sabato 5 ottobre 2013

DISCOGRAFIE : GENESIS




Con DISCOGRAFIE il killer introduce una nuova etichetta musicale, il cui scopo non è certo quello dell’approfondimento critico o dell’esaustività nozionistica per completisti, ma quello invece di dare una traccia, agile e di rapida consultazione, a quanti siano desiderosi di crearsi una discografia consapevole, investendo il proprio denaro in dischi per cui potrebbe valere la pena spendere. Uso il condizionale perché i giudizi che troverete espressi in questa pagina, tramite lo strumento meramente indicativo del voto, sono personalissimi e nascono non solo da anni di ascolto e di apprendimento, ma soprattutto dal gusto personale di chi scrive.





GENESIS

Genere : Prog-rock, Pop
Periodo di Attività : 1969 - 1997


Prima puntata di Discografie è dedicata ai Genesis, gruppo di rock progressive fondato alla fine degli anni ’60 da Peter Gabriel (voce e flauto), Tony Banks (tastiere) e Mike Rutheford (chitarra e basso), a cui nel 1971 si aggiungeranno altri due pezzi da novanta, Steve Hackett (chitarra) e Phil Collins (batteria,voce).




La prima uscita discografica del gruppo è From Genesis To Revelation (1969, Voto : 4), concept album dai contenuti biblici, banale e zeppo di melensi richiami melodici che fanno ricordare i primi Bee Gees. Album che solitamente il fan dei Genesis acquista per ragioni di completismo, ma che viene accantonato dopo un fugace ascolto. Il passo successivo, e vero e proprio esordio di un sound che diventerà marchio di fabbrica, è Trespass (1970, Voto : 6,5), un disco delicato, suonato prevalentemente in punta di plettro, fatta salva la violenza quasi proto-punk di The Knife, che diventa uno dei cavalli di battaglia del gruppo nelle performance live. Con Nursery Crime (1971, Voto : 8) , Antony Philips (non male il suo esordio solista,The Geese And The Ghost, 1977, Voto : 7), il primo chitarrista della band se ne va, e subentrano Collins e Hackett. Le sonorità acquistano in perizia tecnica (qualunque cosa si possa pensare di Collins come autore non dimentichiamo che è stato un batterista coi contro cazzi) ed eclettismo, mentre Gabriel giganteggia con testi sempre più affascinanti ed evocativi, e una teatralità scenica che diventerà ben presto leggendaria. Tra le perle del disco, la favola vittoriana di The Musical Box, i colori a tempera di Harlequin e For Absent Friends, la grandeur mitologica di The Fountain Of Salmacis. 

Il passo successivo è il primo di una trilogia di capolavori. Foxtrot (1972, Voto : 9) è un caleidoscopio senza fine di lirismo( Can Utility And The Coastliners), affabulanti arpeggi (Horizon’s), ritmi spezzati e anarcoidi (Get’em Out By Friday), intuizioni sonore “celestiali” (il mellotron che apre Watcher Of The Skies), che trovano come chiosa l’imprescindibile Supper’s Ready, monumentale ed eterogenea suite che diventerà il biglietto da visita della band negli anni a venire. Dopo un discreto live, in cui si prende atto dell’istrionismo ormai incontenibile di Gabriel (Genesis Live, 1973, Voto : 7), la band sforna un altro album leggendario, Selling England By The Pound (1973, Voto : 9), in cui antiche storie di violenza popolare (The Battle Of Epping Forest, con Gabriel a “rappare” in cockney), divertissement pop (I Know What I Like), elegie pastorali (Firth Of Fifth), mitologia intrisa di romanticismo (The Cinema Show) e critica sociale (l’immensa Dancing With The Moonlit Knight) formano un filotto di canzoni diseguale ma al contempo estremamente suggestivo. Nel pollaio ci sono adesso troppi galli e Gabriel ha in mente una musica che esca dagli schemi chiusi e ormai frusti del prog rock. Esce The Lamb Lies Down On Broadway (1974, Voto : 10) ed è l’ultimo disco con l’arcangelo Gabriele alla voce. Concept album lunghissimo (è il primo doppio della band), complesso, a metà fra ruvidità rock (Back In New York City, In The Cage) e complesse digressioni ambient (The Waiting Room), The Lamb è l’opera più controversa ma anche la più all’avanguardia di tutta la discografia Genesis. The Lamia, The Carpet Crawlers, Counting Out Time, The Lamb Lies Down On Broadway e la citata In The Cage sono le vette di un disco imprescindibile, anche se zeppo di passaggi faticosissimi.

