mercoledì 4 maggio 2016

VODUN – POSSESSION



Sono pronto a scommetterci la ghirba, che l’anno di grazia 2016 sarà segnato in modo indelebile dall’ascesa di Possession, l’esordio full lenght dei londinesi Vodum. Perché questo disco è una bomba, pronta a esplodervi nel salotto di casa, non appena avrete la fortuna di mettere il cd nel lettore. Si astengano, dunque, indie marchettari, dandy a rimorchio dell’elettronica, orecchie sofisticate e deboli di cuore: Possession è un disco che più rock di così è difficile e i Vodun sono i nuovi profeti mandati in terra dagli dei del rumore. Formatisi a Londra nel 2012, un Ep uscito nel 2013 e qualche singolo già in circolazione da un paio d’anni sul web, i Vodun sono un trio composto da un uomo e due donne. Eccentrici nel look afro punk e negli espliciti richiami al voodoo, portatori di nomi bizzarri (Oga alla voce, Ogoun alla batteria e Marassa alle chitarre), questi tre ragazzi sono la classica formazione che guarda all’essenziale: via tutti gli orpelli, ed eccoli lì sul palco, voce, chitarra e batteria. Stop. Volumi altissimi e un muro di suono travolgente sono le componenti di una musica che fonde rock blues, psichedelia, stoner, doom, trash metal e noise. E chi ci vuole vedere a tutti i costi qualcosa di afro, beh, che dire, sarà accontentato. Come sempre avviene è inevitabile cogliere in queste canzoni numerosi richiami a qualcosa di già sentito: ecco, allora, che in ordine sparso i tre ammiccano ai Led Zeppelin, ai Bellrays, agli Skunk Anansie di Post Orgasmic Chill, ai Kyuss, ai Royal Blood, ai Black Sabbath e aggiungetevi pure quel che volete. Poi, alla resa dei conti, vi troverete di fronte a un disco vario e non facilmente classificabile, che suona originale, possente e irresistibile. Si parte cento all’ora con Loa’s Kingdom, sabbathiana al midollo, grande riff e grande performance del trio. Un sound che letteralmente esplode sotto le bordate in acido di Madrassa e la voce di Oga, duttile e semplicemente pazzesca quando va a prendere le note alte. Mi ha ricordato Skin (ecco che tornano gli Skunk Anansie), ma quando ancora preferiva ferirti le orecchie con gli acuti che fare la macchietta a X Factor. Basta un solo ascolto del primo brano, però, per comprendere che qui il fenomeno vero si chiama Ogoun, una rossa selvatica che si avventa sulla batteria come un pugile sull’avversario ormai alle corde: rapidissima nei movimenti, gragnuole di rullate manco fosse un frullatore (mi sa che ha passato la giovinezza ad ascoltare Brann Dailor dei Mastodon), fendenti che ammazzano, cambi tempo repentini. Insomma, quel che si dice un’ira di Dio. Già questa sola canzone vi farà godere come ricci, ma quello che segue poi è anche meglio. Bloodstones inizia morbida e poi esplode in un sabba psycho-stoner, che accelera e rallenta, con la batteria che vi porta su e giù dalle montagne russe, Oya è ipervelocità metal core che abbraccia un ritornello reso orecchiabile dalla bella voce di Oga, il trash metal della title track è da infarto, Mawu ha il passo pesante del doom ma ancora una volta trova uno scarto melodico inaspettato. Insomma, di carne al fuoco ce n’è parecchia e tutta buonissima, tanto che un vero rocker questo disco non solo se lo comprerà al volo, ma se lo terrà pure sotto il cuscino per paura di smarrirlo. Boom!

