venerdì 29 novembre 2024

John Grisham - L'avvocato Degli Innocenti (Oscar, 2019)

 


Sono passati più di ventidue anni da quando Quincy Miller, un giovane di colore, è stato arrestato dalla polizia della cittadina di Seabrook, in Florida, con l'accusa di aver ucciso l'avvocato Keith Russo, di cui era stato cliente. Quincy viene frettolosamente processato sulla base di testimonianze e prove poco attendibili e di un movente poco credibile. Ciononostante viene condannato all'er­gastolo. Per tutto il tempo l'uomo si professa innocente senza venire mai ascoltato da nessuno, fino al giorno in cui, disperato, scrive una lettera alla Guardian Ministries, i "padri guardiani", una fondazione no profit che si occupa di dimostrare l'innocenza dei suoi assistiti salvandoli dalla pena di morte.

Cullen Post è a capo di questa piccola e agguerrita organizzazione, ha all'attivo otto casi risolti e una storia personale sui generis: quando era un giovane avvocato alle prime armi e pieno di ideali, era rimasto fortemente deluso dal sistema giudiziario e dopo una profonda crisi aveva deciso di diventare pastore episcopale, per dedicarsi poi anima e corpo a combattere le condanne ingiuste e assistere gratuitamente solo clienti dimenticati dal sistema.

Accettando di dimostrare l'innocenza di Quincy Miller, strappandolo all'ergastolo, Cullen deve partire alla ricerca dei vecchi testimoni e smontare le false prove che erano state prodotte, mettendo a rischio la sua vita. Perché il suo cliente è stato incastrato da criminali senza scrupoli che non vogliono certo che lui esca vivo dalla prigione. Hanno già ucciso un avvocato ventidue anni prima e possono benissimo eliminarne un altro senza pensarci due volte. Corruzione, abuso di potere ed errore giudiziario sono gli elementi portanti di questo nuovo legal thriller scritto da John Grisham con impeccabile maestria e con un ritmo incalzante.

 

Maestro del legal thriller, John Grisham è un romanziere che non ha bisogno di molte presentazioni, dal momento che, in oltre trentacinque anni di carriera, ha dato alle stampe un incredibile filotto di libri diventati bestseller e, successivamente, trasposti in pellicole che hanno sbancato il botteghino (Il Rapporto Pelican, Il Socio, Il Cliente, L’uomo Della Pioggia, solo per citarne qualcuno).

L’Avvocato Degli Innocenti, pubblicato per la prima volta nel 2019, può essere annoverato fra le sue opere minori, ma non per questo risulta meno riuscito di altri suoi romanzi decisamente più famosi. Ispirato da fatti di cronaca realmente accaduti (è lo stesso autore a spiegarlo nelle note conclusive), il romanzo racconta la battaglia di Cullen Post (prete e avvocato che dedica la propria vita a cercare di scagionare innocenti ingiustamente condannati) per far liberare Quincy Miller, un uomo di colore condannato all’ergastolo sulla base di prove false e di un processo pilotato per coprire un omicidio commesso da altri.

Dopo ventidue anni trascorsi dalla condanna, la speranza di acquisire nuove prove e far luce sulla verità è ridotta al lumicino, ma grazie alla pertinacia di Post e dei suoi collaboratori tutto è ancora possibile…

Non aggiungo altro per non togliere il piacere di una lettura che conquista fin dalle prime pagine. D’altro canto, Grisham è un maestro nel creare suspense e piazzare i numerosi colpi di scena al punto giusto. E se anche, come in questo caso, il ritmo non è vertiginoso, il lettore viene risucchiato in una vicenda, giuridica e umana, che lascia senza fiato. L’occasione, inoltre, è ghiotta per gettare lo sguardo sul sistema legale americano, che se da un lato fornisce all’imputato numerose garanzie, dall’altro, è avviluppato in una macchinosa burocrazia e piagato da infinite storture (oltre che dall’obbrobrio della pena di morte) che mettono seriamente a repentaglio il conseguimento di una giustizia giusta.  


Blackswan, venerdì 29/11/2024

mercoledì 27 novembre 2024

Linkin Park - From Zero (Warner, 2024)

 


Qualche premessa, prima di parlare di From Zero, ultima fatica dei redivivi Linkin Park, credo sia necessaria. Il disco, ben prima della sua uscita, aveva fatto registrare svariate polemiche, sia da parte dei familiari di Chester Bennington, indignati per l’utilizzo del marchio di fabbrica LP, a loro avviso inscindibile dalla figura del defunto cantante, sia di tutti quei fan della prima ora scandalizzati che il progetto potesse proseguire senza colui che rappresentava la componente emotiva (ed emozionante) del progetto, ora saldamente in mano all’alter ego Mike Shinoda. Critiche comprensibili, ci mancherebbe altro, ma in qualche modo anche non giustificate, visto che da nessuna parte è scritto che una band debba necessariamente sciogliersi quando viene a mancare il suo leader. Che poi i Linkin Park abbiano ancora qualcosa da dire, è un altro paio di maniche.

Di sicuro la pubblicazione di questo From Zero (un titolo che vorrebbe evocare una ripartenza, un nuovo abbrivio, una sorta di resurrezione dalle ceneri) ha lasciato perplessi in molti, assillati dalla solita domanda circa la necessità di riesumare una band che, anche con Bennington vivo, aveva già dato il suo meglio con i primi due album (Hybrid Theory e Meteora, rispettivamente del 2000 e del 2003), vivacchiando in costante calo d’ispirazione per i quindici anni successivi, toccando definitivamente il fondo con il pessimo One More Light (2017).

Per converso, c’era anche molta curiosità di ascoltare Emily Armstrong, chiamata al difficile compito di sostituire Bennington dietro al microfono. Una scelta, questa, rischiosa ma furba, il cui scopo, a prescindere dalle doti canore della bionda vocalist, era quella di ridimensionare immediatamente ogni possibile paragone tra un nuovo cantante e il compianto frontman. Ed è questo il cambiamento più significativo del nuovo corso, che registra il primo punto a favore della band: la Armstrong ci sa fare, ha grinta da vendere e non pecca certo di mancanza di personalità. Il suo timbro è decisamente più rabbioso rispetto al tono disperato e malinconico delle interpretazioni di Bennington e, anche quando i giri del motore rallentano, non sfigura assolutamente nel rendere più morbida e vellutata la sua performance.

Le novità, però, si fermano qui. From Zero, infatti, è un disco che arriva direttamente dall’inizio del nuovo millennio, nulla è cambiato nel suono dei Linkin Park, la struttura dei brani si sviluppa su una formula che pare immutata nel tempo e la scaletta presenta i soliti pregi e difetti che già conosciamo. Le cose, tuttavia, vanno decisamente meglio rispetto al passato. I “vecchi” Mike Shinoda, Brad Delson, Dave Farrell e Joe Hahn vengono affiancati, oltre che dalla alla Armstrong, anche dal nuovo batterista Colin Britain, dando vita a un mix fra membri originali e sangue fresco, che ha prodotto significativi miglioramenti sotto il profilo dell’ispirazione.

Nel disco non ci sono brani epocali come "In The End", "Numb" o "Crawling", certo, ma l’insieme regge più che dignitosamente, anche grazie a un minutaggio decisamente contenuto (poco più di mezz’ora). Come detto, la formula è sempre la stessa, ma laddove gli hook melodici sono centrati e vivono in perfetta sintonia con gli slanci più rumorosi, escono dal cilindro della band ottime canzoni come "The Emptiness Machine", "Cut the Bridge" e "Two Faced".

Ovviamente, qualcosa è inevitabilmente risaputa più del lecito ("Heavy Is The Crown") e un paio di episodi ("Over Each Other" e "Stained") sono imbevuti di quel pop radiofonico tipicamente americano buono solo per la truppa; per converso, "Casuality", pur nella sua esposizione semplicistica, è rumorosa e scalciante, mentre "Good Things Go" è una piacevolissima ballata che chiude un disco tutto sommato riuscito, senz’altro il migliore dai tempi di Minutes To Midnight (2007).

