La
singer songwriter di stanza a Nashville, Kristina Murray, ha annunciato
l’uscita del suo secondo full lenght, Southern Ambrosia, che avverrà
all’inizio dell’autunno, e per la precisione il 21 settembre. Originaria
di Atlanta, dopo aver suonato per sei anni in lungo e in largo
attraverso il Colorado, la Murray si è trasferita a Nashville, città in
cui ha dato inizio alla propria carriera solista. Southern Ambrosia è
stato registrato presso i Welcome To 1979 e i Sound Stage Studios e si
compone di nove brani originali caratterizzati dalla voce autentica ed
espressiva della giovane cantante e dalla produzione di Michael Rinne.
Strano
a dirsi, i The Record Company, band californiana di stanza a Los
Angeles, devono molto a una nota marca di birra. In circolazione dal
2011, un pugno di Ep all’attivo, il terzetto capitanato da Chris Vos
(voce e chitarra) raggiunge infatti la notorietà solo nel marzo del
2015, quando Off The Ground, brano che poi confluirà nel loro
disco d’esordio, viene utilizzato per uno spot della birra Miller Lite.
Da quel momento le speranze di successo dei The Record Company diventano
realtà, la Concord li mette sotto contratto, pubblica il loro primo
full lenght, Give It Back To You (2016), e li manda in tour ad aprire i concerti dei Blackberry Smoke.
Il
disco piazza un paio di singoli in classifica, ricevendo recensioni
positive da tutte le testate che contano (Rolling Stones U.S. in primis)
e che indicano i The Record Company come una delle next big thing del
rock a stelle e strisce. A parte qualche inevitabile citazione (i tre
ragazzi californiani non hanno mai nascosto le loro influenze: John Lee
Hooker, Rolling Stones, Stooges, etc.), la band dimostra di avere stoffa
da vendere e di possedere uno stile che, fin da subito, si presenta se
non originale, quanto meno personalissimo, rielaborando blues e rock con
freschezza e inaspettata modernità.
Give It Back To You
piace così tanto che, nel 2017, ottiene la nomination al Grammy Award
nella categoria Best Contemporary Blues Album, premio vinto poi da The
Last Days Of Oackland di Fantastic Negrito.
In
due anni, per i The Record Company, è cambiato proprio tutto, e da band
di nicchia per appassionati di genere, si è trasformata in uno dei nomi
più gettonati dell’attuale panorama rock blues statunitense. Un cambio
di prospettive che ha necessariamente influito su questo nuovo All Of This Life,
disco ancora autoprodotto (anche se il nome del bassista Alex Stiff,
nei crediti, compare separatamente da quello della band) e decisamente
più curato sotto molti aspetti.
La
formula è più o meno la stessa del disco d’esordio: il terzetto,
infatti, ripropone un sound in cui la sezione ritmica (timbro secco e
pulitissimo della batteria, basso arrembante e talvolta distorto) è
quasi sempre in primo piano, costituendo la rampa di lancio su cui le
chitarre (acustica ed elettrica, talvolta suonate slide) e la bella voce
di Chris Vos tracciano le linee melodiche dei brani. La sensazione,
questa volta, però, è che nulla sia stato lasciato al caso, e che
l’urgenza espressiva che animava con selvaggia genuinità Give It Back To You sia stata plasmata in una forma più pulita, pensata, e, in qualche modo, anche furbetta.
La
cosa non è necessariamente un male, anzi: queste canzoni volano sulle
ali una formula ormai consolidata (ritmica pulsante, sciabolate slide,
indole quasi garage) regalando comunque all’ascoltatore un suono di
carattere, solido ed evocativo di un retroterra culturale che mantiene
intatte le proprie radici (la conclusiva I’m Chanching su
tutte). E poi, ci sono le canzoni, esattamente dieci come per il primo
album, che tengono alto il grado di eccitazione, centrando melodie di
facile presa e dal tiro efficacissimo (ascoltare You And Me Now,
ballatone rock che non fa prigionieri grazie a un irresistibile
ritornello). Insomma, nonostante la maggior cura in fase di produzione, All Of This Life
non perde un briciolo del proprio potenza e spacca esattamente come il
suo predecessore, confermando i The Record Company come delle band più
gagliarde in circolazione.
