mercoledì 20 novembre 2024

Jerry Cantrell - I Want Blood (Autoprodotto, 2024)

 


Faccio subito ammenda e mi scuso con i miei pochi lettori: gli Alice In Chains sono una delle mie band preferite e Jerry Cantrell uno dei miei eroi di giovinezza. Capite, pertanto, che riuscire a parlare di questo I Want Blood (titolo ispirato a If You Want Blood degli Ac/Dc) con la dovuta distanza e obiettività è un affare piuttosto complicato. Già, perché qui mi sono bastate poche note della prima canzone in scaletta, affinchè una lacrimuccia scendesse verso il groppo in gola. Fortunatamente, questo quinto album solista, è dannatamente buono, e lo è anche se ad ascoltarlo fosse un recensore meno fanatico del sottoscritto.

Jerry Cantrell è unico e inimitabile (questo lo capirebbe anche un appassionato di rock alle prime armi), i suoi riff oscuri e vischiosi (eppure al contempo orecchiabili e trascinanti), insieme alla voce dell’indimenticato Layne Staley, hanno segnato la storia del grunge, aggiungendo armature di metallo a una musica già scorbutica e ruvida di suo. Cantrell, però, non è solo un immenso chitarrista, ma sa anche cantare: le sue armonie vocali a fianco del compianto Staley e, più di recente, dell’ottimo William DuVall sono l’altro marchio di fabbrica di un suono che ha fatto scuola.

Qui, però, non stiamo parlando degli Alice In Chains, non è questa la sede per un trattatello di storia, la recensione riguarda Cantrell, che dopo l’ottimo Brighten (2021), un disco decisamente più acustico del suo successore, torna con un album duro, coeso, potente, dimostrando, per l’ennesima volta, di saper cantare, suonare, e scrivere canzoni fantastiche.

L’album si apre con il tempo saltellante di "Vilified", una canzone che è esattamente quello ci si può aspettare da Cantrell: il classico suono Alice In Chains (sembra di aver messo sul piatto un outtake di Dirt!), i riff fangosi, che replicano il movimento di un uomo che annaspa nelle sabbie mobili, il mood oscuro e quella voce inconfondibile, prima spalla di Layne, e ora protagonista assoluta. Non vi viene da piangere per l’emozione? Non vi sudano le mani quando parte "Off The Rails", quando quel riff acuto e vischioso vi intrappola in un loop di ricordi, e quella voce raddoppiata vi riporta all’anno di grazia 1992, il tempo in cui eravamo giovani e pieni di speranza, il tempo in cui la musica degli Alice era la colonna sonora dei nostri giorni, quei giorni in cui, però, la speranza svaniva per lasciar posto al tormento, alla frustrazione, al dolore pungolante di sentirsi diversi e incapaci di comprendere il mondo?

Cosa vi avevo detto, prima? Sapevo che avrei sbroccato, perché nella sei corde del buon Jerry risuonano gli anni più intensi della mia vita. Torno lucido, non temete, perché qui c’è da parlare di una canzone immensa come "Afterglow", che porta con sè un carico di malinconia che vi sgretolerà le spalle: lenta, dolente, arresa, di una bellezza abbacinante, nonostante le tenebre che l’avvolgono, mentre un assolo emozionante come un ricordo dolce che affiora all’improvviso vi spappolerà il cuore.

Gli Alice In Chains, quelli legati a un tempo lontano, sono vivi e vegeti, verrebbe da dire, se non fosse che quando parte la title track, un ringhio in faccia profetico di imminente tragedia, tra le scorie grunge dell’assolo, saltino fuori miasmi stoner, che solo i Kyuss o quella pellaccia di Josh Homme. E quando la polvere della derapata inizia a dissolversi, "Echoes Of Laughter" apre il portone alla ballata. Non una ballata rassicurante, niente che somigli a una carezza o una mano sul velluto: i battiti del cuore rallentano, ma ovunque poggi lo sguardo, tutto è tenebra, malessere, inquietudine, come veder nuovamente Layne Staley sul palco di MTV, non sai se arriva alla fine, ma poi una fragile e ansiogena bellezza prende il sopravvento, e sei dannatamente felice di perderti in quel dolce malessere che chiamiamo malinconia.

L’esplosivo non è finito, ci sono ancora bombe nell’arsenale Cantrell, così quando tuona "Throw Me A Line", una molotov esplode ad altezza visceri, grazie a un riff che più malefico non potrebbe essere, mentre la successiva "Let It Lie" è pura sporcizia, come rotolarsi nel fango di un letamaio, quando la chitarra di Cantrell ci avviluppa, fino a ghermire ogni spiraglio di luce e farci sprofondare, arresi, nel buio cosmico di uno spazio eterno, senza fine. "Held Your Tongue" è l’anticamera dei saluti, più un addio che un arrivederci, con l’ennesimo riff che l’ha giurata ai colori dell’arcobaleno, ma che almeno per questa volta si piega davanti all’urgenza di un ritornello melodico, quasi serico nella sua improvvisa e inaspettata gentilezza. Chiude (perché solo nove canzoni, porca troia!) "It Comes", addio psichedelico, slabbrato, e melodicamente sghembo di un disco che nemmeno i caramba, chiamati dai vicini, a cagione dell’incauto volume delle mie casse, riusciranno a farmi togliere dal lettore per tutto il prossimo mese.

Ecco, è finita. Come vi ho anticipato, non sono riuscito a trattenermi: questa non è una recensione, ma un atto d’amore verso colui che ha riempito il mio cuore, e per sempre lo riempirà, di una strana e plumbea gioia, che ha che vedere con quella strana contorsione dell’anima che Petrarca definiva “voluptas dolendi”. Quindi, prendete con le molle il voto dato al disco, che è un nove, perché il dieci lo si può dare solo a Dirt o Jar Of Flies. Prendetelo con le molle, almeno fino a quando non lo ascolterete e, poi, mi direte se ho esagerato, Dio mi è testimone che non ho mentito, o se anche i vostri vicini hanno chiamato le forze dell’ordine, perché di I Want Blood, anche voi, non riuscite proprio a farne a meno. A volume esagerato.
 