From Zero è un nuovo capitolo della storia e probabilmente anche il primo di altri che verranno in futuro. In tal senso, va giudicato tenendo conto non solo del passato ma anche delle potenzialità che questa vecchia/nuova band riuscirà a esplicitare nel tempo. E’ inevitabile, dunque, che i Linkin Park siano andati sul sicuro e abbiano sfruttato al meglio un suono che è diventato un marchio di fabbrica. Tuttavia, se nei precedenti lavori era evidente una stanchezza di fondo, From Zero, nonostante gli alti e bassi, palesa una ritrovata vitalità, che aspetta solo, forse, di recidere definitivamente il cordone ombelicale con gli anni di gloria, per immaginarsi un nuovo domani più coraggioso.

Voto: 7

Genere: Nu Metal, Pop

 


 


Blackswan, mercoledì 27/11/2024

martedì 26 novembre 2024

I'm Easy - Keith Carradine (Asylum, 1976)

 


Diretto da Robert Altman, Nashville (1975) è un film dagli intenti satirici, che getta uno sguardo cinico e caustico su un gruppo di musicisti country e gospel, nei giorni precedenti una convention politica.

Keith Carradine interpreta Tom Frank, il chitarrista di un popolare trio folk-rock, che spera di intraprendere la carriera solista. Durante una celebre sequenza del film, Carradine suona I’m Easy, una tenera ballata d’amore, dedicata a una persona speciale tra il pubblico. Tom, però, è un mascalzone, un donnaiolo impenitente, che usa (e abusa) delle donne, molte delle quali, presenti in sala, pensano che la canzone riguardi loro. In realtà, il brano è rivolto alla sua prossima conquista, la cantante gospel Linnea Reese (interpretata da una bravissima Lily Tomlin), che, fino a quel momento, aveva resistito alle sue avances.

Altman, per dare alla pellicola un surplus di realismo, volle che il suo cast scrivesse ed eseguisse le proprie canzoni per il film, e Carradine fu entusiasta di rispolverare per l’occasione questa canzone d’amore, scritta anni prima. I’m Easy, infatti, fu composta dall’attore musicista per corteggiare Shelley Plimpton, la sua compagna di cast nella produzione originale di Broadway del musical hippie, Hair, del 1968. Mentre Carradine si struggeva per la Plimpton (e le dedicava la canzone), l'attrice stava già vedendo qualcun altro, e all’inizio sembrò fredda innanzi alle attenzioni del giovane songwriter. Alla fine, però, Carradine l’ebbe vinta, e anche se il rapporto fra i due durò poco, dalla relazione nacque una figlia, Martha Plimpton. Merito di quelle liriche, in cui il giovane affermava che non era disposto a prendere un impegno serio, se i suoi sentimenti non fossero stati ricambiati:

 

” Non prendermi in giro se non c'è nessun posto dove portarmi

Se amarti dovrebbe essere una cosa da fare qualche volta

Non posso mettere le sbarre alle mie viscere

Il mio amore è qualcosa che non posso nascondere

Fa ancora male quando ricordo le volte in cui ho pianto".

 

A 19 anni, quando compose la canzone, Carradine era un giovane ragazzo, appassionato e ingenuo, e quei testi, svelavano un’anima vulnerabile che offriva il proprio cuore alla donna amata (anche se poi il musicista, un po’ cinicamente, ha sempre affermato che "stava solo cercando di scopare"). Nelle mani di Altman, però, la canzone si trasformò in qualcosa di completamente diverso, e lo stesso Carradine rimase sorpreso quando il regista trasformò I’m Easynella supplica di un abietto narcisista".

"Non era la semplice canzone d'amore che avevo scritto: è diventata qualcos'altro. È diventata un'incredibile manipolazione", ha spiegato Carradine in un documentario del 2013 sulla realizzazione di Nashville. "C'era qualcosa di meravigliosamente cinico in questo, ma quello era Bob (Altman, ndr.)."

Altman e Carradine avevano già lavorato insieme nel film del 1974 Gang (Thieves Like Us). Durante una festa a casa del regista, l'attore tirò fuori la sua chitarra e iniziò a suonare alcuni dei suoi brani originali, tra cui proprio "I'm Easy". Altman rimase sbalordito dalla bellezza del brano, e quando l’anno dopo iniziò a girare Nashville, Carradine fu tra i primi a essere reclutato.

Questo fu l'unico singolo di successo del musicista californiano (ebbe anche un breve momento di gloria in Canada con Mr. Blue nel 1978), il quale sperava di poter intraprendere la carriera di cantante, che però non decollò mai, nonostante un paio di album discreti (I'm Easy del 1976 e Lost & Found del 1978). I’m Easy, però, nel 1976, vinse il premio Oscar per la miglior canzone originale, e sempre quell’anno si portò a casa anche il Golden Globe per la stessa categoria.

 


 

 

Blackswan, martedì 26/11/2024

lunedì 25 novembre 2024

Human Impact - Gone Dark (Ipecac Recordings, 2024)

 


Siete disposti a farvi percuotere a sangue i padiglioni auricolari per tre quarti d’ora? Ve la sentite di affrontare questa mattanza sonora, che non dà tregua, che non fa prigionieri, nonostante sia ispirata dal raggiungimento di un bene superiore? Se la risposta è no, abbandonate immediatamente questa recensione, perché non c’è nulla che fa per voi: nessuna melodia, nessuna condiscendenza, ma solo rabbia, furore e disperazione.

Il nuovo album degli Human Impact, Gone Dark (un titolo, un programma), è la disperata, ma non arresa, presa di coscienza che il mondo come lo conoscevamo è morto, che il limite è stato valicato irrimediabilmente, e che la speranza, che il grande Monicelli definiva una trappola, è una scoria residuale in una società ormai alla deriva. 

Per questo secondo capitolo della breve discografia degli Human Impact (registrato al Cedar Creek Studio di Austin in collaborazione con il produttore Andrew Schneider), Chris Spencer, chitarra e voce degli Unsane, e Jim Coleman dei Cop Shoot Cop, si sono fatti affiancare dal bassista Eric Cooper (Made Out of Babies, Bad Powers) e dal batterista Jon Syverson (Daughters), che hanno sostituito rispettivamente Chris Pravdica e Phil Puleo.

Basta una fugace lettura ai titoli delle canzoni per comprendere come Gone Dark guardi in faccia alla realtà senza compromessi, fotografando lo schifo e lo squallore di ciò che siamo costretti a vivere ogni giorno. Non ci sono filtri (e perchè mai dovrebbero essercene?), tutto è abisso, è dolore, è perdita. Gli Human Impact sono (giustamente) molto incazzati, ma lo sguardo è quello di una rabbia e di un’angoscia collettiva, la visione è quella del “noi”, il “noi” di un’umanità vessata, frustrata, corrotta al midollo, persa e sull’orlo del collasso. Lucida presa di coscienza, ma anche invito a reagire a non mollare, anche se, forse, tutto è ormai inutile. Un incubo solo apparentemente distopico, ma inquietantemente concreto, figlio di uno scenario che solo vent’anni fa sarebbe sembrato fantascientifico, ma che ora è pericolosamente alle porte.

"Collapse" mette in scena l’abisso, è una discesa negli inferi: “niente di ciò che facciamo può farci tornare indietro” ringhia Spencer, in un’apoteosi di feroce nichilismo, che appare come unica strada per il conforto. Qui, come in tutto il disco, il suono è compresso, oscuro, la batteria sovraesposta, i riff affilati con precisione chirurgica, la voce disturbata e disturbante, un urlo disperato che non trova mai il conforto della luce. Una miscela abrasiva di noise e furente post punk, tra echi dissonanti dei Shellac, furia cieca dei Killing Joke e i miasmi post hard core dei Jesus Lizard ("Hold On").

