Johnny
Marr è e resterà sempre una leggenda, per quello che ha fatto con gli
Smiths e per quel suono di chitarra byrdsiano, luccicante e un po'
stralunato, fonte inesauribile di ispirazione per tutte le giovani leve a
partire dagli anni ’90.
Chi
scrive l’ha amato sempre, molte volte incondizionatamente, guardando
con bonaria simpatia financo a una carriera solista non proprio
all’altezza della sua fama. Eppure, nonostante non fossero dischi
imperdibili, The Messenger (2013) e Playland (2014)
nascondevano, fra le pieghe di scalette non eccelse, qualche gioiellino,
qualche momento figlio dell’antica gloria, così ben riuscito da far
sperare che, prima o poi, la carriera di Marr tornasse a livelli
ottimali.
Addirittura,
è tanta la stima per l’uomo e per l’artista, che abbiamo fatto sempre
finta di non capire che quella voce esile e anonima non fosse adatta a
cantare alcunché, figuriamoci canzoni che già non eccellevano per
brillantezza. Oggi, pur essendo immutato l’amore verso Marr e la sua
storia, ci troviamo però a fare i conti con un disco bruttino assai, un
album dal quale, visto anche il tempo trascorso dal suo predecessore, ci
saremmo aspettati qualcosa di più, e non certo questo compitino
stiracchiato e incolore.
Con Call The Comet
tutti i nodi, purtroppo, vengono al pettine: la pochezza di
ispirazione, una scrittura che pasticcia con il passato e sembra priva
di prospettive future, una voce che, diciamolo con franchezza, è uno
strazio, e una chitarra che mai come prima ha perso tutti i colori che
da sempre la contraddistinguevano. Lo dico con molta tristezza, ma
davvero è difficile trovare qualcosa di buono in queste macerie che,
solo con un grande sforzo di immaginazione, ricordano i fasti di una
stagione leggendaria.
Che
Marr sia in debito d’ossigeno lo si capisce subito da come ricicla
materiale d’epoca spacciandolo per nuovo: la sezione ritmica e il
cantato di The Tracers sono quelli di The Queen Is Dead, title track che apre l’omonimo disco, e Hi Hello un tempo si chiamava There Is A Light That Never Goes Out
(ed infatti è anche uno dei pochi brani che si salvano dall’anonimato).
Per dire come siamo messi a livello di creatività, datevi poi un
ascolto a Spiral Cities che saccheggia senza pudore Someone, Somewhere, in Summertimes dei Simple Minds, e capirete che Marr, purtroppo per noi, vive la così detta fase del raschio del barile.
In scaletta c’è anche Bug, il consueto pezzo tamarro, che però manca della sfrontatezza che accendeva, ad esempio, Easy Money da Playland, ci sono scialbi tentativi di rinverdire fasti new wave (New Dominions, Actor Atractor) e citazioni smithsiane fuori tempo massimo (Day In Day Out).
A voler salvare qualcosa dal naufragio, getterei un salvagente a Walk Into The Sea, brano abbastanza prevedibile, ma più meditato e quasi sofferto, e all’iniziale Rise,
innocuo pop rock che apre l’album citando nuovamente i Simple Minds.
Sono solo, però, brevi attimi di lucidità in un disco confuso e per
nulla ispirato, che scala le charts inglesi (al momento della stesura
dell’articolo Call The Comet si posiziona al settimo posto), ma
lascia in bocca un fastidioso retrogusto amaro. Perdonami, Johnny, ma
questa volta ti meriti l’insufficienza.
VOTO: 5
Blackswan, sabato 07/07/2018
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