Voto: 9
Genere: Grunge, Metal
 
 

 
 
Blackswan, mercoledì 20/11/2024

martedì 19 novembre 2024

Candle In The Wind - Elton John (DJM Records, 1973)

 


 

Candle In The Wind, lo sanno anche i sassi, celebra la figura di Marilyn Monroe, famosa attrice e sex symbol, morta per overdose nel 1962. E che sia dedicata alla bionda più iconica della storia del cinema, lo si comprende subito dal verso che apre la canzone, “Goodbye Norma Jeane”, che fa riferimento al suo nome all’anagrafe, Norma Jeane Mortenson, a cui Marilyn aveva rinunciato per inseguire i suoi sogni di gloria. Quei sogni, però, durarono un battito d’ali, visto che l’attrice morì giovanissima, all’età di trentasei anni. La sua sfortunata parabola fu, dunque, resa immortale da Candle In The Wind, candela nel vento, un titolo che descrive perfettamente la sua vita breve, infelice e movimentata. 

Il testo è stato scritto dal partner di Elton John, Bernie Taupin, che fu ispirato per il titolo da una citazione che aveva letto su Janis Joplin. Secondo Taupin, la canzone non nacque come un omaggio a Marilyn, ma era semmai un tentativo, peraltro riuscito, di indagare sulla fama e la celebrità in relazione alla fragilità umana. Taupin si rammaricò del fatto che Candle In The Wind lo presentasse al pubblico come un fan della Monroe, verso la quale portava rispetto, certo, ma di cui, in fin dei conti, gli importava poco.

Il paroliere utilizzò la figura dell’iconica attrice perché, meglio di altre, si adattava perfettamente al mood della canzone, che, in realtà, come disse durante un’intervista: "…avrebbe potuto facilmente parlare di James Dean o Jim Morrison o di Kurt Cobain, avrebbe potuto riguardare Sylvia Plath o Virginia Woolf, praticamente chiunque, qualsiasi scrittore, attore, attrice o musicista che sono morti giovani e in un certo senso sono diventati icone non dissimili da Dorian Gray, semplicemente hanno smesso di invecchiare. È una bellezza congelata nel tempo”.

Le liriche di Taupin, dunque, sviluppano il tema greco del “muore giovane chi è caro agli dei”, introdotto da Menandro e poi ripreso da Leopardi, ma anche la fascinazione che la fama ha sulle persone comuni, che idolatrano, proprio in conseguenza della prematura dipartita, artisti che, forse, restando vivi, avrebbero avuto ben altro destino in termini di fama.

Quando Elton lesse le liriche scritte dal suo partner, scrisse la musica molto velocemente, anche perché provava empatia per Marilyn, comprendeva lo stress che le venne causato dalla costante e invasiva attenzione mediatica, sentendo nel profondo del cuore che la Monroe doveva aver sofferto terribilmente per tutta la vita di questa esposizione che, se da un lato, ne aveva implementato la celebrità, dall’altro la tenne chiusa in una prigione dorata.

Incredibile, ma vero, il brano non fu mai pubblicato come singolo negli Stati Uniti fino al 1987, quando John pubblicò Live In Australia With The Melbourne Symphony Orchestra, disco dal vivo che spinse il brano fino al sesto posto delle classifiche statunitensi e al quinto nel Regno Unito, dove surclassò la precedente versione, pubblicata nel 1973, che arrivò solo all’undicesima piazza.

Candle In The Wind, come molti lettori sicuramente sanno, ebbe, anche successivamente, una nuova, inaspettata fortuna, quando John la eseguì ai funerali di Lady Diana, principessa del Galles, che rimase uccisa in un incidente stradale, il 31 agosto 1997, anch’essa, come Marilyn, all’età di trentasei anni. Diana, che aveva divorziato dal principe Carlo, pur rimanendo molto amata dal popolo inglese, grazie ai suoi sforzi umanitari e alla sua innata classe ed eleganza, era molto amica di Elton John, oltre che esserne sfegatata fan. Per quella dolorosa occasione, Bernie Taupin riscrisse parte del testo, in particolare l’incipit, il cui verso "Goodbye Norma Jeane" venne cambiato in "Goodbye England's Rose".

Questa nuova versione, eseguita da John il 6 settembre del 1997, rischiò seriamente di non vedere mai la luce. Buckingham Palace, infatti, inizialmente non voleva che Elton John cantasse la sua versione aggiornata di Candle In The Wind al funerale della principessa Diana. Secondo un servizio di Sky News, andato in onda dopo che alcuni documenti del governo britannico vennero resi pubblici nel dicembre 2021, la famiglia reale sarebbe stata molto preoccupata perché le nuove liriche erano "troppo sentimentali", tanto da poter ingenerare un surplus di empatia nei confronti della sfortunata principessa. Nel timore che la famiglia reale potesse porre il veto all'interpretazione del cantautore, l'Abbazia di Westminster ingaggiò un sassofonista solista, che, se si fosse reso necessario, era pronto a eseguire una versione strumentale della canzone. Fu l’intercessione dell’allora decano di Westminster, il reverendo Dr. Wesley Carr, a far cambiare idea ai reali, convincendoli che il brano eseguito da John avrebbe dato gran conforto al paese in lutto.