Palestrina,
una tranquilla cittadina di 20.000 abitanti, si trova tra le montagne
del Lazio, a sud di Roma. Il paesaggio rurale è familiare a David
August: sua madre nacque lì e torna sempre a trovare la famiglia. Il
clima mite e la zona tranquilla sono sempre stati in forte contrasto con
la sua città natale Amburgo, dove in casa parla ancora Italiano e vive
con una famiglia dalla mentalità aperta e consapevole delle tradizioni
italiane.
In
quanto produttore e compositore, il sound multiforme che lo
caratterizza, deriva da un ambiente profondamente introspettivo e di
scoperta di sé stessi. Il sound dell’ingegnere del suono, laureato e con
una formazione classica, è difficile da classificare. Cercare di
collegare i punti tra i suoi primi singoli dance, il suo album di
debutto del 2013, Times e la collaborazione del 2016 con la
Deutsches Symphonie-Orchester può sembrare inutile, così come la sua
profonda conoscenza. La cultura nella quale è cresciuto, però, non
veniva riflessa nella sua musica. Ammette di non aver mai utilizzato in
modo creativo le emozioni più forti derivanti dalle sue radici,
tenendole private fino ad ora.
Seguendo
l’avvio della sua etichetta all’inizio di quest’anno, 99CHANTS – e il
suo album di debutto ambient DCXXXIX A.C., il nuovo album di David,
D’Angelo – pubblicato su [PIAS] – è il sound di un giovane artista che
viene a contatto con quelle radici, esplorando nuovi territori e
liberandosi dalle inibizioni; decostruendo le atmosfere pop e allo
stesso tempo ricercando il suo passato, le riforma in qualcosa di
estremamente commovente. Traendo ispirazione dalla vita e dai lavori del
pittore barocco Michelangelo Merisi da Caravaggio, l’album fonde la
sensibilità pop con paesaggi sonori cinematografici e malinconici. David
dipinge un ritratto vivido del suo passato, applicando la sua tecnica a
qualcosa di più primitivo e grezzo. Il risultato, così come la sua
carriera, non può essere etichettato in un genere specifico. Sono
presenti elementi di pop balearico, noir jazz, post-rock e il genere
grezzo del collega e viaggiatore Forest Swords, il tutto avvolto in
qualcosa di estremamente personale.
La
title track, nonché singolo dell’album, riporta alla mente l’avanzare
costante di Meanderthals o Moon Duo; qualcosa che puoi sentire nel
programma radio Beats In Space o nella musica prodotta dalla Smalltown
Supersound. Una composizione ricca e approfondita, caratterizzata da
chitarre risonanti, un basso ritmato e voci filtrate – dirette e sincere
– elementi posti gli uni contro gli altri, che si trasformano in un
ambient fragoroso. Le voci decadono nel riverbero, le parole diventano
glossolalia, mormorii, respiri, mugolii. La tensione improvvisa spezzata
da un groove di tastiera e la batteria che torna brevemente, prima di
sparire ancora, mentre tutto emerge sfacciatamente in un drone
inquietante, come qualcosa tratto da Forbidden Planet, che porta verso
territori sconosciuti, avvolgendo l’ascoltatore.
È
stato importante per David che le sessioni di registrazione avvenissero
su territorio italiano, prendendo ispirazione dal luogo dal quale
proviene. Isolandosi nello studio per due settimane, David faticò a
trovare un unico linguaggio per esprimersi, con i quadri del Caravaggio
su uno schermo e Ableton sull’altro. Questa ossessione per l’originalità
all’inizio fu inutile, producendo una sola traccia nelle sessioni
originali, e a quel punto realizzò che cercare di creare un nuovo
linguaggio dal nulla è sinonimo di puro egoismo. Questa consapevolezza è
sempre stata lì, sempre rilevante nella sua evoluzione come artista.
Dovette pensare al processo il meno possibile e lasciarsi andare,
abbracciando le energie spirituali e superando lo scetticismo di quel
mondo – se non per un breve periodo. I risultati sono impressionati,
malinconici, presenti in uno spazio che non è facile da tradurre a
parole…ma le parole sono sempre importanti?