"Destroy Rebuild" è un vortice post punk che si risucchia inesorabilmente verso il basso, trasuda terrore e rabbia, mentre Imperative e le sue torbide trame industrial mettono in gioco la militanza politica (“We got lost / Broken industry / Not much thought / Sudden atrophy”), innalzando una barricata pronta al combattimento a fianco della classe operaia.

E se "Corrupted" mostra i muscoli e le vene in una travolgente ondata metallica di rabbia post punk a torso nudo, le dissonanze acide di "Reform" mettono in scena la sciagura di un mondo irreparabile, nei versi, gridati, sputati, belluini di Spencer: "Questo ambiente è fuori controllo / Guarda i fuochi dallo spazio".

Gone Dark ha il valore di un’ultima disperata lettera inviata all’umanità, un ultimo inane tentativo di invitare gli uomini ad aprire gli occhi, a ribellarsi al capitalismo che ci ha messo con le spalle al muro, a mostrare il muso duro e occhi di leoni a una società, che in nome del profitto, ci sta portando via tutto. E anche se, come recita, la conclusiva e angosciante "Lost All Trust", tutto appare perduto, questa musica, come quella di tante band che continuano a militare in un mondo di plastica musicale ed emotiva (Godspeed You! Black Emperor per tutti), ci insegna che una cosa possiamo ancora farla: resistere, per Dio, e rendergliela dannatamente complicata.

Voto: 9

Genere: noise rock, post punk

 


 


Blackswan, lunedì 25/11/2024

venerdì 22 novembre 2024

The New Roses - Attracted To Danger (Napalm Records, 2024)

 


Il tempo passa, le mode cambiano, la musica si evolve. Eppure, nonostante tutto, l’hard rock melodico di matrice ottantiana sembra resistere allo scorrere dei decenni e ai mutamenti della società, con una pertinacia da far impallidire tanti altri generi. Certo, è inevitabile che questa materia antica oggi venga plasmata da produzioni più moderne, ma quel suono, quell’impasto di riff graffianti, melodie uncinanti e radiofoniche e attitudine glam, gode ancora di invidiabile salute.

Il 2024, in tal senso, ha già visto alcune uscite davvero interessanti (Eclipse, Kissin’ Dynamite, Sebastian Bach, etc), a cui si aggiunge il nuovo lavoro dei tedeschi New Roses, band originaria di Wiesbaden, giunta alla sesta prova in studio.

Una storia abbastanza recente, quella del gruppo teutonico, iniziata nel 2007 con la consueta gavetta tra piccoli locali della zona, e che li ha visti, disco dopo disco, acquisire una popolarità sempre più internazionale. Attracted To Danger è, quindi, l’ennesimo passo avanti verso la gloria per una band che nel tempo ha mantenuto un livello altissimo d’ispirazione e che, anche sotto il profilo tecnico, ha ben poco da invidiare ad altre compagini più rodate.

Solo ascoltando il primo brano, “When You Fall in Love”, si può avere un'idea chiara di ciò che offre la casa: suono definito e pulito, melodie limpide e cori avvolgenti, ma anche quel tocco di sporco nei riff che è il linguaggio preferito di chi suona il Rock 'n' Roll. Le canzoni suonano dirette, guardando l’ascoltatore direttamente negli occhi.

La musica dei New Roses non presenta artifici, si veste di abiti semplici i cui colori hard rock e glam vengono screziati da un tocco di southern e di blues, e trovano il loro punto di forza in ritornelli facili da imparare e da cantare sotto il palco. Altro non serve. Così Attracted to Danger risulta ispirato, pieno di energia e vita, ma senza che le canzoni appaiano troppo sovraccariche in termini di arrangiamenti. E’ un disco potente, melodico, e non molla un colpo dall’inizio alla fine. Radiofonico, certo, ma intenso e divertente, esplicito nei suoi intenti, ovviamente, ma di grande efficacia.

Il mid tempo di "Natural Born Vagabonds" trabocca di passione ed è attraversato da un suono che più americano non si può, This Heart possiede un tiro pazzesco, pura melodia col piede pigiato sull’acceleratore, "Spirit Of A Rebel" è una grintosa dichiarazione d’intenti, il cui ritornello è di quelli da cantare a squarciagola sotto il palco, ondeggiando insieme alla folla, e "Hold Me Up" (cantata da Timmy Rough in duetto con Gill Montgomery delle Amorettes) è una super ballata, anche questa segnata da sonorità più americane che europee. C’è anche una grintosa cover di "Rockin’ In The Free World" di Neil Young, un scelta un po’ banale, forse, ma la cui resa è di sicuro impatto.

Attracted To Danger è un disco senza trucchi e senza inganni, semplice e lineare come deve essere. Nessun tentativo di scartare da una narrazione musicale rimasta immutata nel tempo, nessun tentativo di vestire le dieci canzoni in scaletta con l’aura dell’originalità. Questo è semplicemente rock melodico, che assicura ritornelli da mandare a memoria, headbanging compulsivo e sudatissime sessioni di air guitar. Quanto basta per passarlo in loop dalle casse dello stereo, con buona pace del vicinato.

Voto: 7

Genere: Hard Rock Melodico 




Blackswan, venerdì 22/11/2024

mercoledì 20 novembre 2024

Jerry Cantrell - I Want Blood (Autoprodotto, 2024)

 


Faccio subito ammenda e mi scuso con i miei pochi lettori: gli Alice In Chains sono una delle mie band preferite e Jerry Cantrell uno dei miei eroi di giovinezza. Capite, pertanto, che riuscire a parlare di questo I Want Blood (titolo ispirato a If You Want Blood degli Ac/Dc) con la dovuta distanza e obiettività è un affare piuttosto complicato. Già, perché qui mi sono bastate poche note della prima canzone in scaletta, affinchè una lacrimuccia scendesse verso il groppo in gola. Fortunatamente, questo quinto album solista, è dannatamente buono, e lo è anche se ad ascoltarlo fosse un recensore meno fanatico del sottoscritto.

Jerry Cantrell è unico e inimitabile (questo lo capirebbe anche un appassionato di rock alle prime armi), i suoi riff oscuri e vischiosi (eppure al contempo orecchiabili e trascinanti), insieme alla voce dell’indimenticato Layne Staley, hanno segnato la storia del grunge, aggiungendo armature di metallo a una musica già scorbutica e ruvida di suo. Cantrell, però, non è solo un immenso chitarrista, ma sa anche cantare: le sue armonie vocali a fianco del compianto Staley e, più di recente, dell’ottimo William DuVall sono l’altro marchio di fabbrica di un suono che ha fatto scuola.

Qui, però, non stiamo parlando degli Alice In Chains, non è questa la sede per un trattatello di storia, la recensione riguarda Cantrell, che dopo l’ottimo Brighten (2021), un disco decisamente più acustico del suo successore, torna con un album duro, coeso, potente, dimostrando, per l’ennesima volta, di saper cantare, suonare, e scrivere canzoni fantastiche.

L’album si apre con il tempo saltellante di "Vilified", una canzone che è esattamente quello ci si può aspettare da Cantrell: il classico suono Alice In Chains (sembra di aver messo sul piatto un outtake di Dirt!), i riff fangosi, che replicano il movimento di un uomo che annaspa nelle sabbie mobili, il mood oscuro e quella voce inconfondibile, prima spalla di Layne, e ora protagonista assoluta. Non vi viene da piangere per l’emozione? Non vi sudano le mani quando parte "Off The Rails", quando quel riff acuto e vischioso vi intrappola in un loop di ricordi, e quella voce raddoppiata vi riporta all’anno di grazia 1992, il tempo in cui eravamo giovani e pieni di speranza, il tempo in cui la musica degli Alice era la colonna sonora dei nostri giorni, quei giorni in cui, però, la speranza svaniva per lasciar posto al tormento, alla frustrazione, al dolore pungolante di sentirsi diversi e incapaci di comprendere il mondo?