La nuova versione della canzone, prodotta, peraltro, da Sir George Martin, fu pubblicata come singolo dal titolo Candle In The Wind '97, con l’intento che il ricavato delle vendite venisse devoluto al Princess of Wales Memorial Fund. Nel giro di un mese il brano balzò alla prima piazza delle classifiche inglesi, rimanendo in cima per cinque settimane, mentre in America il successo fu ancor più travolgente, visto che Candle In The Wind si piazzò al primo posto di Billboard, rimanendovi per ben quattordici settimane. Il Guinness dei primati stimò che Candle In The Wind '97 vendette ben trentatre milioni di copie in tutto il mondo, seconda solo a White Christmas di Bing Crosby, arrivata a cinquanta milioni. Entrambi i numeri, tuttavia, sembrano ridicolmente gonfiati. Se Candle, infatti, come fu certificato, vendette sedici milioni di copie tra America e Regno Unito, significa che il singolo avrebbe dovuto vendere le restanti diciassette altrove, circostanza, questo, del tutto improbabile.

Quel che è certo è che la canzone raccolse circa trentotto milioni di sterline, devoluti interamente al Diana's Memorial Fund, insieme ad altri trentaquattro milioni di sterline provenienti da donazioni. Per questo motivo, nel 1998, Elton John fu nominato cavaliere dalla regina Elisabetta II.

 


 

 

Blackswan, martedì 19/11/2024

lunedì 18 novembre 2024

MC5 - Heavy Lifting (earMusic, 2024)


 

Per raccontare la fulminea ma intensa parabola degli MC5, una delle band più seminali della storia del rock, con solo tre album all’attivo, fra il 1969 e il 1971, ci vorrebbero litri di inchiostro. Gruppo rivoluzionario, artefice di un suono furente, sporco e aggressivo, un impasto incendiario tra garage, proto punk e black music, e fautore di posizioni politiche estreme e militanti, con il solo Kick Out The Jam, disco dal vivo risalente al 1969, gli MC5 sono diventati nel tempo pietra miliare, che ha ispirato schiere di epigoni, come Ramones, Dead Kennedys, Rage Against The Machine e Hellacopters, tanto per citarne qualcuno.  

Un’avventura breve e intensissima, segnata da show rabbiosi, da polemiche a non finire, da un suono dinamico, esplosivo e rivoluzionario, tanto quanto i testi politicizzati (il loro manager era John Sinclair, leader delle Patere Bianche) che divennero megafono di protesta in un momento storico in cui la protesta era all’ordine del giorno.

Morti il chitarrista Fred “Sonic” Smith e il cantante Rob Tyner, figure iconiche della band, i superstiti si sono ritrovati nel 2018, tornando sul palco per una serie di concerti da tutto esaurito, e per comporre quelle canzoni che poi sarebbero confluite in questo Heavy Lifting, il primo album a firma MC5 dopo ben cinquantatre anni d’attesa.

Purtroppo, né Wayne Kramer, chitarrista e artefice principale di questo progetto, né il batterista Dennis “Machine Gun” Thompson (presente in due brani dell’album) sono sopravvissuti per vedere la pubblicazione di questa nuova creatura (sono deceduti rispettivamente il 02/02/2024 e il 09/05/2024) e assistere, soprattutto, all’ingresso degli MC5 nella Rock And Roll Hall Of Fame.

Heavy Lifting, dunque, è a tutti gli effetti un disco postumo, prodotto dal grande Bob Ezrim e nobilitato dalla presenza di un parterre de roi di musicisti (Tom Morello, Vernon Reid, Slash, William DuVall, Tim McIIrath), che alla band di Detroit devono molto della loro caratura artistica (emblematica la scritta sulla copertina interna del cd: We Are All MC5).

Una premessa è doverosa. Sarebbe ingeneroso e anche un po’ insensato pretendere che queste tredici canzoni siano attraversate dallo stesso suono e dalla furia iconoclasta di cinquant’anni fa. Non c’è un’altra "Kick Out The Jams", per intenderci, ma permane da parte di Kramer e dei suoi ospiti la volontà di tener fede a un’idea politica (questa militanza è ancora palpabile nei testi), e di concepire un disco che, plasmato da un suono più moderno, esprima quantomeno la stessa forza d’impatto. E se è vero che manca un po’ di coerenza nella scaletta, a causa della presenza di diversi ospiti e delle tante idee nate dal cuore e dal cervello di chi sa che il suo tempo è segnato, non manca però la voglia di stare ancora in prima linea, di riportare alla luce quello straordinario suono di una chitarra che ha fatto scuola e di dare un ultimo colpo di coda, potente, grintoso, definitivo.

Non è un capolavoro, Heavy Lifting, e nessuno mai lo avrebbe preteso, ma un riuscito disco di rock, insufflato da groove funky, e striato da graffi psichedelici e blues, questo sì.

La title track apre il disco con la presenza alla chitarra di Tom Morello: "Heavy Lifting" è un brano che richiama alla mente, quasi inevitabilmente, i Rage Against The Machine, in una sorta di passaggio di consegne fra il suono di un padre al figlio putativo, alla band, cioè, che più di ogni altra ha incarnato lo spirito musicale e politico degli MC5. Un pezzo duro, picchiato, un po’ lontano dagli standard del gruppo originario di Detroit, ma interpretato benissimo da Brad Brooks, la cui voce ispida è perfettamente funzionale al progetto.

Il suono più tipicamente MC5 viene recuperato in alcuni ottimi episodi come "Barbarians At The Gates" (mamma mia, quella chitarra!) e "Can’t Be Found" (questa con Machine Gun alla batteria e uno spettacolare assolo di Vernon Reid). E se il funky è protagonista assoluto in brani come la trascinante "I’am The Fun (The Phoney)" e la breve e uncinante "Black Boots", la sovrapposizione delle due voci, di cui una in falsetto, in "Because Of Your Car" fa addirittura eco a dei Blood Brothers che suonano black music e non post hardcore.

Resta ancora da accennare alla strepitosa "The Edge Of The Switchblade", ospiti Slash e William Duvall (Alice In Chains), una tirata rock da far tremare le vene dei polsi e, di sicuro, il brano più riuscito dell’album.