Johnny
Marr è e resterà sempre una leggenda, per quello che ha fatto con gli
Smiths e per quel suono di chitarra byrdsiano, luccicante e un po'
stralunato, fonte inesauribile di ispirazione per tutte le giovani leve a
partire dagli anni ’90.
Chi
scrive l’ha amato sempre, molte volte incondizionatamente, guardando
con bonaria simpatia financo a una carriera solista non proprio
all’altezza della sua fama. Eppure, nonostante non fossero dischi
imperdibili, The Messenger (2013) e Playland (2014)
nascondevano, fra le pieghe di scalette non eccelse, qualche gioiellino,
qualche momento figlio dell’antica gloria, così ben riuscito da far
sperare che, prima o poi, la carriera di Marr tornasse a livelli
ottimali.
Addirittura,
è tanta la stima per l’uomo e per l’artista, che abbiamo fatto sempre
finta di non capire che quella voce esile e anonima non fosse adatta a
cantare alcunché, figuriamoci canzoni che già non eccellevano per
brillantezza. Oggi, pur essendo immutato l’amore verso Marr e la sua
storia, ci troviamo però a fare i conti con un disco bruttino assai, un
album dal quale, visto anche il tempo trascorso dal suo predecessore, ci
saremmo aspettati qualcosa di più, e non certo questo compitino
stiracchiato e incolore.
Con Call The Comet
tutti i nodi, purtroppo, vengono al pettine: la pochezza di
ispirazione, una scrittura che pasticcia con il passato e sembra priva
di prospettive future, una voce che, diciamolo con franchezza, è uno
strazio, e una chitarra che mai come prima ha perso tutti i colori che
da sempre la contraddistinguevano. Lo dico con molta tristezza, ma
davvero è difficile trovare qualcosa di buono in queste macerie che,
solo con un grande sforzo di immaginazione, ricordano i fasti di una
stagione leggendaria.
Che
Marr sia in debito d’ossigeno lo si capisce subito da come ricicla
materiale d’epoca spacciandolo per nuovo: la sezione ritmica e il
cantato di The Tracers sono quelli di The Queen Is Dead, title track che apre l’omonimo disco, e Hi Hello un tempo si chiamava There Is A Light That Never Goes Out
(ed infatti è anche uno dei pochi brani che si salvano dall’anonimato).
Per dire come siamo messi a livello di creatività, datevi poi un
ascolto a Spiral Cities che saccheggia senza pudore Someone, Somewhere, in Summertimes dei Simple Minds, e capirete che Marr, purtroppo per noi, vive la così detta fase del raschio del barile.
In scaletta c’è anche Bug, il consueto pezzo tamarro, che però manca della sfrontatezza che accendeva, ad esempio, Easy Money da Playland, ci sono scialbi tentativi di rinverdire fasti new wave (New Dominions, Actor Atractor) e citazioni smithsiane fuori tempo massimo (Day In Day Out).
A voler salvare qualcosa dal naufragio, getterei un salvagente a Walk Into The Sea, brano abbastanza prevedibile, ma più meditato e quasi sofferto, e all’iniziale Rise,
innocuo pop rock che apre l’album citando nuovamente i Simple Minds.
Sono solo, però, brevi attimi di lucidità in un disco confuso e per
nulla ispirato, che scala le charts inglesi (al momento della stesura
dell’articolo Call The Comet si posiziona al settimo posto), ma
lascia in bocca un fastidioso retrogusto amaro. Perdonami, Johnny, ma
questa volta ti meriti l’insufficienza.
Il 24 di agosto uscirà il nuovo album dei Bill And The Belles. Il disco, che si intitolerà
DreamSongs Etc., vedrà la luce via Jalopy Records. La band
originaria del Tennessee ha registrato il disco in una vecchia fattoria
del sud est della Virginia, completando i lavori in soli due giorni. DreamSongs Etc.,
che è il primo disco sulla
lunga distanza dopo alcuni Ep pubblicati negli anni scorsi, è stato
prodotto da Joseph Dejarnette e la band si è avvalsa della
collaborazione di Evan Kinney e Aaron Olwell. Il primo singolo si
intitola
Wedding Bell Chimes e da qualche giorno il relativo video è già presente in rete.