Cosa vi avevo detto, prima? Sapevo che avrei sbroccato, perché nella sei corde del buon Jerry risuonano gli anni più intensi della mia vita. Torno lucido, non temete, perché qui c’è da parlare di una canzone immensa come "Afterglow", che porta con sè un carico di malinconia che vi sgretolerà le spalle: lenta, dolente, arresa, di una bellezza abbacinante, nonostante le tenebre che l’avvolgono, mentre un assolo emozionante come un ricordo dolce che affiora all’improvviso vi spappolerà il cuore.

Gli Alice In Chains, quelli legati a un tempo lontano, sono vivi e vegeti, verrebbe da dire, se non fosse che quando parte la title track, un ringhio in faccia profetico di imminente tragedia, tra le scorie grunge dell’assolo, saltino fuori miasmi stoner, che solo i Kyuss o quella pellaccia di Josh Homme. E quando la polvere della derapata inizia a dissolversi, "Echoes Of Laughter" apre il portone alla ballata. Non una ballata rassicurante, niente che somigli a una carezza o una mano sul velluto: i battiti del cuore rallentano, ma ovunque poggi lo sguardo, tutto è tenebra, malessere, inquietudine, come veder nuovamente Layne Staley sul palco di MTV, non sai se arriva alla fine, ma poi una fragile e ansiogena bellezza prende il sopravvento, e sei dannatamente felice di perderti in quel dolce malessere che chiamiamo malinconia.

L’esplosivo non è finito, ci sono ancora bombe nell’arsenale Cantrell, così quando tuona "Throw Me A Line", una molotov esplode ad altezza visceri, grazie a un riff che più malefico non potrebbe essere, mentre la successiva "Let It Lie" è pura sporcizia, come rotolarsi nel fango di un letamaio, quando la chitarra di Cantrell ci avviluppa, fino a ghermire ogni spiraglio di luce e farci sprofondare, arresi, nel buio cosmico di uno spazio eterno, senza fine. "Held Your Tongue" è l’anticamera dei saluti, più un addio che un arrivederci, con l’ennesimo riff che l’ha giurata ai colori dell’arcobaleno, ma che almeno per questa volta si piega davanti all’urgenza di un ritornello melodico, quasi serico nella sua improvvisa e inaspettata gentilezza. Chiude (perché solo nove canzoni, porca troia!) "It Comes", addio psichedelico, slabbrato, e melodicamente sghembo di un disco che nemmeno i caramba, chiamati dai vicini, a cagione dell’incauto volume delle mie casse, riusciranno a farmi togliere dal lettore per tutto il prossimo mese.

Ecco, è finita. Come vi ho anticipato, non sono riuscito a trattenermi: questa non è una recensione, ma un atto d’amore verso colui che ha riempito il mio cuore, e per sempre lo riempirà, di una strana e plumbea gioia, che ha che vedere con quella strana contorsione dell’anima che Petrarca definiva “voluptas dolendi”. Quindi, prendete con le molle il voto dato al disco, che è un nove, perché il dieci lo si può dare solo a Dirt o Jar Of Flies. Prendetelo con le molle, almeno fino a quando non lo ascolterete e, poi, mi direte se ho esagerato, Dio mi è testimone che non ho mentito, o se anche i vostri vicini hanno chiamato le forze dell’ordine, perché di I Want Blood, anche voi, non riuscite proprio a farne a meno. A volume esagerato.
 
Voto: 9
Genere: Grunge, Metal
 
 

 
 
Blackswan, mercoledì 20/11/2024

martedì 19 novembre 2024

Candle In The Wind - Elton John (DJM Records, 1973)

 


 

Candle In The Wind, lo sanno anche i sassi, celebra la figura di Marilyn Monroe, famosa attrice e sex symbol, morta per overdose nel 1962. E che sia dedicata alla bionda più iconica della storia del cinema, lo si comprende subito dal verso che apre la canzone, “Goodbye Norma Jeane”, che fa riferimento al suo nome all’anagrafe, Norma Jeane Mortenson, a cui Marilyn aveva rinunciato per inseguire i suoi sogni di gloria. Quei sogni, però, durarono un battito d’ali, visto che l’attrice morì giovanissima, all’età di trentasei anni. La sua sfortunata parabola fu, dunque, resa immortale da Candle In The Wind, candela nel vento, un titolo che descrive perfettamente la sua vita breve, infelice e movimentata. 

Il testo è stato scritto dal partner di Elton John, Bernie Taupin, che fu ispirato per il titolo da una citazione che aveva letto su Janis Joplin. Secondo Taupin, la canzone non nacque come un omaggio a Marilyn, ma era semmai un tentativo, peraltro riuscito, di indagare sulla fama e la celebrità in relazione alla fragilità umana. Taupin si rammaricò del fatto che Candle In The Wind lo presentasse al pubblico come un fan della Monroe, verso la quale portava rispetto, certo, ma di cui, in fin dei conti, gli importava poco.

Il paroliere utilizzò la figura dell’iconica attrice perché, meglio di altre, si adattava perfettamente al mood della canzone, che, in realtà, come disse durante un’intervista: "…avrebbe potuto facilmente parlare di James Dean o Jim Morrison o di Kurt Cobain, avrebbe potuto riguardare Sylvia Plath o Virginia Woolf, praticamente chiunque, qualsiasi scrittore, attore, attrice o musicista che sono morti giovani e in un certo senso sono diventati icone non dissimili da Dorian Gray, semplicemente hanno smesso di invecchiare. È una bellezza congelata nel tempo”.

Le liriche di Taupin, dunque, sviluppano il tema greco del “muore giovane chi è caro agli dei”, introdotto da Menandro e poi ripreso da Leopardi, ma anche la fascinazione che la fama ha sulle persone comuni, che idolatrano, proprio in conseguenza della prematura dipartita, artisti che, forse, restando vivi, avrebbero avuto ben altro destino in termini di fama.

Quando Elton lesse le liriche scritte dal suo partner, scrisse la musica molto velocemente, anche perché provava empatia per Marilyn, comprendeva lo stress che le venne causato dalla costante e invasiva attenzione mediatica, sentendo nel profondo del cuore che la Monroe doveva aver sofferto terribilmente per tutta la vita di questa esposizione che, se da un lato, ne aveva implementato la celebrità, dall’altro la tenne chiusa in una prigione dorata.

Incredibile, ma vero, il brano non fu mai pubblicato come singolo negli Stati Uniti fino al 1987, quando John pubblicò Live In Australia With The Melbourne Symphony Orchestra, disco dal vivo che spinse il brano fino al sesto posto delle classifiche statunitensi e al quinto nel Regno Unito, dove surclassò la precedente versione, pubblicata nel 1973, che arrivò solo all’undicesima piazza.

Candle In The Wind, come molti lettori sicuramente sanno, ebbe, anche successivamente, una nuova, inaspettata fortuna, quando John la eseguì ai funerali di Lady Diana, principessa del Galles, che rimase uccisa in un incidente stradale, il 31 agosto 1997, anch’essa, come Marilyn, all’età di trentasei anni. Diana, che aveva divorziato dal principe Carlo, pur rimanendo molto amata dal popolo inglese, grazie ai suoi sforzi umanitari e alla sua innata classe ed eleganza, era molto amica di Elton John, oltre che esserne sfegatata fan. Per quella dolorosa occasione, Bernie Taupin riscrisse parte del testo, in particolare l’incipit, il cui verso "Goodbye Norma Jeane" venne cambiato in "Goodbye England's Rose".