Da segnalare per gli appartenenti a quella razza in via d’estinzione, alla quale appartiene il sottoscritto, che i dischi ancora li comprano, che la versione deluxe dell’album offre un secondo cd contenente un live dal recente tour dei 50 anni, denominato MC50, registrato con Matt Cameron, Billy Gould, Kim Thayil e Brendan Canty. Una vera e propri fucilata a pallettoni che, ascoltata a volume alto, può nuocere gravemente alla salute dei padiglioni auricolari.

Alla luce di tutte le premesse espresse precedentemente, Heavy Lifting è un disco che piacerà di più agli amanti del rock duro e della contaminazione che agli ascoltatori nostalgici degli MC5, i quali probabilmente non si rassegneranno al fatto che il suono di 50 anni fa non può essere più quello di oggi. Poco male. Sono convinto che Wayne Kamer e Machine Gun sarebbero stati orgogliosi di questo disco, non memorabile certo, ma vitale e incazzato, e avrebbero riso in faccia a eventuali detrattori, facendo presente che chi ha fatto la storia, la storia la può modificare a proprio piacimento. Per chi scrive, questo è un disco godurioso, che fortunatamente ricaccia in gola il groppo della nostalgia e che ci restituisce, mutato, ma divampante, il sacro fuoco del rock. Che la terra vi sia lieve, motherfuckers.

Voto: 7,5

Genere: Classic Rock, Hard Rock 




Blackswan, lunedì 18/11/2024

giovedì 14 novembre 2024

Tana French - Il Cacciatore (Einaudi, 2024)

 


È un’estate di fuoco quella in cui i due uomini arrivano al villaggio. Dicono di essere venuti per cercare l’oro. Ma quel che portano, pensa Cal, non sono che guai. Sono passati due anni da quando l’ex detective Cal Hooper si è trasferito nella contea irlandese di Ardnakelty in cerca di tranquillità. Ha trovato qualcosa che ci va molto vicino: una casa che è diventata un rifugio e una relazione con una donna del posto, Lena, che lo fa stare bene. Poi c’è il suo legame con Trey, l’adolescente ruvida e selvaggia che sta cercando di proteggere. Ma adesso che dopo anni di silenzio è ricomparso suo padre, Trey non vuole nessuna protezione. Vuole solo vendetta.

 

Quello di Tana French, cinquantunenne scrittrice di origine irlandese, è un nome noto agli appassionati del poliziesco di qualità, avendo creato, a partire dal 2007, la fortunata serie dedicata alla Squadra Omicidi di Dublino, da cui è stata tratta la serie tv Dublin Murders.

Tuttavia, questo nuovo Il Cacciatore è un thriller anomalo, impossibile da inquadrare entro i confini di un genere che possiede regole ben precise, nello specifico, decisamente disattese. Viene commesso un crimine, un brutale omicidio, ma questo avviene, non all’inizio, come ci si potrebbe aspettare, ma oltre la metà del libro, il quale, peraltro, ha una lunghezza decisamente importante. Ci sono le indagini, certo, condotte dal brillante e sfuggente ispettore Nealon, e verrà svelato anche il colpevole (peraltro, decisamente inaspettato), ma tutti questi eventi sono funzionali a una narrazione che ha ben altri intenti.

Protagonisti della vicenda, sono l’ex poliziotto americano Cal Hooper, che si è trasferito nella contea irlandese di Ardnakelty per godersi la meritata pensione, Lena, la sua donna, una vedova del posto, che cerca di vivere disconnessa dalle dinamiche del piccolo paese, la giovane Trey, ribelle adolescente, che condivide con Cal la passione per la falegnameria, e Johnny Reddy, il padre di Trey, un piccolo maneggione, tornato a casa, dopo un lungo periodo di assenza, portando con sé una ventata di guai, che diventeranno esiziali.

Attorno a queste figure principali, ruota la vita, apparentemente placida, della comunità di Ardnakelty, che è il primario fulcro d’interesse della scrittrice irlandese. Un paesino in cui tutti si conoscono e che vive con un proprio codice d’onore, strutturato su dinamiche ancestrali e sull’appartenenza alla terra. Un luogo in cui, a fronte della bellezza di paesaggi non ancora straziati dalla mano dell’uomo, vive una piccola collettività chiusa e ostile, che fa del non detto, della comunicazione sibillina, della minaccia trasversale e di rancori mai sopiti nel tempo, il motore di un’esistenza che rifiuta lo straniero, tollerandone solo apparentemente la presenza, e che tende a escludere quelle poche persone che non si allineano al pensiero comune.

Un mondo che ricorda quello efficacemente evocato da Giorgio Diritti ne Il Vento Fa il Suo Giro, emozionante pellicola datata 2005, o da Rodrigo Sorogoyen, nel più recente e inquietante As Bestas, e che la French riesce a raccontare e a rendere comprensibile anche al lettore italiano, lontanissimo da quella realtà arcaica e intrinsecamente violenta.

La maestria della scrittrice irlandese consiste anche nel tratteggiare con misura e arguzia non solo le dinamiche famigliari e interpersonali, ma anche la complessità psicologica di personaggi indimenticabili come l’irrequieta e vendicativa Trey, e suo padre Johnny, uomo fascinoso, ma meschino, debole e privo di qualsivoglia filtro etico. Una lettura affascinante e magnetica, che non ha bisogno di particolari colpi di scena per trascinare il lettore in una vicenda che procede a lenta combustione, ma che centra l’obiettivo sociologico che si era prefissata con estrema efficacia.

