giovedì 3 marzo 2016

BONNIE RAITT - DIG IN DEEP



A quasi sessantasei anni, quarantacinque dei quali passati a incidere canzoni e suonare, Bonnie Raitt potrebbe tranquillamente mollare il colpo. Anche perchè di grandi dischi ce ne ha lasciati parecchi e, basta dare uno sguardo rapido ai numeri, venti milioni di album venduti e dieci Grammy Awards vinti rappresentano un traguardo raggiunto da pochi al mondo. Evidentemente tutto ciò non basta, quando si è divorati dal sacro fuoco del rock. Così, la Raitt, lungi dall'aver mollato un grammo dell'energia che da sempre la contraddistingue, celebra la sua ventesima uscita discografica con un disco che non ha nulla da invidiare al celebratissimo Slipstream del 2012. Abbandonato il fruttuoso sodalizio con Joe Henry (che qui compare come autore di You've Change My Mind), Bonnie torna ad autoprodursi, allestendo, come da consolidata tradizione, una scaletta in cui compaiono canzoni originali (cinque in tutto) e alcune cover. Tutta roba buona, anche perchè Bonnie ha la capacità, non da poco, di prendere canzoni altrui e suonarle come se fossero farina del suo sacco. Prendete, come esempio, Need You Tonight degli INXS, clamorosa hit datata 1987, che all'epoca conquistò la prima piazza di Billboard 100: una scelta difficile, e ben lontana dalle sonorità a cui la Raitt ci ha abituato, qui però riletta con gusto personalissimo, mantenendo intatta l'anima funky del brano e coprendo con un po’ di fango blusey la polvere accumulata nel tempo e la pompa radio friendly dell'originale. O come non farsi travolgere dal boogie anfetaminico di Shakin' Shakin' Shakes dei Los Lobos, in cui la chitarra slide della Raitt suona come una centrifuga impazzita che frulla letteralmente il finale di canzone? C'è tanta energia in Dig In Deep, che però il mestiere consumato della Raitt addomestica a piacimento, mantenendo i livelli e la tensione in perfetto equilibrio. Energia che apre il disco con il funkettone grasso di Unintended Conseguence Of Love e torna col rock grezzo di The Comin' Round Is Going Through, per poi acquietarsi, lasciando spazio alle morbide atmosfere della ballata. Ed è proprio quando si abbassa il tiro che la chitarrista di Burbank sfodera i colpi della fuoriclasse: le irresistibili malinconie di All Alone With Something To Say, i ganci melodici di I Knew e, soprattutto, i palpiti acustici di You've Changed My Mind (Joe Henry non ne sbaglia una) sono i fiori all'occhiello di un disco riuscitissimo e di una carriera che pare ben lungi dal volgere al termine. Sono pronto a scommettere quel che volete che un altro Grammy è dietro l'angolo.

VOTO: 7





Blackswan, giovedì 03/03/2015

mercoledì 2 marzo 2016

NIGHT BEATS - WHO SOLD MY GENERATION (2016, Heavenly)



Già dalla foto di copertina si intuisce parecchio del menù. I Ramones nel 1976 che salgono sulla macchina più sgangherata del Lower East Side subito dopo il famoso scatto di Roberta Bayley. La suggestione che ho scelto porta guai, mi rendo conto. I brutti ceffi sono solo tre, Danny Lee “Blackwell” (vc, ch), Jacob Bowden (bs) e James Traeger (dr), provengono dal Texas, risiedono a Seattle e non fanno Punk! Ma l’attitudine è quella. Outsiders duri e puri e, a dar retta a chi s’alimenta solo ed esclusivamente di hype, fuori dal tempo come nessun altro. Incidono, non a caso, per la Heavenly, la stessa etichetta di alcuni dei più interessanti gruppi neo psichedelici degli ultimi anni TOY, Temples e i meravigliosi King Gizzard and The Lizard Wizard.

Who Sold My Generation è il terzo album dei Night Beats e segue di qualche anno Sonic Bloom, esplicita dichiarazione d’amore, già dal titolo, per il Garage Psych degli anni ’60. Ulteriori prove che certificavano la loro cifra stilistica in gioiellini Beat come Outta Mind e As You Want che non avrebbero sfigurato dentro i testi sacri Nuggets e Pebbles. In questo ultimo lavoro invece, Soul e Surf Music, entrano più decisamente nelle loro composizioni. Il suono diventa oltremodo maturo senza per questo snaturare l’essenza puramente psichedelica che sottintende tutto il loro progetto. Si sente comunque che lo zainetto s’è appesantito e che i Night Beats hanno studiato. E con gran profitto verrebbe da dire ascoltandoli oggi. Tra le materie approfondite sicuramente la Storia: 13th Floor Elevators, Quicksilver Messenger Service, I'll Wind, Link Wray e l’Attualità: Parquet Courts, Black Mountain, Dead Meadow. Vacanze estive in tour con Black Angels, Roky Erickson e Zombies. Tutte le mamme attente ai risultati scolastici dei loro figlioli sarebbero orgogliosissime, niente da dire.