Questa nuova versione, eseguita da John il 6 settembre del 1997, rischiò seriamente di non vedere mai la luce. Buckingham Palace, infatti, inizialmente non voleva che Elton John cantasse la sua versione aggiornata di Candle In The Wind al funerale della principessa Diana. Secondo un servizio di Sky News, andato in onda dopo che alcuni documenti del governo britannico vennero resi pubblici nel dicembre 2021, la famiglia reale sarebbe stata molto preoccupata perché le nuove liriche erano "troppo sentimentali", tanto da poter ingenerare un surplus di empatia nei confronti della sfortunata principessa. Nel timore che la famiglia reale potesse porre il veto all'interpretazione del cantautore, l'Abbazia di Westminster ingaggiò un sassofonista solista, che, se si fosse reso necessario, era pronto a eseguire una versione strumentale della canzone. Fu l’intercessione dell’allora decano di Westminster, il reverendo Dr. Wesley Carr, a far cambiare idea ai reali, convincendoli che il brano eseguito da John avrebbe dato gran conforto al paese in lutto.

La nuova versione della canzone, prodotta, peraltro, da Sir George Martin, fu pubblicata come singolo dal titolo Candle In The Wind '97, con l’intento che il ricavato delle vendite venisse devoluto al Princess of Wales Memorial Fund. Nel giro di un mese il brano balzò alla prima piazza delle classifiche inglesi, rimanendo in cima per cinque settimane, mentre in America il successo fu ancor più travolgente, visto che Candle In The Wind si piazzò al primo posto di Billboard, rimanendovi per ben quattordici settimane. Il Guinness dei primati stimò che Candle In The Wind '97 vendette ben trentatre milioni di copie in tutto il mondo, seconda solo a White Christmas di Bing Crosby, arrivata a cinquanta milioni. Entrambi i numeri, tuttavia, sembrano ridicolmente gonfiati. Se Candle, infatti, come fu certificato, vendette sedici milioni di copie tra America e Regno Unito, significa che il singolo avrebbe dovuto vendere le restanti diciassette altrove, circostanza, questo, del tutto improbabile.

Quel che è certo è che la canzone raccolse circa trentotto milioni di sterline, devoluti interamente al Diana's Memorial Fund, insieme ad altri trentaquattro milioni di sterline provenienti da donazioni. Per questo motivo, nel 1998, Elton John fu nominato cavaliere dalla regina Elisabetta II.

 


 

 

Blackswan, martedì 19/11/2024

lunedì 18 novembre 2024

MC5 - Heavy Lifting (earMusic, 2024)


 

Per raccontare la fulminea ma intensa parabola degli MC5, una delle band più seminali della storia del rock, con solo tre album all’attivo, fra il 1969 e il 1971, ci vorrebbero litri di inchiostro. Gruppo rivoluzionario, artefice di un suono furente, sporco e aggressivo, un impasto incendiario tra garage, proto punk e black music, e fautore di posizioni politiche estreme e militanti, con il solo Kick Out The Jam, disco dal vivo risalente al 1969, gli MC5 sono diventati nel tempo pietra miliare, che ha ispirato schiere di epigoni, come Ramones, Dead Kennedys, Rage Against The Machine e Hellacopters, tanto per citarne qualcuno.  

Un’avventura breve e intensissima, segnata da show rabbiosi, da polemiche a non finire, da un suono dinamico, esplosivo e rivoluzionario, tanto quanto i testi politicizzati (il loro manager era John Sinclair, leader delle Patere Bianche) che divennero megafono di protesta in un momento storico in cui la protesta era all’ordine del giorno.

Morti il chitarrista Fred “Sonic” Smith e il cantante Rob Tyner, figure iconiche della band, i superstiti si sono ritrovati nel 2018, tornando sul palco per una serie di concerti da tutto esaurito, e per comporre quelle canzoni che poi sarebbero confluite in questo Heavy Lifting, il primo album a firma MC5 dopo ben cinquantatre anni d’attesa.

Purtroppo, né Wayne Kramer, chitarrista e artefice principale di questo progetto, né il batterista Dennis “Machine Gun” Thompson (presente in due brani dell’album) sono sopravvissuti per vedere la pubblicazione di questa nuova creatura (sono deceduti rispettivamente il 02/02/2024 e il 09/05/2024) e assistere, soprattutto, all’ingresso degli MC5 nella Rock And Roll Hall Of Fame.

Heavy Lifting, dunque, è a tutti gli effetti un disco postumo, prodotto dal grande Bob Ezrim e nobilitato dalla presenza di un parterre de roi di musicisti (Tom Morello, Vernon Reid, Slash, William DuVall, Tim McIIrath), che alla band di Detroit devono molto della loro caratura artistica (emblematica la scritta sulla copertina interna del cd: We Are All MC5).

Una premessa è doverosa. Sarebbe ingeneroso e anche un po’ insensato pretendere che queste tredici canzoni siano attraversate dallo stesso suono e dalla furia iconoclasta di cinquant’anni fa. Non c’è un’altra "Kick Out The Jams", per intenderci, ma permane da parte di Kramer e dei suoi ospiti la volontà di tener fede a un’idea politica (questa militanza è ancora palpabile nei testi), e di concepire un disco che, plasmato da un suono più moderno, esprima quantomeno la stessa forza d’impatto. E se è vero che manca un po’ di coerenza nella scaletta, a causa della presenza di diversi ospiti e delle tante idee nate dal cuore e dal cervello di chi sa che il suo tempo è segnato, non manca però la voglia di stare ancora in prima linea, di riportare alla luce quello straordinario suono di una chitarra che ha fatto scuola e di dare un ultimo colpo di coda, potente, grintoso, definitivo.

Non è un capolavoro, Heavy Lifting, e nessuno mai lo avrebbe preteso, ma un riuscito disco di rock, insufflato da groove funky, e striato da graffi psichedelici e blues, questo sì.

La title track apre il disco con la presenza alla chitarra di Tom Morello: "Heavy Lifting" è un brano che richiama alla mente, quasi inevitabilmente, i Rage Against The Machine, in una sorta di passaggio di consegne fra il suono di un padre al figlio putativo, alla band, cioè, che più di ogni altra ha incarnato lo spirito musicale e politico degli MC5. Un pezzo duro, picchiato, un po’ lontano dagli standard del gruppo originario di Detroit, ma interpretato benissimo da Brad Brooks, la cui voce ispida è perfettamente funzionale al progetto.

Il suono più tipicamente MC5 viene recuperato in alcuni ottimi episodi come "Barbarians At The Gates" (mamma mia, quella chitarra!) e "Can’t Be Found" (questa con Machine Gun alla batteria e uno spettacolare assolo di Vernon Reid). E se il funky è protagonista assoluto in brani come la trascinante "I’am The Fun (The Phoney)" e la breve e uncinante "Black Boots", la sovrapposizione delle due voci, di cui una in falsetto, in "Because Of Your Car" fa addirittura eco a dei Blood Brothers che suonano black music e non post hardcore.

Resta ancora da accennare alla strepitosa "The Edge Of The Switchblade", ospiti Slash e William Duvall (Alice In Chains), una tirata rock da far tremare le vene dei polsi e, di sicuro, il brano più riuscito dell’album.

Da segnalare per gli appartenenti a quella razza in via d’estinzione, alla quale appartiene il sottoscritto, che i dischi ancora li comprano, che la versione deluxe dell’album offre un secondo cd contenente un live dal recente tour dei 50 anni, denominato MC50, registrato con Matt Cameron, Billy Gould, Kim Thayil e Brendan Canty. Una vera e propri fucilata a pallettoni che, ascoltata a volume alto, può nuocere gravemente alla salute dei padiglioni auricolari.