 

Blackswan, giovedì 14/11/2024

mercoledì 13 novembre 2024

My Brightest Diamond - Fight The Real Terror (Western Vynil, 2024)

 


E’ il 26 luglio del 2023, quando a Detroit, come conseguenza di una tempesta, alcune zone della città restano al buio. E’ da poco giunta la notizia della scomparsa di Sinead O’Connor, e Shara Nova, al secolo My Brightest Diamond, si trova improvvisamente al buio, in uno stato di impotenza, frustrazione e paura. Pensa alla grande musicista irlandese e pensa alla caducità dell’essere umano, alla fragilità dell’esistenza moderna, legata a doppio filo con la tecnologia e da questa totalmente dipendente. Sono ore di profondo smarrimento, di riflessioni che si affastellano in testa disordinatamente, aumentando il senso di impotenza. Shara, allora, prende la chitarra e inizia a suonare, e mentre fuori il buio ghermisce, avviluppandola, la vita della gente, getta le fondamenta per quelle canzoni che faranno poi parte di questo nuovo Fear The Real Terror, sesto album in studio della cantautrice e polistrumentista newyorkese.

Il risultato è un disco che si discosta notevolmente dal precedente A Million And One (2018), un lavoro decisamente più solare e votato al dancefloor, e la scaletta è attraversata semmai da una tensione a tratti crepuscolare ed è vestita di abiti sobri e disadorni. Si percepisce, poi, un diffuso senso di sospensione, conseguenza naturale di quelle ore passate al buio a riflettere e a suonare, eppure il disco, nella sua icastica brevità, è comunque scosso da una fremente sincerità, mentre la visione d’insieme si mantiene comunque lucida ed efficace.

La voce potente di Shara Nova apre il disco attraverso i palpiti della title track, un brano ispido, scartavetrato da una chitarra distorta e da un iniziale approccio folk che sembra voler omaggiare l’iconica O’Connor. La successiva, rabbiosa "Rocket In My Pocket" è una sportellata elettrica che tira in ballo un certo rock alternativo anni ’90 e un suono che evoca la PJ Harvey di quei leggendari anni. Un inizio al vetriolo, subito, però, ammorbidito dalle atmosfere ipnagogiche di "Even Warriors", una carezza al velluto che sfiora l’anima, e dalla drammatica "Immaginary Lover", la cui ritmica pulsante si fa extrasistole e una chitarra sfocata in sottofondo evoca tormento e commozione.

Non ci sono passi falsi in questo disco umorale, che spazia dalla filastrocca scorbutica di "Rule Breaker" al blues in punta di piedi di "Safe House", fino agli sfarfallii vocali della commovente "Have You Ever Seen An Angel".

Chiudono la scaletta altri tre brani di grande ispirazione, e cioè la cupa "Sublime", avvolta da brume autunnali, "There’s No Place I’d Rather Be", una sorta di sospensione trasognata fluttuante a mezz’aria, e "I Saw a Glimpse", un folk dalle trame celtiche che si dipana attraverso il timbro evocativo della Nova, qui alle prese con un’interpretazione vocale da capogiro.

Tom Schick, che ha prodotto il disco, ha evitato un lavoro invasivo, preferendo mantenere integra l’autenticità dei demo che My Brightest Diamond aveva registrato in solitudine, mettendo così in risalto la schiettezza e la drammaticità di un’ispirazione tornata al livello dei primi album.

Voto: 8

Genere: Indie Rock, Pop

 


 


Blackswan, mercoledì 13/11/2024

lunedì 11 novembre 2024

Down By The River - Neil Young (Reprise, 1969)


 

“Down by the river
I shot my baby
Down by the river
Dead
(Ooh, shot her dead)”

 “Ho sparato alla mia ragazza, giù al fiume”. Un ritornello di questo tenore non solo carpisce immediatamente l’attenzione dell’ascoltatore, ma lo fa anche sobbalzare sulla sedia. Perché il tema sembrerebbe quello di un femminicidio, l’atto inconsulto di un uomo che, vicino al greto di un fiume, lontano dalla vista di tutti, spara alla propria ragazza.

Fu lo stesso Neil Young, qualche tempo dopo la pubblicazione del brano, però, a fare chiarezza, spiegando che Down By The River era in realtà una sorta di supplica, un grido di disperazione di un uomo che stava perdendo il proprio amore, che veniva lasciato dalla donna che ama. C’è rabbia, c’è incredulità, c’è tanto dolore, ma se di omicidio si parla, questo è solo figurato, vive solo nell’immaginazione di un uomo che sta emotivamente tracollando.

Questa prima interpretazione è quella sicuramente più immediata, quella apparentemente più logica. A riflettere con attenzione, però, si potrebbe dare un senso diverso a Down By The River, che, non è un’ipotesi campata in aria, potrebbe metaforicamente parlare di droga e di dipendenza.   

Se di primo acchito, infatti, questa canzone sembra parlare di uno psicopatico che ha ucciso il suo amore e soffre per il rimorso del gesto estremo, il senso cambia completamente qualora l’amore diventasse il sinonimo di qualcosa che crea dipendenza, sia questa droga, alcol o un’ossessione. Ecco, allora, che la canzone si tramuta in un atto di ribellione contro quella dipendenza.

Stai al mio fianco, io sarò al tuo fianco, piccola

Non hai motivo di nasconderti

È così difficile per me stare qui tutto solo

Quando potresti portarmi a fare un giro

Lei potrebbe trascinarmi oltre l’arcobaleno

E mandarmi via

 

La prima strofa è l’accettazione della dipendenza, che è palese, evidente, e che genera una piacevole assuefazione (Lei potrebbe trascinarmi oltre l’arcobaleno). Il ritornello, però, spariglia subito le carte sul tavolo: l’omicidio, o presunto tale, è in definitiva nient’altro che la disintossicazione, il rifiuto di quella droga che tiene il protagonista del brano chiuso in una prigione dorata.