Gabriel saluta tutti e se ne va, a trasformare il suo rock visionario in una carriera ricca di soddisfazioni. I reduci, invece di abbattersi, consegnano la leadership nelle mani di Collins (alla voce, praticamente un clone di Gabriel), e sfornano A Trick Of The Tail (1976, Voto: 8), disco delicato, meno affabulante e lirico forse, ma ricco di ballate memorabili (Mad Man Moon, Entangled, Ripples) che li porterà a vincere tre dischi d’oro. Un anno dopo, la creatività è ai minimi termini: Hackett non ne può più e la band raschia il barile di una formula trita e ritrita. Wind And Wuthering (1977, Voto : 6,5) è un album stanco, ma che riesce ancora a decollare con qualche colpo di coda di livello altissimo (Afterglow e Blood On The Rooftops). Se l’ottimo Seconds Out ( 1977, Voto : 8 ) celebra l’energia di una band che dal vivo non sembra aver perso lo smalto dei tempi migliori, il capitolo successivo, And Then There Were Three (1978, Voto: 5,5), senza Hackett in volo verso una buona carriera solista(recuperate i primi tre dischi,ne vale la pena),  è invece il canto del cigno, la pietra tombale sulla storia di un gruppo che sta scivolando velocemente verso la china di un pop rock a uso e consumo delle classifiche (Follow You, Follow Me, Many Too Many). Quando tutto ormai sembra perduto, ecco il colpo d’ala che nessuno si aspetta. I Genesis danno alle stampe Duke (1980, Voto : 7), ottimo disco di agili canzoni pop che riescono a modernizzare il linguaggio di una band sempre più monopolizzata da Collins. 

Non mancano canzoni notevoli (Behind The Lines, Turn It On Again) e il disco tutto sommato regge anche quando lo spessore si assottiglia di parecchio (Misunderstanding). Il successivo Abacab (1981, Voto : 6) vede trionfare l’idea di musica di Collins, star da hit parade, che flirta con le mode, il pop e la black music (No Replay At All). Three Sides Live (1982, Voto : 6-) è un live di tre facciate, più una di inediti, assolutamente prescindibile. Appena meglio il successivo Genesis (1983, Voto : 6 +) che fra alti (Home By The Sea) e molti bassi, sfodera un gioiellino elettronico da segnare sul taccuino (Mama). Da qui in avanti il tracollo è definitivo: la qualità dei dischi dei Genesis diviene inversamente proporzionale al successo commerciale degli album solisti di Collins.  Invisible Touch (1986, Voto : 5), We Can’t Dance (1991, Voto : 3), Live – the Way We Walk : the Shorts (1992, Voto : 5), Live – The Way We Walk : The Longs (1992, Voto : 5), Calling All Stations (1997, Voto : 4), quest’ultimo senza più Collins, ma con Ray Wilson (ex Stiltskin) alla voce, sono la fine ingloriosa di una band che non ha più nulla da dire e che forse avrabbe fatto bene a tacere almeno un ventennio prima.




DISCOGRAFIA ESSENZIALE :

FOXTROT 1972
SELLING ENGLAND BY THE POUND 1973
THE LAMB LIES DOWN ON BROADWAY 1974




Blackswan, sabato 05/10/2013

venerdì 4 ottobre 2013

ARCTIC MONKEYS – AM



Sette anni, cinque dischi, una carriera a cento all’ora, tra scimmie artiche, progetti paralleli (The Last Shadow Puppets), colonne sonore e collaborazioni assortite. Sempre sul pezzo, insomma, e nonostante ciò non invecchiare mai, non accusare la classica stanchezza di chi arriva in alto e ha la pancia piena. Questa è la vita di Alex Turner, ex enfante prodige del pop chitarristico made in England, oggi affermato autore capace di adattarsi alle mode e resistere al logorio del tempo con l’atteggiamento un pò cialtronesco e molto cool di chi la sa lunga a dispetto della giovane età. Così AM suona esattamente a immagine e somiglianza del nocchiere della nave, leader indiscusso di un gruppo che solo nel 2006 sembrava potesse cambiare il mondo e oggi, a questo mondo che schizza alla velocità della luce lontano da ogni punto fermo, si è invece camaleonticamente adattato. Con furbizia, è inevitabile, ma anche in virtù di un’intelligenza artistica fuori dal comune. Così, la nuova fatica partorita dalla fantasia  di Alex, sembra anni luce lontana dall’esordio di Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not , eppure nel contempo suona ancora come un disco connotato in modo indelebile dal marchio di fabbrica Arctic Monkey. Insomma la confezione cambia, il packaging si fa più esclusivo, ma la qualità del prodotto rimane inalterata. Certo, quell’urgenza quasi punk, che ci faceva zompare come indemoniati mentre pulsava rapida I Bet You Look Good On The Dancefloor è forse perduta per sempre, anche se qui e là torna a fare capolino per non costringerci a versare troppe lacrimucce di nostalgia (R U Mine).  Le canzoni di AM denotano invece un’architettura sonora più riflessiva, che continua a mantenere un appeal giovanilistico e modaiolo, ma che si fa al contempo più variegata, a tratti anche elusiva, ricca di citazioni (Arabella va a pescare charleston e riff da War Pigs dei Black Sabbath) e con sfiziosi ammiccamenti a certa musica nera, hip – hop e soul in primis. Forse i fans della prima ora, memori del notevole passo falso di Suck It  And See (2011), troveranno più di una ragione per considerare AM l’album del tradimento definitivo. Per coloro che invece gettano uno sguardo più distaccato sulle vicende della band di Sheffield , AM è un signor disco, di quelli da tenere in heavy rotation sullo stereo di casa e nella libreria Itunes. Basterebbe un incipit folgorante come Do I Wanna Know? (cazzo, sto consumando la traccia e il ritornello in falsetto non mi fa dormire la notte) a giustificare euforici ascolti e stima imperitura nei confronti del talentuoso Turner. Il resto delle canzoni è (prevalentemente) buono, dannatamente buono. E questo, non me ne vogliano le frange ortodosse della tifoseria, è il punto più alto della discografia degli Arctic Monkeys. Ipse Dixit.

