martedì 21 agosto 2018

LORI MCKENNA - THE TREE (CN Records/Thirty Tigers, 2018)

Donna, 27 anni, un marito e tre figli piccoli. Sembra il profilo di una casalinga che passa il tempo ad accudire casa e ad allevare marmocchi o che magari, per sbarcare il lunario, fa i salti mortali svolgendo anche un lavoretto part-time. E’ questa la situazione in cui si trovava Lori McKenna nel 1996, anno in cui inizia a dedicarsi professionalmente alla musica.
Certo, Lori ha sempre scritto canzoni e suonato la chitarra fin da piccola, ma la piega presa dalla sua vita non avrebbe mai fatto immaginare un futuro nello star system. Invece, una sera, quasi per gioco, si mette a cantare durante una open night mic alla Blackhorn Tavern, un locale nei pressi di Easton (Massachusetts), impressionando talmente il pubblico che viene ingaggiata in pianta stabile dai proprietari. La nota, così, anche il manager Gabriel Unger, che la sprona a fare le cose sul serio e le produce quattro cd indipendenti, a distribuzione limitata, che però non passano inosservati. Viene infatti messa sotto contratto dalla Signature Sounds Records, vince un Boston Music Award e inizia a suonare in giro per gli States.
Nel 2007, fa un’apparizione in tv, al seguitissimo Oprah Winfrey Show, e poco dopo firma un contratto con una major, la Warner Bros. Da questo momento in poi, i suoi dischi fanno capolino regolarmente nelle parti alte delle classifiche di genere e il suo nome inizia a circolare insistentemente negli ambienti che contano. Lori, comincia, così una parallela carriera di autrice, scrivendo canzoni che poi verranno suonate e portate al successo da altri artisti.
Nel 2015, vince il Country Music Association Award per la canzone dell’anno con Girl Crush, portata al successo dai Little Big Town; nel 2016, vince il Grammy Award per la miglior canzone country sempre con Girl Crush e si porta a casa un altro Country Music Association Award per Humble And Kind, interpretata questa volta dall’amico Tim McGraw. Ma non è finita: con The Bird & The Rifle, penultimo disco in ordine cronologico datato 2016, viene candidata a ben tre Grammy Award, e vince un Academy Of Country Music Awards come songwriter dell’anno.
Una carriera, dunque, costellata di successi e grandi soddisfazioni, che, tuttavia, Lori vive sottotraccia e senza enfasi, preferendo l’understatement da persona comune alle luci della ribalta. E’ questo il motivo per cui il mondo ancora non si è accorto della grandezza di questa artista che, anno dopo anno, sforna dischi uno più bello dell’altro. Se The Bird & The Rifle era un gioiello da sfoggiare fra le cose americane migliori uscite nel 2016, The Tree non solo ne ribadisce la stordente intensità, ma lo supera ai punti per una qualità compositiva che non lascia scampo.
Se poi, come per il predecessore, in produzione ci mette mano Dave Cobb, che asseconda il talento della McKenna limitandosi a curare i dettagli e a rendere omogeneo il suono, allora diventa davvero difficile non usare parole altisonanti per raccontare questo disco.  Un suono deliziosamente retrò, che guarda agli anni ’70 senza passatismo, la voce calda di Lori, la triangolazione equilibrata fra folk, rock e country, e la sensazione di passare la mano sul velluto di arrangiamenti morbidissimi, sono gli elementi principali di un filotto di canzoni superbe, che la songwriter del Massachusetts plasma con classe infinita e con una straordinaria misura nell’equilibrare le emozioni.
Non c’è una sola canzone di The Tree che non faccia inumidire gli occhi e venire il groppo in gola, eppure non c’è alcun artificio o strattagemma che giochi con il ricatto della lacrima facile. Prevale su tutto, semmai, la sincerità artistica e l’onestà di canzoni senza fronzoli, che raccontano con profondità i momenti ordinari di esistenze ordinarie.  Inizia così The Tree, con la struggente A Mother Never Rest, una madre non riposa mai, nostalgica riflessione sui figli che crescono e prendono la loro strada, così come nostalgico è l’omaggio al proprio padre, oggi ottantatreenne, in People Get Old, in cui Lori canta “You still think he’s 45, and he still thinks that you’re a kid”.
Riflette sulla vita, la McKenna, sulle quelle esperienze affettive che potrebbe devastarti, ma che alla fine ti rendono più forte e coraggiosa (You Can’t Break A Woman), sugli impeti della gioventù, su quell’urgenza e quell’impazienza che spinge i giovani a volere tutto e subito (Young And Angry Again, con un suono di chitarra che rievoca Emmylou Harris e la sua Hot Band) e sulla perdita dell’innocenza e la consapevolezza dell’età adulta (in The Lot Behind St Mary’s, Lori canta di: the love we made before our teenage dreams were buried). Non c’è un solo riempitivo in The Tree, né un momento di stanca, a dimostrazione dello stato di forma di un’artista che continua a sfornare dischi indispensabili. Tanto che, a voler usare l’iperbole, basterebbero i due minuti di struggente perfezione di You Won’t Even Know I’m Gone a farci gridare al miracolo e a renderci felici di aver comprato questo disco.