Prendi la mano, io prenderò la tua

Insieme potremmo andarcene via

Tutta questa follia fa troppo male

È impossibile farcela oggi

 

Le sensazioni sono confliggenti, la dipendenza è reale, avvinghiata e risoluta a non mollare la presa, ma è una follia che fa male, di cui bisogna liberarsi. Ecco perché il protagonista, ribadisce nel ritornello che deve sparare alla propria “ragazza”, unica strada per tornare a essere finalmente libero.

Neil Young, che scrisse il brano in un giorno in cui era stato vittima di una febbre altissima, provò a registrare la canzone con i Crazy Horse, durante le sessioni di un altro suo brano epocale, Chinnamon Girl. Mentre quest’ultimo fu registrato in un batter d’occhio, la band non riusciva a trovare la chiave di lettura per Down By The River, nonostante i svariati tentativi. Furono i membri dei Crazy Horse che, dopo una giornata di inutili sforzi, decisero di proporre a Young una versione rallentata del brano. Che divenne molto più lunga, e trovò finalmente tutto lo spazio necessario per respirare.  




Blackswan, lunedì 11/11/2024

venerdì 8 novembre 2024

Leprous - Melodies Of Atonement (InsideOut, 2024)

 


Inseriti nel gran coacervo delle band progressive metal, disco dopo disco, i norvegesi Leprous hanno fatto di tutto per prendere le distanze da quella definizione tanto sommaria quanto, nello specifico, ormai insensata. Se i primi due album, Tall Poppy Syndrome del 2009 e Bilateral del 2011, potevano essere inseriti nel filone senza che qualcuno gridasse allo scandalo, oggi, i momenti più “metallici” della loro proposta possono essere considerate delle scorie, dei cascami stilistici che arricchiscono la loro musica, ma che sono assolutamente residuali. Negli ultimi anni, la musica della band ha sempre seguito traiettorie più propriamente progressive e alt-rock, accompagnate da testi cerebrali e impegnati, da un largo uso di arrangiamenti sinfonici e da un surplus di melodrammatica teatralità, che resta, anche in questo nuovo Melodies Of Atonement, uno degli elementi distintivi della loro musica.

Niente metal, dunque, ma un rock di gran classe, confezionato con estrema cura, e punteggiato da un mood malinconico e da atmosfere umbratili. Persistono gli elementi progressive, anche se sono molto meno evidenti che in passato: Melodies Of Atonement è un disco un po' più diretto e meno opulento rispetto ai loro ultimi album, in quanto elimina molto, se non del tutto, l’impianto orchestrale, in favore di elementi di elettronica, su cui si sviluppa un’accattivante e complessa architettura ritmica, questa sì, mutuata dal genere progressive. I synth rispetto alle chitarre, che sono utilizzate con misura e intelligenza, diventano il piatto forte in scaletta, mentre la voce straordinaria di Einar Solberg, la facilità con cui modifica il proprio timbro espressivo, la potenza della sua estensione e la padronanza tecnica con cui affronta anche linee complesse sono la chiave di volta di un disco in cui l’elemento vocale diventa lo strumento principale e quello che dà il segno distintivo alla proposta.

Occorrono svariati ascolti per cogliere le diverse sfumature di ogni canzone in scaletta, dal momento che, fatta eccezione forse per l'apertura "Silently Walking Alone", tutti i dieci brani sono costruiti più o meno nello stesso modo, con una partenza tranquilla che si muove lenta per poi gonfiarsi in un crescendo, in cui accadono tutte le cose più interessanti. Non è una novità, visto che questo escamotage è uno dei marchi di fabbrica della band, ma ci vuole pazienza per entrare nel mood, in considerazione anche del fatto che il cuore dell’album è composto da brani della durata media di sei minuti (si ascoltino in tal senso "Limbo" e "Faceless").

Quando il disco inizia a entrare in circolo, però, emerge anche la straordinaria classe di una band che sa pescare dal cilindro melodie avvincenti ("Atonement"), creare atmosfere crepuscolari cariche di livide suggestioni ("My Specter") o mettere in scena fantasiosi arrangiamenti e stranianti melodie pronte a deflagrare in una violenza tanto repentina quanto inaspettata ("Like A Sunken Ship", in cui le scorie metal si sentono, eccome).

In definitiva, Melodies Of Atonement è un disco riuscito, in perfetta linea con ciò che oggi sono i Leprous, una band consapevole e raffinata, che, con questo ultimo lavoro, sembrerebbe aver trovato la quadra definitiva del proprio suono. Forse, qualche sferzata di energia metal in più avrebbe potuto dare maggior corpo alla seconda parte del disco, che, seppur piacevole, sembra procedere con il pilota automatico. Parere personalissimo, che nulla toglie a un album che, a parte una copertina non bellissima, si fa ascoltare più volte, e ogni volta con rinnovato piacere.

Voto: 7,5

Genere: Rock, Progressive

 


 

 

Blackswan, venerdì  08/11/2024

mercoledì 6 novembre 2024

Wunderhorse - Midas (Communion Records, 2024)

 


Quando nel 2022 esce Cub, opera prima targata Wunderhorse, in molti avevano alzato il sopracciglio per la sorpresa: il ventiquattrenne Jason Slater, reduce da una stagione frenetica ed esaltante con i Dead Pretties, tornava a dare lustro a un certo suono anni ’90, imparentato con il rock alternativo e il grunge. Un’operazione di recupero suggestiva e tutt’altro che sciatta, che aveva esaltato la proposta, portando il giovane musicista agli onori delle cronache (indie), laddove, forse, nemmeno lui pensava di poter arrivare.

Quello era un progetto prevalente solista, ambizioso, certo, ma in una fase ancora embrionica, per quanto suggestiva. Questo nuovo Midas, pur partendo dalla medesima consapevolezza e da un inesausto amore per gli anni ’90, alza ulteriormente il livello dell’asticella, affinando le idee del primo album e innalzandole a una forma più compiuta, per quanto, comunque, figlie di un’espressività diretta, grezza e senza fronzoli.   