VOTO : 7,5




Blackswan, venerdì 04/10/2013

giovedì 3 ottobre 2013

ATTENTI A QUEI BLU : COVERLAND






Amici tutti di RadioPaneSalame, questa sera, giovedì 3 ottobre, a partire dalle ore 22.00, sul sito della radio potrete ascoltare la prima puntata della stagione di Attenti A Quei Blù!

Indie Brett & Danny Rock vi condurranno nel magico mondo delle cover, tenendovi compagnia per un paio d'ore e raccontandovi la nobile arte di vestire una canzone nota con abiti diversi. Brani di Beatles, Aftetrhours, Rino Gaetano, Peter Gabriel, Vasco Rossi, Metallica, Paul Weller e tanti altri ancora. Musica, dunque, ma anche notizie, rubriche, un angolo dedicato all'Orablù e tante stupidaggini assortite (che, inutile negarlo, sono il nostro forte).
Per ascoltarci, basta cliccare QUI e accedere così al sito di RadioPaneSalame. Il file della trasmissione, che può essere anche scaricato, si trova in fondo alla pagina.
Appuntamento alle ore 22.00.
Buon divertimento e buon ascolto !

Blackswan, giovedì 03/10/2013

mercoledì 2 ottobre 2013

HANNI EL KHATIB - HEAD IN THE DIRT



Provate a fare un breve ricerca sul web per vedere quali e quante siano le collaborazioni a cui ha dato vita Dan Auerbach, , e rimarrete esterrefatti. Solo tra il 2012 e il 2013, il leader dei Black Keys ha prodotto una decina di dischi, tutti peraltro balzati all’onore delle cronache musicale. Tra questi artisti, oltre a Bombino, Valerie June, Dr. John, Hacienda e Michael Kiwanuka, spicca per bravura anche Hanni El Khatib, giovane rocker proveniente dalla California, ma di origini evidentemente esotiche (padre palestinese e madre indonesiana). Il ragazzo, nel 2011, ci era piaciuto assai con Will The Guns Come Out, esordio fulminante di ruvido garage rock e ballate da marciapiede. Un disco, quello, molto ingenuo, molto imperfetto, molto scarno, molto corto, ma decisamente irrorato di sanguigno trasporto e urgenza espressiva. Oggi, grazie ai buoni uffici di Auerbach, che quando veste i panni del produttore appare indiscutibilmente dotato del famoso tocco di re Mida, Hanni El Khatib torna sulle scene con un lavoro che da una bella passata di spugna sullo sporco che impregnava le canzoni degli inizi e propone invece un filotto di brani vestiti di un casual finto grezzo (e molto piacione), che aumenterà notevolmente l’appeal del giovane songwriter americano. La formula, anche se ripulita nell’anima, è quella degli esordi: rock, garage, una spruzzata di blues e qualche ammiccamento brit pop che, non si sa mai, potrà venire utile per lanciare il disco sull’altra sponda dell’oceano. Il risultato, se cancelliamo dalle orecchie lo sgangherato entusiasmo di due anni fa, è indubbiamente piacevole. D’altra parte, Auerbach (qui, coautore di quasi tutti i brani), con El Camino, ha dato vita a una notevole sterzata nella carriera artistica dei Black Keys, ottenendo un successo prima nemmeno immaginato. Così, a immagine e somiglianza di quel suono, sta plasmando forma e contenuti di chiunque decida di mettere nelle sue capaci mani la produzione di un disco (il medesimo percorso di El Kathib lo ha fatto Bombino). Fatte queste premesse, Head In The Dirt risulta essere senz’altro un buon disco, e tra i suoi solchi si trovano parecchie canzoni che bucano le cuffie e ti si piazzano in testa grazie a riff energici e ritornelli appiccicosi. L’immagine stracciona e molto rocker della copertina (non vi torna alla mente Copperhead Road di Steve Earl?) è però replicata solo in parte. Prevale piuttosto la lungimirante visione di chi sa creare un prodotto commerciale di qualità che sicuramente non dispiacerà a quanti amano apparire intenditori di un certo tipo di rock, senza però complicarsi eccessivamente la vita. Il primo disco era decisamente meglio, questo però venderà. Ascoltate un po’ voi.