VOTO: 8





Blackswan, mercoledì 03/05/2016

MONOPLAY: KENNY WAYNE SHEPHERD

martedì 3 maggio 2016

BOMBINO - AZEL



Qualche anno fa, la scena musicale tuareg si impose prepotentemente all'attenzione del pubblico occidentale. Fu così che per un certo periodo di tempo si spesero fiumi di inchiostro per magnificare le gesta di musicisti che, fino a quel momento, erano conosciuti solo da un ristretto numero di appassionati, e che all'improvviso divennero di dominio pubblico fra numerose schiere di rockettari. Dal Mali giunsero nei nostri stereo le musiche dei Tinariwen e dei Tamikrest, e con un paio d'anni di ritardo iniziammo a conoscere anche la musica di Bombino, musicista originario del Niger, che nel 2013 ottenne un discreto successo con Nomad, il suo terzo album in studio. Quel disco, prodotto da Dan Auerbach, pur ottenendo un ottimo riscontro di pubblico, fece però storcere il naso a più di un critico, a cui la mano un pò troppo pesante del chitarrista dei Black Keys sembrava aver annacquato, e non poco, la purezza e le suggestioni del suono subsahariano.  Bombino (chiamato così per una storpiatura della parola italiana "bambino"), dopo aver collaborato con il nostro Jovanotti (cosa che fa sorgere qualche sospetto sulla genuinità dell'artista) esce oggi con un nuovo disco, Azel, prodotto questa volta da David Longstreth, voce e chitarra dei Dirty Projectors, band statunitense abituata a muoversi per territori poco convenzionali. Cambiato il produttore, però, la sostanzia non cambia. Azel è un buon disco, ben suonato e con ottime canzoni, direi migliori di quelle che componevano il suo predecessore. Tuttavia, l'impressione è che ormai questa musica abbia perso la sua intrinseca forza, che risiedeva proprio nell'inconsueta fascinazione di un suono distantissimo dalla nostra cultura. Oggi, invece, si assiste a un processo di normalizzazione occidentale, e dischi come Azel, pur mantenendosi su un buon livello compositivo, sembrano aver perso la magia che, solo qualche anno fa, connotava l'intero movimento. Insomma, o ci siamo abituati noi e non riusciamo più a sorprenderci, oppure, come credo, abbiamo finito per rimasticare un suono allo scopo di renderlo il più digeribile possibile alle nostre orecchie. Detto questo, Azel resta un una prova riuscita, che supera abbondantemente la sufficienza, e Bombino siconferma un suntuoso chitarrista rock blues.

VOTO: 7





Blackswan, martedì 03/05/2016

L’ULTIMO DEI ROMANTICI




Leicester, cittadina di 288.000 abitanti nel cuore dell’Inghilterra. Qui, è sepolto Re Riccardo III, Duca di Gloucester, uomo deforme e bulimico di potere, usurpatore, traditore, assassino. Qui, 530 anni dopo, si incorona un altro sovrano:  è Claudio I, appartenente alla nobile casata dei Ranieri, al secolo conosciuto anche come The Normal One. Fu Shakespeare a rendere immortale la figura drammatica e controversa  di Riccardo III, monarca inviso al suo popolo e alla storia; e Shakespeare, se fosse ancora vivo, saprebbe raccontare meravigliosamente anche le gesta del Re straniero che porta la sua gente a compiere un’impresa che supera i confini della leggenda. Già, perché ciò che ha fatto il Leicester City Football Club è degno non solo della cronaca e degli osanna internazionali che intasano i social e i giornali sportivi, ma meriterebbe anche una penna suntuosa, che fosse in grado di accompagnare l’attimo del tripudio in un meritato viaggio verso l’eternità.
Da allenatore vituperato e sottovalutato, spesso indicato come un perdente di nobile stirpe, oggi Claudio Ranieri è diventato un mito. Non ha avuto bisogno di compiere gesti eclatanti né ha dovuto spremere i cordoni della borsa di qualche prodigo mecenate: semplicemente ha lavorato, con scrupolo, metodo e passione, facendo rendere al meglio un collettivo di giocatori dotato più di attributi che di piedi buoni. A volte la vita, nella sua tortuosa bizzarria, sa rendere eroi anche dei magnifici perdenti, sa premiare con la vittoria la sofferenza e la fatica, aggiungendo, poi, all’intreccio narrativo, quel pizzico di fortuna, in tante altre occasioni negata. 
Sono parecchi, quindi, i motivi  per cui il Leicester ha fatto battere il cuore agli sportivi di mezzo mondo, accendendoli di un nuovo, inatteso, romanticismo: la trama inaspettata e il susseguirsi rocambolesco degli eventi; un gioco organizzato e tignoso, ma mai sparagnino, in cui tutti hanno fatto quello che dovevano, senza cercare le luci della ribalta a scapito del collettivo (come la Grecia di Otto Rehhagel agli Europei del 2004, ricordate?); l’innata simpatia di personaggi come Ranieri, Vardy e Mahrez; l’eterna suggestione della lotta tra Davide e Golia, tra il ricco e il povero, tra il potente e l’oppresso. Eppure, a prescindere da tutte queste considerazioni, una suggestione ha contato più delle altre, e cioè che se una squadra di pippe può vincere il campionato più competitivo del mondo, allora, ciascuno di noi, in egual misura, può scalare i giorni della propria vita e raggiungere gli obbiettivi che si è prefissato. La vittoria del Leicester, in tal senso, è una livella che riporta tutti allo stesso punto di partenza e riconsegna a tutti le stesse possibilità: si chiama speranza, ed è quel carburante di cui ognuno di noi ha dannatamente bisogno, in questi tempi di prospettive negate.
Un grande intellettuale e poeta argentino, Jorge Luis Borges, diceva che nessuna vittoria potrà mai avere la dignità di una sconfitta. Ebbene, si sbagliava: non aveva mai visto giocare il Leicester, non aveva mai visto Claudio I, sovrano vittorioso in terra straniera, l’ultimo dei romantici, in quel mondo di milionari, tweet e tatuaggi che chiamano calcio. 