Registrato in Minnesota presso i leggendari studi Pachyderm (Nirvana, PJ Harvey), Midas è il primo album dei Wunderhorse come band fatta e finita. Al fianco di Slater, infatti, ci sono Harry Fowler (chitarra), Jamie Staples (batteria) e Pete Woodin (basso), un quartetto che sembra nato anni fa, tanta ed evidente è l’unità d’intenti. Così, dopo il notevole e inaspettato successo di Cub, che ha spinto il gruppo in turnèe a fianco di artisti del calibro di Fontaines D.C. Pixies e Foals, i Wunderhorse sono diventati un tutt’uno e non solo l’espressione del loro leader, circostanza che ha portato a una visione più ampia, in qualche modo più rotonda.

Voce strascicata e ruvida, sferzate elettriche e riff uncinanti, sono il contorno per melodie scartavetrate ed emozionanti.

La title track apre il disco con una raffica di progressioni di accordi e un ritornello abbaiato ma efficace. Rapidi, disadorni e diretti, Slater e i suoi sodali posseggono una straordinaria efficacia nell’asciugare il suono da ogni orpello e lasciare che la scarna struttura ossea delle canzoni faccia il lavoro più importante: cogliere l’attimo col fascino distorto della presa diretta, senza che alcun lavoro di post produzione venga a inficiare la veridicità della proposta, accentuata da testi appassionati e taglienti.

"Silver", ennesimo singolo, è un’altra canzone che arriva subito al cuore con una splendida melodia, mentre in "Rain" la band crea una sorta di vortice intorno alla voce del Slater, che canta “Do you feel the rain?” con una tensione che brilla nella polvere e nella sporcizia che la canzone solleva. 

Midas è un album che, prevalentemente, racchiude al suo interno un senso di vulnerabilità, come se questa fosse un parto oscuro della mente di Slater. Una vulnerabilità sia in termini di suono, spesso sfilacciato e claudicante, seppur nascosto da chitarre aggressive, che nei testi, come avviene, ad esempio, in "Emily", punto di collisione fra Nirvana e Fontaines Dc (e i Nirvana tornano, quasi clonati, nella splendida "Arizona"), quando il frontman canta “All'interno di questo macchinario, Tutti sono pazzi, Non io, forse" o in July con quell’affermazione tranchant che recita “Sono pronto a morire”. Slater è abile nel mettere in luce la propria anima anche in un breve periodo di parole, un talento che è cresciuto incredibilmente quando la band ha trovato la sua forma definitiva.

In un mondo in cui apparentemente il pregio è less is more, i Wunderhorse sono un richiamo al passato che evoca magnificamente il meglio della cultura rock degli anni ’90, asciugandolo da inutili fronzoli e portando alla luce l’essenza di un suono. Tutto è ovviamente derivativo, ma nulla fa pensare a una blanda replica di una gloria che fu. Le canzoni sono asciutte, scelgono il rumore per nascondere la melodia, e non hanno bisogno di altro, se non della sincerità, per fare il pieno di consensi. Giocano quasi a nascondersi, ad avvolgere la loro espressività spartana in un anfratto di clandestinità. E se i riferimenti della loro proposta emergono in modo chiaro, quasi ineluttabile, non è la nostalgia a vincere la partita, ma il piacere di ascoltare canzoni che sanno evocare emozioni, forse risapute, ma comunque genuine.

Voto: 7,5

Genere: Rock, Alternative, Grunge

 


 

 

Blackswan, mercoledì 06/11/2024

martedì 5 novembre 2024

Myles Kennedy - The Art Of Letting Go (Napalm Records, 2024)

 


Il senso di Myles Kennedy per il rock. Così potremmo succintamente definire il terzo album solista del cantante degli Alter Bridge. Se Year Of The Tiger (2018) era uno sfogo acustico dopo una carriera prestata all’elettricità, e The Idles Of March (2021), uscito in piena pandemia, lambiva territori contigui al southern, questo nuovo The Art Of Letting Go vede Kennedy alle prese con quello che sa far meglio: suonare rock e suonarlo potente e senza fronzoli.

La mano, in zona produzione, è quella del fidato Michael “Elvis “ Basquette, mentre a fianco del cantante e chitarrista si allineano due musicisti con i contro zebedei, Zia Uddin alla batteria e Tim Tournier al basso.  Il risultato è un disco diretto e immediato, semplice ma non privo di stratificazioni, trainato da un’energia debordante che dà lustro alla solita, ineguagliabile voce, al tiro degli strumenti, tanto tecnico quanto grintoso, e a una produzione capace di rendere super moderno quel suono da power trio, le cui radici proliferano in un terreno vecchio di decenni.

Ogni canzone gronda pathos ed è spinta da una tensione quasi palpabile, figlia di quel senso di libertà che si prova quando si fa ciò che si ama, senza vincoli, senza nessuno a cui dover rendere conto. E’ rock, puro e semplice, che nasce solo ed esclusivamente dal piacere di suonarlo, sprizzando sudore, appiccando incendi, strattonando l’ascoltare verso una purezza che manca a molta musica che si ascolta oggi.

Senza distogliere completamente lo sguardo dall’inevitabile retroterra blues ("Saving Face"), The Art Of Letting Go è un disco che picchia duro, e che si muove sui quei terreni che Kennedy frequenta a capo degli Alter Bridge o come spalla di Slash. Non mancano, ovviamente, momenti più rilassati, in cui è la melodia soprattutto ad accarezzare lo orecchie, come avviene nella malinconica "Eternal Lullaby", un episodio che rallenta il passo di un disco che, per converso, corre selvaggio, tenendo un ritmo impetuoso che non fa prigionieri.