Alla luce di tutte le premesse espresse precedentemente, Heavy Lifting è un disco che piacerà di più agli amanti del rock duro e della contaminazione che agli ascoltatori nostalgici degli MC5, i quali probabilmente non si rassegneranno al fatto che il suono di 50 anni fa non può essere più quello di oggi. Poco male. Sono convinto che Wayne Kamer e Machine Gun sarebbero stati orgogliosi di questo disco, non memorabile certo, ma vitale e incazzato, e avrebbero riso in faccia a eventuali detrattori, facendo presente che chi ha fatto la storia, la storia la può modificare a proprio piacimento. Per chi scrive, questo è un disco godurioso, che fortunatamente ricaccia in gola il groppo della nostalgia e che ci restituisce, mutato, ma divampante, il sacro fuoco del rock. Che la terra vi sia lieve, motherfuckers.

Voto: 7,5

Genere: Classic Rock, Hard Rock 




Blackswan, lunedì 18/11/2024

giovedì 14 novembre 2024

Tana French - Il Cacciatore (Einaudi, 2024)

 


È un’estate di fuoco quella in cui i due uomini arrivano al villaggio. Dicono di essere venuti per cercare l’oro. Ma quel che portano, pensa Cal, non sono che guai. Sono passati due anni da quando l’ex detective Cal Hooper si è trasferito nella contea irlandese di Ardnakelty in cerca di tranquillità. Ha trovato qualcosa che ci va molto vicino: una casa che è diventata un rifugio e una relazione con una donna del posto, Lena, che lo fa stare bene. Poi c’è il suo legame con Trey, l’adolescente ruvida e selvaggia che sta cercando di proteggere. Ma adesso che dopo anni di silenzio è ricomparso suo padre, Trey non vuole nessuna protezione. Vuole solo vendetta.

 

Quello di Tana French, cinquantunenne scrittrice di origine irlandese, è un nome noto agli appassionati del poliziesco di qualità, avendo creato, a partire dal 2007, la fortunata serie dedicata alla Squadra Omicidi di Dublino, da cui è stata tratta la serie tv Dublin Murders.

Tuttavia, questo nuovo Il Cacciatore è un thriller anomalo, impossibile da inquadrare entro i confini di un genere che possiede regole ben precise, nello specifico, decisamente disattese. Viene commesso un crimine, un brutale omicidio, ma questo avviene, non all’inizio, come ci si potrebbe aspettare, ma oltre la metà del libro, il quale, peraltro, ha una lunghezza decisamente importante. Ci sono le indagini, certo, condotte dal brillante e sfuggente ispettore Nealon, e verrà svelato anche il colpevole (peraltro, decisamente inaspettato), ma tutti questi eventi sono funzionali a una narrazione che ha ben altri intenti.

Protagonisti della vicenda, sono l’ex poliziotto americano Cal Hooper, che si è trasferito nella contea irlandese di Ardnakelty per godersi la meritata pensione, Lena, la sua donna, una vedova del posto, che cerca di vivere disconnessa dalle dinamiche del piccolo paese, la giovane Trey, ribelle adolescente, che condivide con Cal la passione per la falegnameria, e Johnny Reddy, il padre di Trey, un piccolo maneggione, tornato a casa, dopo un lungo periodo di assenza, portando con sé una ventata di guai, che diventeranno esiziali.

Attorno a queste figure principali, ruota la vita, apparentemente placida, della comunità di Ardnakelty, che è il primario fulcro d’interesse della scrittrice irlandese. Un paesino in cui tutti si conoscono e che vive con un proprio codice d’onore, strutturato su dinamiche ancestrali e sull’appartenenza alla terra. Un luogo in cui, a fronte della bellezza di paesaggi non ancora straziati dalla mano dell’uomo, vive una piccola collettività chiusa e ostile, che fa del non detto, della comunicazione sibillina, della minaccia trasversale e di rancori mai sopiti nel tempo, il motore di un’esistenza che rifiuta lo straniero, tollerandone solo apparentemente la presenza, e che tende a escludere quelle poche persone che non si allineano al pensiero comune.

Un mondo che ricorda quello efficacemente evocato da Giorgio Diritti ne Il Vento Fa il Suo Giro, emozionante pellicola datata 2005, o da Rodrigo Sorogoyen, nel più recente e inquietante As Bestas, e che la French riesce a raccontare e a rendere comprensibile anche al lettore italiano, lontanissimo da quella realtà arcaica e intrinsecamente violenta.

La maestria della scrittrice irlandese consiste anche nel tratteggiare con misura e arguzia non solo le dinamiche famigliari e interpersonali, ma anche la complessità psicologica di personaggi indimenticabili come l’irrequieta e vendicativa Trey, e suo padre Johnny, uomo fascinoso, ma meschino, debole e privo di qualsivoglia filtro etico. Una lettura affascinante e magnetica, che non ha bisogno di particolari colpi di scena per trascinare il lettore in una vicenda che procede a lenta combustione, ma che centra l’obiettivo sociologico che si era prefissata con estrema efficacia.

 

Blackswan, giovedì 14/11/2024

mercoledì 13 novembre 2024

My Brightest Diamond - Fight The Real Terror (Western Vynil, 2024)

 


E’ il 26 luglio del 2023, quando a Detroit, come conseguenza di una tempesta, alcune zone della città restano al buio. E’ da poco giunta la notizia della scomparsa di Sinead O’Connor, e Shara Nova, al secolo My Brightest Diamond, si trova improvvisamente al buio, in uno stato di impotenza, frustrazione e paura. Pensa alla grande musicista irlandese e pensa alla caducità dell’essere umano, alla fragilità dell’esistenza moderna, legata a doppio filo con la tecnologia e da questa totalmente dipendente. Sono ore di profondo smarrimento, di riflessioni che si affastellano in testa disordinatamente, aumentando il senso di impotenza. Shara, allora, prende la chitarra e inizia a suonare, e mentre fuori il buio ghermisce, avviluppandola, la vita della gente, getta le fondamenta per quelle canzoni che faranno poi parte di questo nuovo Fear The Real Terror, sesto album in studio della cantautrice e polistrumentista newyorkese.

Il risultato è un disco che si discosta notevolmente dal precedente A Million And One (2018), un lavoro decisamente più solare e votato al dancefloor, e la scaletta è attraversata semmai da una tensione a tratti crepuscolare ed è vestita di abiti sobri e disadorni. Si percepisce, poi, un diffuso senso di sospensione, conseguenza naturale di quelle ore passate al buio a riflettere e a suonare, eppure il disco, nella sua icastica brevità, è comunque scosso da una fremente sincerità, mentre la visione d’insieme si mantiene comunque lucida ed efficace.

La voce potente di Shara Nova apre il disco attraverso i palpiti della title track, un brano ispido, scartavetrato da una chitarra distorta e da un iniziale approccio folk che sembra voler omaggiare l’iconica O’Connor. La successiva, rabbiosa "Rocket In My Pocket" è una sportellata elettrica che tira in ballo un certo rock alternativo anni ’90 e un suono che evoca la PJ Harvey di quei leggendari anni. Un inizio al vetriolo, subito, però, ammorbidito dalle atmosfere ipnagogiche di "Even Warriors", una carezza al velluto che sfiora l’anima, e dalla drammatica "Immaginary Lover", la cui ritmica pulsante si fa extrasistole e una chitarra sfocata in sottofondo evoca tormento e commozione.

Non ci sono passi falsi in questo disco umorale, che spazia dalla filastrocca scorbutica di "Rule Breaker" al blues in punta di piedi di "Safe House", fino agli sfarfallii vocali della commovente "Have You Ever Seen An Angel".

Chiudono la scaletta altri tre brani di grande ispirazione, e cioè la cupa "Sublime", avvolta da brume autunnali, "There’s No Place I’d Rather Be", una sorta di sospensione trasognata fluttuante a mezz’aria, e "I Saw a Glimpse", un folk dalle trame celtiche che si dipana attraverso il timbro evocativo della Nova, qui alle prese con un’interpretazione vocale da capogiro.

Tom Schick, che ha prodotto il disco, ha evitato un lavoro invasivo, preferendo mantenere integra l’autenticità dei demo che My Brightest Diamond aveva registrato in solitudine, mettendo così in risalto la schiettezza e la drammaticità di un’ispirazione tornata al livello dei primi album.

