaro sulla sofferenza altrui, e molte stelle del cinema, questa volta spettatori muti, comparse di contorno di un dolore, fisico e morale, che la loro celebrità ha, involontariamente, cagionato.
Non Si Uccidono Così Anche i Cavalli? è un romanzo breve (si legge in poche ore), affilato come un coltello a serramanico, letale come quelle pistole, che diventano l’esiziale snodo narrativo della trama. La prosa di McCoy è asciutta, scarna, quasi francescana, e durante la lettura si ha come l’impressione di assistere a un film dei fratelli Dardenne (la pellicola tratta dal libro, in realtà, venne girata nel 1969 dal grande Sidney Pollack), capaci di fotografare il dramma degli ultimi, senza tendere la mano ai propri eroi, esponendone, semmai, senza filtri, le stigmate, le ulcere e le anime moralmente martoriate. Robert e Gloria, in tal senso, rappresentano i poli opposti dello stesso mondo di marginalità. Il primo, ingenuo e speranzoso, crede ancora di poter salvarsi dal gorgo discendente in cui è finita la propria vita, cerca sulla pedana gli sporadici raggi di sole che penetrano dalle finestre, sente l’oceano muoversi sotto i talloni come un flusso vitale che dà energia, è rispettoso delle regole, e gentile e cortese con tutti. Gloria, invece, possiede un’anima nichilista, è consapevole della deriva irreversibile dell’esistenza (sua e di coloro che la circondano), è tormentata, astiosa, odia tutti e ha un solo desiderio: vuole morire. E’ consapevole, soprattutto.
Perché, la gara di ballo, è una maratona della speranza, per una speranza che è già morta. L’ultimo resterà ultimo, senza alcuna possibilità di redenzione, sbranato da una società capitalista che, allora come oggi, perseguita i perdenti e tende la mano al potere. Il cavallo che viene ucciso, quando si spezza la gamba, è la metafora crudele del mondo tratteggiato da McCoy e di quello in cui viviamo: ballare fino a morire, lo sfruttamento senza pietà fino a quando si è produttivi, l’oblio e la perdita dell’identità sociale quando si diventa inutili. McCoy, però, non fa la morale, non si schiera, ed evita didascalie che rendano ovvio il suo pensiero. Si limita a guardare, come il pubblico pagante, e mette in scena una tragedia, feroce, ma senza strepiti, che non può non ricordare quel successivo capolavoro esistenzialista che porta il titolo de Lo Straniero (1942) di Albert Camus.
Così, nel finale, liricamente altissimo, nonostante l’understatement della prosa, Robert uccide Gloria, per pietà e per un atto, tanto repentino quanto necessario, con cui, finalmente, la sua anima trova l’esatta collocazione nel disordine della propria vita. In tal senso, Robert, chiude la propria odissea in un bagliore di lucidità che manca a Meursault, anche se poi, entrambi, abbracceranno lo stesso destino: il processo, l’infamia e la morte. Entrambi cannibalizzati da una vita assurda, che tutto porta via e nulla restituisce. Senza senso, senza speranza. Non è così, forse, che si uccidono i cavalli?
Blackswan, giovedì 29/06/2023
1 commento:
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