Il piatto forte, è quasi banale sottolinearlo, è la splendida voce di Kennedy, il cui timbro è tra i più immediatamente riconoscibili del panorama rock, e la sua performance che, come di consueto, lascia a bocca aperta, per tecnica, estensione, fantasia e per quella innata versatilità, grazie alla quale, anche nello stesso brano, può contemporaneamente accarezzare e scuotere selvaggiamente l’ascoltatore.

Ci sono, però, anche le canzoni, quasi tutte di livello, a partire da "Behind The Veil", che inizia morbidissima e poi parte in derapata a cento all’ora, fondendo echi settantiani e piglio moderno, l’ariosa e trascinante "Miss You When You’re Gone", un brano che sembra scritto apposta per essere ascoltato in macchina, i finestrini abbassati e un vento di elettricità nei capelli, la scalpitante "Mr.Downside" o la galoppante "Nothing More To Gain", che tira dritta come un fuso verso un ritornello uncinante.

Senza nulla togliere ai due precedenti album solisti, entrambi decisamente buoni, The Art Of Letting Go è il disco migliore del cantante originario di Boston, quello che suona più Myles Kennedy di tutti, quello che ne conferma lo status di autentica potenza in ambito hard rock. Alzate il volume e lasciatevi travolgere da questa ondata di vibrante elettricità: pochi dischi rock, usciti quest’anno, sono all’altezza di cotanta potenza di fuoco.

Voto: 8

Genere: Rock, Hard Rock

 


 

 

Blackswan, martedì 05/11/2024

lunedì 4 novembre 2024

Pictures Of You - The Cure (Fiction, 1989)

 


Quando nel marzo del 1990, quasi un anno dopo l’uscita del disco, viene pubblicato Pictures Of You, quarto e ultimo singolo estratto dall'ottavo album in studio dei Cure, Disintegration, la band inglese ha già venduto, solo negli Stati Uniti, due milioni di copie, e, per la prima volta in assoluto, ha conquistato anche la top ten italiana, portandosi a casa il disco d’oro.

Non male per un disco cupo e depresso, che a fronte di un’atmosfera decisamente crepuscolare, inanella anche una serie spettacolare di melodie, incastonate in gioielli come Lovesong, Lullaby e, appunto, Pictures Of You. La quale è un’emozionante canzone che parla d’amore, attraverso quel toccante lirismo a cui spesso Robert Smith ha fatto ricorso per toccare le corde del cuore di chi ascolta.

Pictures Of You, però, è una canzone mesta, che fa i conti con un rapporto collassato, in cui il sentimento vive ancora, ma solo nelle fotografie di lei e nello struggente ricordo che il cantante ha della sua donna.

 

Ho guardato queste tue foto per così tanto tempo

Che quasi credo che siano reali

Ho vissuto così a lungo con le mie foto di te

Che quasi credo che le immagini siano tutto ciò che riesco a sentire” 

 

Quasi un’ossessione, un dolore che non si rimargina, un lutto che l’amante abbandonato non può e, probabilmente, non vuole rielaborare, abbandonandosi a quella voluptas dolendi, che è il carburante nobile che alimenta mille malinconie. Un continuo, esiziale rimuginare su ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, sugli sbagli commessi, le parole non trovate per esprimere i propri sentimenti e salvare il rapporto. 

 

“Se solo avessi pensato alle parole giuste

Avrei potuto tenermi stretto il tuo cuore

Se solo avessi pensato alle parole giuste

Non farei a pezzi tutte le mie foto di te!"

 

Ascoltando canzoni come Pictures Of You, si potrebbe pensare che Smith vivesse in un perpetuo stato depressivo a causa di relazioni fallimentari: e invece, strano a dirsi, era tutto il contrario. Il cantante degli Smith, infatti, è stato molto fortunato in amore, trovando la sua anima gemella, Mary Poole, quando era solo un adolescente. I due, poi, si sono sposati nel 1988 e continuano a stare insieme.

I testi di Smith sull’amore sono, semmai, sempre stati il frutto della sua capacità di osservazione della società e dei suoi interessi letterari. Pictures Of You, infatti, sarebbe stata ispirata a un saggio di Myra Poleo, intitolato The Dark Power of Ritual Pictures. Smith sostenne che dopo averlo letto, distrusse le sue vecchie foto personali e molti dei suoi video amatoriali, nel tentativo di cancellare il suo passato per una nuova rinascita. Arrivò, però, a pentirsi della decisione pochi giorni dopo, e il dolore per la sciocchezza fatta alimentò il mood depresso della canzone.

Smith, tuttavia, ha fornito resoconti contrastanti su quali eventi abbiano effettivamente ispirato la canzone. Secondo quanto da lui stesso dichiarato nel corso di alcune interviste, l'ispirazione per la composizione del brano venne a seguito dello scoppio di un incendio a casa sua. Dopo quell'episodio, Smith, mentre passeggiava tra i resti della casa, trovò il proprio portafogli che conteneva delle foto di sua moglie Mary (e, per la cronaca, la copertina del singolo è proprio una di queste fotografie).

Sebbene Smith fosse fortemente contrario ad acconsentire che la sua musica finisse in spot pubblicitari, permise a malincuore che Pictures Of You venisse utilizzata in una pubblicità della Hewlett-Packard del 2004, che promuoveva una fotocamera digitale. Era un male necessario, perché la band aveva bisogno di fondi per mantenere il controllo del proprio catalogo, mentre il loro contratto di lunga data con la Polydor (tramite Fiction Records) stava per concludersi. Lo stesso cantante durante un’intervista a NME spiegò il motivo di quella scelta: "Sono totalmente contrario alla musica nelle pubblicità, mi ha ucciso anche solo accettarlo, ma era l'unico modo. I soldi generati da quella pubblicità mi hanno permesso di controllare il nostro vecchio catalogo, altrimenti sarebbe stato come ipotecare la band."

 


 

 

Blackswan, lunedì 04/10/2024