Cosa aspettarsi oggi da un disco degli Ocean è l’inevitabile domanda che si porranno quei fan che hanno seguito le evoluzioni del combo tedesco fin dagli esordi. Per ventitré anni, questa band progressive e post metal, capitanata dal chitarrista e autore principale Robin Staps, ha plasmato uno stile unico, mescolando intelligenza, bellezza e brutalità, attraverso una line up in continua evoluzione, che, disco dopo disco, ha puntato alla ricerca della perfezione sonora. Con il quarto album Precambrian (2007), ispirato al primo periodo di formazione della terra, il gruppo teutonico ha dato il via a una serie di dischi influenzati dallo studio della geologia, culminata nei precedenti Phanerozoic I & II, e che trova oggi un nuovo (e finale) capitolo con Holocene.
Nel corso degli anni, a partire dall'ambizioso Pelagial (2013), la band ha introdotto nel proprio suono sempre più elementi elettronici, dando vita a un lento mutamento culminato in Phanzerozoic II,
un disco che sperimentava fra luci e ombre, melodie e costrutti
filosofici, allo scopo di bilanciare la selvaggia irruenza di un tempo.
Con Holocene, la svolta elettronica è completata, dando vita a
una scaletta decisamente più morbida e cinematografica, che non nasconde
però il disagio e il pessimismo provato a narrare l’ultima era
geologica, quella che stiamo vivendo, in cui l’uomo ha preso il dominio
sulla natura con le nefaste conseguenze che tutti conosciamo.
Così, la traccia di apertura del disco, "Preboreal", inizia com’era finito il precedente album, adagiata su un’elettronica leggera e danzante, e quando entrano in gioco gli strumenti e la voce sofferente di Loïc Rossetti, prende corpo una melodia equilibrata e delicata, il suono si gonfia e cresce, ma la potenza è contenuta, misurata.
"Boreal" inizia più o meno allo stesso modo, è pura melodia in crescendo, coi sintetizzatori e la ritmica che sostengono gli svolazzi della chitarra di Staps, prima che un riff corposo prenda piede, ma senza la ferocia a cui eravamo abituati (e qui è possibile che i vecchi fan abbiano un momento di sconforto).
Ci
sono armonie multistrato, attraverso le quali la band sta creando un
diverso approccio all’heavy, e dove in passato gli Ocean incanalavano la
rabbia nella furia degli elementi o nella belluina violenza di un
rinoceronte che carica, qui la struttura si fa più cupa e soffocante,
dolorosa come un coltello affondato nella carne, senza strepiti, ma con
determinazione.
Il calore del nuovo corso elettronico plasma la splendida "Sea Of Reeds", un brano che potrebbe appartenere tranquillamente al primo catalogo dei Radiohead, e che procede come una ninna nanna sofferta e ricca di inquietante pathos. E’ evidente che i fan della prima ora si troveranno spiazzati, ma i temi trattati nell’album (l'ascesa delle teorie del complotto, la decostruzione dei valori moderni, l’angoscia e la perdita) riescono a essere veicolati con maggior efficacia quando i decibel si abbassano, e lo struggimento prende il posto della furia. E’ una scelta di campo figlia di una costante evoluzione, può indispettire, certo, ma se ci si abbandona al senso della narrazione, finisce per essere incredibilmente suggestiva e vincente.
Non mancano però momenti imparentati al passato, che emergono prepotenti dal nuovo impianto sonoro: "Atlantic" inizia su un ritmo dub avvolto di morbida elettronica, ma la canzone così depressa e cupa, piano piano si gonfia in un gioco di stop and go, che deflagra in una seconda parte più rabbiosa, in cui la sezione ritmica martella feroce e la chitarra schizza lava incandescente verso un finale minaccioso che si arresta poco prima della catarsi finale, in cui resta nelle orecchie solo il ringhio gutturale di Rossetti.
Ritornano
i ritmi ipnotici, con le voci che sussurrano in modo sciamanico in
"Subboreal", fino a quando il corpo principale della canzone si infrange
contro la potenza della chitarra e la brutalità del drumming, e
Rossetti urla rabbia e frustrazione, tanto che si possono quasi vedere
gonfiarsi le vene del collo del cantante, mentre si abbandona a uno
screaming definitivo ed esiziale.
Caratterizzata da accenni industrial, melodia quasi pop, riff spigolosi e percussioni quadrate, "Unconformities" si avvale della splendida e sofferta voce della cantante norvegese Karin Park, il ritmo profondo e pulsante evoca un senso di perdita urgente e doloroso, che vede la band nella sua forma più accessibile, mentre tocca le corde del cuore, spingendo poi questa insospettabile leggerezza verso un frenetico caos agitato dai latrati selvaggi del frontman. Violento, urticante, furioso, esplosivo.
In
"Parabiosis" riaffiorano echi trip hop che riportano ai Massive Attack,
lo slancio sale e scende, in una costruzione anomala e lussureggiante,
in cui prende piede lentamente una bellissima melodia, che è anche il
momento più cantabile del disco, mentre "Subatlantic" è un brano più
lento e spettrale, che si muove con passo pesante fra territori
disseminati di elettronica spigolosa e atmosfere lunatiche e inquiete.
Holocene è un lavoro ambizioso, enigmatico e cerebrale, che, con tutta probabilità, farà storcere il naso a coloro che mal tollerano questa svolta in cui il fragore delle chitarre è decisamente attutito. Eppure, l’album, ascolto dopo ascolto, palesa tutta la sua scorbutica bellezza, e si ritaglia un posto molto alto nella discografia di una band che non smette, seppur in modi diversi, di indagare sulla psiche umana, l'evoluzione della creazione e i cambiamenti del tempo che incidono profondamente sulla storia dell’umanità. Non per tutti, ma decisamente un gran disco.
VOTO: 8
GENERE: Progressive Metal
Blackswan, giovedì 10/08/2023
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