Voto: 8

Genere: Indie Rock, Pop

 


 


Blackswan, mercoledì 13/11/2024

lunedì 11 novembre 2024

Down By The River - Neil Young (Reprise, 1969)


 

“Down by the river
I shot my baby
Down by the river
Dead
(Ooh, shot her dead)”

 “Ho sparato alla mia ragazza, giù al fiume”. Un ritornello di questo tenore non solo carpisce immediatamente l’attenzione dell’ascoltatore, ma lo fa anche sobbalzare sulla sedia. Perché il tema sembrerebbe quello di un femminicidio, l’atto inconsulto di un uomo che, vicino al greto di un fiume, lontano dalla vista di tutti, spara alla propria ragazza.

Fu lo stesso Neil Young, qualche tempo dopo la pubblicazione del brano, però, a fare chiarezza, spiegando che Down By The River era in realtà una sorta di supplica, un grido di disperazione di un uomo che stava perdendo il proprio amore, che veniva lasciato dalla donna che ama. C’è rabbia, c’è incredulità, c’è tanto dolore, ma se di omicidio si parla, questo è solo figurato, vive solo nell’immaginazione di un uomo che sta emotivamente tracollando.

Questa prima interpretazione è quella sicuramente più immediata, quella apparentemente più logica. A riflettere con attenzione, però, si potrebbe dare un senso diverso a Down By The River, che, non è un’ipotesi campata in aria, potrebbe metaforicamente parlare di droga e di dipendenza.   

Se di primo acchito, infatti, questa canzone sembra parlare di uno psicopatico che ha ucciso il suo amore e soffre per il rimorso del gesto estremo, il senso cambia completamente qualora l’amore diventasse il sinonimo di qualcosa che crea dipendenza, sia questa droga, alcol o un’ossessione. Ecco, allora, che la canzone si tramuta in un atto di ribellione contro quella dipendenza.

Stai al mio fianco, io sarò al tuo fianco, piccola

Non hai motivo di nasconderti

È così difficile per me stare qui tutto solo

Quando potresti portarmi a fare un giro

Lei potrebbe trascinarmi oltre l’arcobaleno

E mandarmi via

 

La prima strofa è l’accettazione della dipendenza, che è palese, evidente, e che genera una piacevole assuefazione (Lei potrebbe trascinarmi oltre l’arcobaleno). Il ritornello, però, spariglia subito le carte sul tavolo: l’omicidio, o presunto tale, è in definitiva nient’altro che la disintossicazione, il rifiuto di quella droga che tiene il protagonista del brano chiuso in una prigione dorata.

Prendi la mano, io prenderò la tua

Insieme potremmo andarcene via

Tutta questa follia fa troppo male

È impossibile farcela oggi

 

Le sensazioni sono confliggenti, la dipendenza è reale, avvinghiata e risoluta a non mollare la presa, ma è una follia che fa male, di cui bisogna liberarsi. Ecco perché il protagonista, ribadisce nel ritornello che deve sparare alla propria “ragazza”, unica strada per tornare a essere finalmente libero.

Neil Young, che scrisse il brano in un giorno in cui era stato vittima di una febbre altissima, provò a registrare la canzone con i Crazy Horse, durante le sessioni di un altro suo brano epocale, Chinnamon Girl. Mentre quest’ultimo fu registrato in un batter d’occhio, la band non riusciva a trovare la chiave di lettura per Down By The River, nonostante i svariati tentativi. Furono i membri dei Crazy Horse che, dopo una giornata di inutili sforzi, decisero di proporre a Young una versione rallentata del brano. Che divenne molto più lunga, e trovò finalmente tutto lo spazio necessario per respirare.  




Blackswan, lunedì 11/11/2024

venerdì 8 novembre 2024

Leprous - Melodies Of Atonement (InsideOut, 2024)

 


Inseriti nel gran coacervo delle band progressive metal, disco dopo disco, i norvegesi Leprous hanno fatto di tutto per prendere le distanze da quella definizione tanto sommaria quanto, nello specifico, ormai insensata. Se i primi due album, Tall Poppy Syndrome del 2009 e Bilateral del 2011, potevano essere inseriti nel filone senza che qualcuno gridasse allo scandalo, oggi, i momenti più “metallici” della loro proposta possono essere considerate delle scorie, dei cascami stilistici che arricchiscono la loro musica, ma che sono assolutamente residuali. Negli ultimi anni, la musica della band ha sempre seguito traiettorie più propriamente progressive e alt-rock, accompagnate da testi cerebrali e impegnati, da un largo uso di arrangiamenti sinfonici e da un surplus di melodrammatica teatralità, che resta, anche in questo nuovo Melodies Of Atonement, uno degli elementi distintivi della loro musica.

Niente metal, dunque, ma un rock di gran classe, confezionato con estrema cura, e punteggiato da un mood malinconico e da atmosfere umbratili. Persistono gli elementi progressive, anche se sono molto meno evidenti che in passato: Melodies Of Atonement è un disco un po' più diretto e meno opulento rispetto ai loro ultimi album, in quanto elimina molto, se non del tutto, l’impianto orchestrale, in favore di elementi di elettronica, su cui si sviluppa un’accattivante e complessa architettura ritmica, questa sì, mutuata dal genere progressive. I synth rispetto alle chitarre, che sono utilizzate con misura e intelligenza, diventano il piatto forte in scaletta, mentre la voce straordinaria di Einar Solberg, la facilità con cui modifica il proprio timbro espressivo, la potenza della sua estensione e la padronanza tecnica con cui affronta anche linee complesse sono la chiave di volta di un disco in cui l’elemento vocale diventa lo strumento principale e quello che dà il segno distintivo alla proposta.

Occorrono svariati ascolti per cogliere le diverse sfumature di ogni canzone in scaletta, dal momento che, fatta eccezione forse per l'apertura "Silently Walking Alone", tutti i dieci brani sono costruiti più o meno nello stesso modo, con una partenza tranquilla che si muove lenta per poi gonfiarsi in un crescendo, in cui accadono tutte le cose più interessanti. Non è una novità, visto che questo escamotage è uno dei marchi di fabbrica della band, ma ci vuole pazienza per entrare nel mood, in considerazione anche del fatto che il cuore dell’album è composto da brani della durata media di sei minuti (si ascoltino in tal senso "Limbo" e "Faceless").

Quando il disco inizia a entrare in circolo, però, emerge anche la straordinaria classe di una band che sa pescare dal cilindro melodie avvincenti ("Atonement"), creare atmosfere crepuscolari cariche di livide suggestioni ("My Specter") o mettere in scena fantasiosi arrangiamenti e stranianti melodie pronte a deflagrare in una violenza tanto repentina quanto inaspettata ("Like A Sunken Ship", in cui le scorie metal si sentono, eccome).

In definitiva, Melodies Of Atonement è un disco riuscito, in perfetta linea con ciò che oggi sono i Leprous, una band consapevole e raffinata, che, con questo ultimo lavoro, sembrerebbe aver trovato la quadra definitiva del proprio suono. Forse, qualche sferzata di energia metal in più avrebbe potuto dare maggior corpo alla seconda parte del disco, che, seppur piacevole, sembra procedere con il pilota automatico. Parere personalissimo, che nulla toglie a un album che, a parte una copertina non bellissima, si fa ascoltare più volte, e ogni volta con rinnovato piacere.

Voto: 7,5

Genere: Rock, Progressive

 


 

 

Blackswan, venerdì  08/11/2024

mercoledì 6 novembre 2024

Wunderhorse - Midas (Communion Records, 2024)

 


Quando nel 2022 esce Cub, opera prima targata Wunderhorse, in molti avevano alzato il sopracciglio per la sorpresa: il ventiquattrenne Jason Slater, reduce da una stagione frenetica ed esaltante con i Dead Pretties, tornava a dare lustro a un certo suono anni ’90, imparentato con il rock alternativo e il grunge. Un’operazione di recupero suggestiva e tutt’altro che sciatta, che aveva esaltato la proposta, portando il giovane musicista agli onori delle cronache (indie), laddove, forse, nemmeno lui pensava di poter arrivare.