VOTO : 6,5





Blackswan, 02/10/2013

martedì 1 ottobre 2013

COME CERCHI NELL'ACQUA - WILLIAM MCILVANNEY



Eccentrico, taciturno, pensatore di paradossi, amante del whisky e delle belle donne, ma anche di T.S. Eliot e di Camus: è Jack Laidlaw, ispettore della polizia di Glasgow. Animato da un rigoroso ideale di giustizia che lo porta ad agire secondo un codice morale tutto suo, Laidlaw è un battitore libero: si muove nelle squallide periferie di Glasgow, intrattiene rapporti fin troppo stretti con i gangster locali e si sente a casa là dove nessun poliziotto osa mettere piede. Quando la diciottenne Jennifer Lawson viene assassinata, Laidlaw è senz’altro il più adatto a intervenire. Aiutato dal volonteroso ma acerbo Harkness, dovrà indagare tra pub fumosi e squallidi club, fare domande scomode, scavare negli angoli più bui della città, alla caccia di un uomo che sono in molti – anzi, decisamente in troppi – a cercare. Sulle sue tracce, infatti, ci sono anche il padre di Jennifer, deciso a farsi giustizia da sé, bande di vigilantes del quartiere e criminali disposti a tutto pur di proteggere i loro traffici. Uomini duri, persino più pericolosi e colpevoli del vero assassino. Primo di una trilogia pluripremiata pubblicata originariamente nel 1977, un grande classico ancora straordinariamente fresco e attuale, capostipite del “tartan noir”, il giallo scozzese che ha ispirato un’intera generazione di scrittori in tutto il mondo, da Ian Rankin a Irvine Welsh. Instancabile esploratore degli abissi, William McIlvanney non si limita a mettere in scena un delitto: ne porta a galla implicazioni, moventi, alibi, background sociale, psicologico e culturale. Fino a scoprire che spesso il confine che separa il bene dal male, la colpa dall’innocenza, è sottile e indistinto come il fondo di un bicchiere a tarda notte.

Chi acquista questo libro pensando di trovarsi di fronte al classico thriller formato C.S.I., da divorare in un sol boccone come fosse un hamburger, è assolutamente fuori strada. Certo, l'egida FoxCrime che accompagna l'uscita editoriale induce in errore e fa pensare a un giallo mordi e fuggi senza grosse pretese. Invece, il primo romanzo dello scozzese McIlvanney pubblicato in Italia (la prima edizione è del 1977), è di gran lunga migliore a quanto avreste potuto immaginare solo ispirandovi alla copertina. Prima uscita di una trilogia dedicata all'ispettore Laidlaw, Come Cerchi Nell' Acqua è un signor libro, uno di quelli che quando si arriva all'ultima pagina, produce l'effetto "lutto da lettura", quel senso cioè di smarrimento che proviamo quando una storia e i suoi personaggi, dopo averci tenuto compagnia per qualche giorno, tornano a posizionarsi nello scaffale della libreria. Un vuoto che nel caso del romanzo di McIlvenney si fa quasi voragine. A emozionarci non è solo lo spunto giallistico, gestito con maestria e ritmo, nonostante si conosca fin dalle prime pagine il nome dell'assassino. Nè le pennellate livide con cui il romanziere scozzese descrive una Glasgow di pub fumosi, periferie sordide, perbenismo di facciata e serpeggiante violenza. Ciò che invece davvero stupiscono sono, in primo luogo, una prosa che cita l'hardboiled di Hammett e Chandler ma possiede lo spessore della grande letteratura dostoevskjiana, e poi lo scandaglio psicologico con cui McIlvanney sonda l'animo umano portandone alla luce vizi, virtù, dubbi, debolezze e indicibili sofferenze. Ne deriva che l'indagine oggetto del romanzo è solo un pretesto, riuscitissimo, per indagare sulle reazioni dell'uomo innanzi alle prove alle quali ci sottopone quel grande mistero che è la nostra esistenza: le dinamiche famigliari, la sessualità, il dolore, il coraggio, l'etica, l'amore e la morte. Un grande giallo, un romanzo strepitoso. Da non perdere. 


Blackswan, martedì 01/10/2013