Blackswan, martedì 03/05/2016

lunedì 2 maggio 2016

IL MEGLIO DEL PEGGIO




Riceviamo dalla nostra freelance Cleopatra e integralmente pubblichiamo

"Vi dico con estrema franchezza che i talk, i media e i social non sono l'Italia". Lo diceva Matteo in un intervento a Palazzo Madama, in occasione della mozione di sfiducia all'esecutivo presentata dal M5 Stelle, Forza Italia, Lega Nord, Conservatori e Riformisti. Detto da uno che nei social network ci vive, è paradossale: Twitter sta a Renzi come il vitalizio sta ad Antonio Razzi. A riprova dell'attaccamento di Renzi per i social, ricordo che nel 2015 è stato il twittatore più attivo rispetto ai suoi omologhi europei sia per numero di followers che per risposte date. Se i social non sono l'Italia, allora il Premier ci spieghi il senso di #Matteorisponde. 
Un botta e (non) risposta con il mondo degli internauti in cui Matteone con quella faccia un  po' così, magnifica sè stesso e l'esecutivo in un delirio di onnipotenza senza contraddittorio. La taumaturgica narrazione renziana si manifesta su Facebook e Twitter attraverso un appuntamento settimanale con gli italiani. Una sorta di Leopolda del web della durata di un'ora circa. Un dialogo diretto con i cittadini, dice Lui. Peccato che di dialogo non ci sia nemmeno l'ombra. Nessuna intermediazione, nessuna trasparenza sulla scelta delle domande poste dai followers al Premier. Insomma, se la canta e se la suona. E c'è di più: si dice solo quello che conviene e si omette ciò che è scomodo. Lo dimostra la ridicola pantomima con Vincenzo De Luca, ospite a Palazzo Chigi per la diretta su Facebook. Un imbarazzante siparietto di banalità assortite in cui il governatore campano racconta con la solita enfasi, la rivoluzione all'insegna della trasparenza che starebbe attuando nella Pubblica Amministrazione locale. Non una parola sull'inchiesta che vede coinvolto il presidente regionale del Pd, Stefano Graziano, indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. E ci mancherebbe altro. Un'atmosfera surreale in cui un compiaciuto Matteo gli dà pure del "petaloso". 
Altro che Istituto Luce.

Donald Trump incontra Matteo Salvini: "Matteo, ti auguro di diventare presto primo ministro in Italia"

Matteo Salvini risponde a Donald Trump: "Se Trump va alla Casa Bianca sarei felice di poter fare da collegamento tra lui e Putin"

Daniela Santanchè dà consigli alle donne sulla sua ultima 'opera' letteraria: "Donne non datela. Quando la date è finita. Meglio l'attesa della presa"

Maurizio Gasparri, a proposito della recente scomparsa di Prince: "Prince? E che è, la birra? Sono sopravvissuto lo stesso anche senza conoscerlo, mica è obbligatorio conoscere la musica pop"

Ferdinando Polegato, candidato sindaco a Pordenone, su Nichi Vendola: "Vendola? E' un gay che ha adottato un bambino, quindi va impalato e castrato chimicamente. Il problema è trovare un palo abbastanza grande".


Cleopatra, lunedì 02/05/2016