Quello era un progetto prevalente solista, ambizioso, certo, ma in una fase ancora embrionica, per quanto suggestiva. Questo nuovo Midas, pur partendo dalla medesima consapevolezza e da un inesausto amore per gli anni ’90, alza ulteriormente il livello dell’asticella, affinando le idee del primo album e innalzandole a una forma più compiuta, per quanto, comunque, figlie di un’espressività diretta, grezza e senza fronzoli.   

Registrato in Minnesota presso i leggendari studi Pachyderm (Nirvana, PJ Harvey), Midas è il primo album dei Wunderhorse come band fatta e finita. Al fianco di Slater, infatti, ci sono Harry Fowler (chitarra), Jamie Staples (batteria) e Pete Woodin (basso), un quartetto che sembra nato anni fa, tanta ed evidente è l’unità d’intenti. Così, dopo il notevole e inaspettato successo di Cub, che ha spinto il gruppo in turnèe a fianco di artisti del calibro di Fontaines D.C. Pixies e Foals, i Wunderhorse sono diventati un tutt’uno e non solo l’espressione del loro leader, circostanza che ha portato a una visione più ampia, in qualche modo più rotonda.

Voce strascicata e ruvida, sferzate elettriche e riff uncinanti, sono il contorno per melodie scartavetrate ed emozionanti.

La title track apre il disco con una raffica di progressioni di accordi e un ritornello abbaiato ma efficace. Rapidi, disadorni e diretti, Slater e i suoi sodali posseggono una straordinaria efficacia nell’asciugare il suono da ogni orpello e lasciare che la scarna struttura ossea delle canzoni faccia il lavoro più importante: cogliere l’attimo col fascino distorto della presa diretta, senza che alcun lavoro di post produzione venga a inficiare la veridicità della proposta, accentuata da testi appassionati e taglienti.

"Silver", ennesimo singolo, è un’altra canzone che arriva subito al cuore con una splendida melodia, mentre in "Rain" la band crea una sorta di vortice intorno alla voce del Slater, che canta “Do you feel the rain?” con una tensione che brilla nella polvere e nella sporcizia che la canzone solleva. 

Midas è un album che, prevalentemente, racchiude al suo interno un senso di vulnerabilità, come se questa fosse un parto oscuro della mente di Slater. Una vulnerabilità sia in termini di suono, spesso sfilacciato e claudicante, seppur nascosto da chitarre aggressive, che nei testi, come avviene, ad esempio, in "Emily", punto di collisione fra Nirvana e Fontaines Dc (e i Nirvana tornano, quasi clonati, nella splendida "Arizona"), quando il frontman canta “All'interno di questo macchinario, Tutti sono pazzi, Non io, forse" o in July con quell’affermazione tranchant che recita “Sono pronto a morire”. Slater è abile nel mettere in luce la propria anima anche in un breve periodo di parole, un talento che è cresciuto incredibilmente quando la band ha trovato la sua forma definitiva.

In un mondo in cui apparentemente il pregio è less is more, i Wunderhorse sono un richiamo al passato che evoca magnificamente il meglio della cultura rock degli anni ’90, asciugandolo da inutili fronzoli e portando alla luce l’essenza di un suono. Tutto è ovviamente derivativo, ma nulla fa pensare a una blanda replica di una gloria che fu. Le canzoni sono asciutte, scelgono il rumore per nascondere la melodia, e non hanno bisogno di altro, se non della sincerità, per fare il pieno di consensi. Giocano quasi a nascondersi, ad avvolgere la loro espressività spartana in un anfratto di clandestinità. E se i riferimenti della loro proposta emergono in modo chiaro, quasi ineluttabile, non è la nostalgia a vincere la partita, ma il piacere di ascoltare canzoni che sanno evocare emozioni, forse risapute, ma comunque genuine.

Voto: 7,5

Genere: Rock, Alternative, Grunge

 


 

 

Blackswan, mercoledì 06/11/2024

martedì 5 novembre 2024

Myles Kennedy - The Art Of Letting Go (Napalm Records, 2024)

 


Il senso di Myles Kennedy per il rock. Così potremmo succintamente definire il terzo album solista del cantante degli Alter Bridge. Se Year Of The Tiger (2018) era uno sfogo acustico dopo una carriera prestata all’elettricità, e The Idles Of March (2021), uscito in piena pandemia, lambiva territori contigui al southern, questo nuovo The Art Of Letting Go vede Kennedy alle prese con quello che sa far meglio: suonare rock e suonarlo potente e senza fronzoli.

La mano, in zona produzione, è quella del fidato Michael “Elvis “ Basquette, mentre a fianco del cantante e chitarrista si allineano due musicisti con i contro zebedei, Zia Uddin alla batteria e Tim Tournier al basso.  Il risultato è un disco diretto e immediato, semplice ma non privo di stratificazioni, trainato da un’energia debordante che dà lustro alla solita, ineguagliabile voce, al tiro degli strumenti, tanto tecnico quanto grintoso, e a una produzione capace di rendere super moderno quel suono da power trio, le cui radici proliferano in un terreno vecchio di decenni.

Ogni canzone gronda pathos ed è spinta da una tensione quasi palpabile, figlia di quel senso di libertà che si prova quando si fa ciò che si ama, senza vincoli, senza nessuno a cui dover rendere conto. E’ rock, puro e semplice, che nasce solo ed esclusivamente dal piacere di suonarlo, sprizzando sudore, appiccando incendi, strattonando l’ascoltare verso una purezza che manca a molta musica che si ascolta oggi.

Senza distogliere completamente lo sguardo dall’inevitabile retroterra blues ("Saving Face"), The Art Of Letting Go è un disco che picchia duro, e che si muove sui quei terreni che Kennedy frequenta a capo degli Alter Bridge o come spalla di Slash. Non mancano, ovviamente, momenti più rilassati, in cui è la melodia soprattutto ad accarezzare lo orecchie, come avviene nella malinconica "Eternal Lullaby", un episodio che rallenta il passo di un disco che, per converso, corre selvaggio, tenendo un ritmo impetuoso che non fa prigionieri.

Il piatto forte, è quasi banale sottolinearlo, è la splendida voce di Kennedy, il cui timbro è tra i più immediatamente riconoscibili del panorama rock, e la sua performance che, come di consueto, lascia a bocca aperta, per tecnica, estensione, fantasia e per quella innata versatilità, grazie alla quale, anche nello stesso brano, può contemporaneamente accarezzare e scuotere selvaggiamente l’ascoltatore.

Ci sono, però, anche le canzoni, quasi tutte di livello, a partire da "Behind The Veil", che inizia morbidissima e poi parte in derapata a cento all’ora, fondendo echi settantiani e piglio moderno, l’ariosa e trascinante "Miss You When You’re Gone", un brano che sembra scritto apposta per essere ascoltato in macchina, i finestrini abbassati e un vento di elettricità nei capelli, la scalpitante "Mr.Downside" o la galoppante "Nothing More To Gain", che tira dritta come un fuso verso un ritornello uncinante.

Senza nulla togliere ai due precedenti album solisti, entrambi decisamente buoni, The Art Of Letting Go è il disco migliore del cantante originario di Boston, quello che suona più Myles Kennedy di tutti, quello che ne conferma lo status di autentica potenza in ambito hard rock. Alzate il volume e lasciatevi travolgere da questa ondata di vibrante elettricità: pochi dischi rock, usciti quest’anno, sono all’altezza di cotanta potenza di fuoco.

Voto: 8

Genere: Rock, Hard Rock

 


 

 

Blackswan, martedì 05/11/2024