Celebration #1 apre la scaletta, un mantra psichedelico tra riverberi e voce salmodiante, quasi una versione riveduta e corretta della The Wasp (Texas Radio And The Big Beat) di doorsiana memoria. In Power Child, Right,Wrong e Sunday Mourning (a mio parere il brano più bello del lotto) l’impronta dei Black Angels è evidentissima, flusso melodico dilatato e cantato evocativo. Canzoni come queste sono da ascoltare in uno stato di rilassamento totale. Veri e propri inni alle discipline, troppo spesso e ingiustamente vituperate, che caldeggiano la pigrizia fisica e mentale. A ridestarci dal gradevolissimo torpore intervengono pezzi più trascinanti e immediati come No Cops, Shangri Lah e Last Train To Jordan caratterizzati dalle spigolature elettriche di Danny Lee e il drumming svagatamente ossessivo di James Traeger. Bad Love è un divertito e calligrafico omaggio alla gloriosa stagione Surf. Ray-Ban Clubmaster sul naso, cocktail estivo supercolorato in mano e tramonto mozzafiato che, anche sapendo come va a finire, la sua porca figura la fa sempre. Il tutto contrappuntato da languori chitarristici alla Dick Dale. Chiude il disco Egypt Berry cavalcata C&W d’ambientazione mediorientale!

Questa dei Night Beats è grande musica destinata a durare nel tempo perché è del tempo che si nutre. La peculiarità, in aggiunta alla consapevolezza di chi conosce a menadito i limiti delle proposte musicali attuali, è quella di volgere lo sguardo al passato e frequentarlo senza riserve per andare oltre. 

VOTO: 8





Porter Stout, mercoledì 02/03/2016

AMERICANA

MONOPLAY: THE SMITHS

martedì 1 marzo 2016

LUCINDA WILLIAMS – THE GHOSTS OF HIGHWAY 20



Se è vero che il tema della strada ritorna con frequenza nella letteratura musicale americana, tanto da trasformarsi spesso in una sorta di stereotipo, è per converso altrettanto vero che in mano ad artisti come Lucinda Williams, quello che potrebbe essere un abusato clichè, diviene invece folgorante narrazione. Dal vagabondare dell’infanzia al seguito della propria famiglia, fino alla Gravel Road del 1998 e alla Highway 20 dei giorni d’oggi, Lucinda di chilometri ne ha percorsi tanti, tantissimi. Chilometri di vita e di musica, raccontati sempre con la lucida visione di chi conosce a fondo la materia trattata e con quel mood nostalgico di chi sa che a ogni pietra miliare ha lasciato dietro di sé, e lascerà, amori, affetti, luoghi, ricordi dolcissimi, ferite che solo il tempo potrà lenire. La Highway 20 è soprattutto questo: non solo una lunga lingua d’asfalto che attraversa sei stati del Sud, ma l’occasione nostalgica per guardare l’orizzonte, ripensando ai chilometri percorsi, costruendo un immaginario evocativo in cui le storie della strada si intrecciano col resoconto del viaggio personale. Fantasmi a ogni incrocio, a ogni stazione di servizio, fantasmi che non ci danno tregua, coi quali dobbiamo convivere (“…and my fears continue to haunt me, along with the ghosts that remain on Highway 20” dalla title track), che ci rammentano la nostra finitezza, l’essere in balia della morte e del fato (“…death came,  death came and gave you his kiss…Oh, i miss you so and i long to know why deth gave you his kiss” da Death Came). E’ l’occasione della perdita del padre, il poeta Miller Williams, a spingere Lucinda, oggi sessantatreenne, non solo a fare un bilancio della propria vita, ma a universalizzare la risposta alle grandi domande della nostra esistenza (“But when you go, you’ll let me know if there’s a heaven out there” da If There’s A Heaven). Highway 20 è in tal senso un disco dolente, sofferto, che cammina in precario equilibrio sul ciglio del baratro: da un lato, un vuoto di speranza, che mi ha ricordato, concedetemi il volo pindarico, la poesia di Pavese (“Oh cara speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla”); dall’altro, l’istintuale attaccamento alla vita, il bisogno primordiale d’amore, che ci tiene in piedi, ci fa respirare, ci spinge ancora a puntare l’orizzonte (“Trust me, you can’t close the door on our love, just because you made somebody cry”). Forzando un po’ la mano a un’altra similitudine letteraria, si potrebbe affermare che, come L’idiota fu per Dostoevskji il lavoro preparatorio per il successivo I Fratelli Karamazov, così The Ghosts Of Highway 20 porta alle estreme conseguenze le riflessioni del precedente Down Where The Spirit Meets The Bone: quel suono e quegli arrangiamenti ci sono, così come ci sono Bill Frisell e Greg Leisz alle chitarre (uno degli elementi decisivi per il mood dell’album); tuttavia, la Williams sceglie questa volta la strada dell’ortodossia e della linearità, puntando su una narrazione monocorde, meno rockeggiante e più intimista. Ne consegue che Highway 20 è un disco impegnativo, scorbutico, che va riascoltato più volte per entrare in sintonia con una fascinazione che richiede immedesimazione totale (difficile, se no, anche per uno springsteeniano di ferro, comprendere, ad esempio, la livida trasposizione di Factory). Non siamo, dunque, di fronte al grande affresco di Americana dipinto in Down Where The Spirit Meets Bone, e i toni epici del racconto vengono quasi completamente sfumati in un cupo soliloquio interiore; qui, si chiede all’ascoltatore lo sforzo di compenetrare lo sguardo in soggettiva dell’artista, di mettersi in moto sull’ Highway 20 e macinare chilometri, macinare vita, macinare ricordi. Imparare, soprattutto, a convivere coi propri fantasmi.

VOTO: 9





Blackswan, martedì 01/03/2016