VOTO: 8





Blackswan, martedì 21/08/2018

lunedì 20 agosto 2018

PREVIEW




Il 7 di settembre, Paul Simon pubblicherà, via Legacy recordings, In The Blue Light, un nuovo album in studio contenente la rilettura di dodici classici presi dal proprio vecchio repertorio. Canzoni che sono state ritoccate sia negli arrangiamenti che nelle liriche, rendendo più comprensibili testi il cui significato non era chiarissimo. Impressionante per qualità la lista di ospiti che ha contribuito alla realizzazione del disco: tra gli altri, il rombettista Wynton Marsalis, il chitarrista Bill Frisell, il bassista John Patitucci e i batteristi Jack DeJohnette and Steve Gadd.





Blackswan, sabato 18/08/2018

domenica 19 agosto 2018

THE INTERRUPTERS - FIGHT THE GOOD FIGHT (Hellcat Records, 2018)

Il divertimento prima di tutto! E’ questo il leit motiv di Fight The Good Fight, terzo album della band losangelina degli Interrupters, che esce dopo quattro anni dall’omonimo esordio e due da Say it Out Loud, sophomore che nel 2016 ha conquistato il consenso di pubblico e stampa specializzata.
Prodotto da Tim Armstrong (Rancid) e mixato da Tom Lord-Alge (Blink-182, Weezer), questo nuovo full lengt non si discosta granché dal suo predecessore, riproponendo con attenzione filologica e debordante entusiasmo tutto quel bagaglio sonoro che miscela con energia ska-punk, rock steady, spezie caraibiche e una certa attitudine garage.
Non c’è nulla di veramente nuovo nella musica degli Interrupters (quartetto composto dalla bella e brava Aimee Allen alla voce, e dai tre fratelli Bivona, Jesse alla batteria, Justin al basso e Kevin alla chitarra) e i riferimenti che coglierete in scaletta richiamano alla mente tutti i padrini del genere, quali Blink-182, Rancid, Green Day, The Mighty Mighty BossTones, Bad Religion, Dropkick Murphys, Less Than Jake, The Transplants, Reel Big Fish.
Non è quindi un caso, quindi, che il combo, nei quattro anni di carriera, abbia accompagnato in tour ciascuno dei gruppi sopracitati, a dimostrazione di evidenti qualità artistiche e di quelle che soliamo chiamare stigmate dei predestinati. Diversamente, come già indicato poc’anzi, non si sarebbe certo scomodato il mentore Tim Armstrong a produrre il disco e a regalare un cameo nel divertito e caciarone punk hardcore di Got Each Others.
E’ di tutta evidenza che non è certo l’originalità la freccia più acuminata all’arco degli Interrupters; tuttavia, quanto a divertimento, come accennato a inizio articolo, questo disco non è secondo a nessuno. Breve per durata complessiva (trentadue minuti a totale) e per minutaggio delle singole canzoni (pochissime delle quali di durata superiore ai tre minuti), Fight The Good Fight è un disco rapidissimo, affilato come una coltellata data di taglio, nel quale grintosissimi brani punk rock (su tutti Gave You Everything, che nel ritornello evoca i primi Police) si alternano a veementi e spassosi momenti ska/rock steady come Rumors And Gossip o l’irresistibile singolo She’s Kerosene, tormentone estivo alternative per vacanzieri rock.
Un disco che si beve tutto d’un fiato, come una birra ghiacciata sotto la calura estiva, e che si ritorna a bere tutte le volte che viene sete. Fresco, piacevolissimo, perfetta colonna sonora da cazzeggio.

VOTO: 7





Blackswan, domenica 19/08/2018

venerdì 17 agosto 2018

PUNCH BROTHERS - ALL ASHORE (Nonesuch, 2018)

Non è mai agevole approcciarsi a un nuovo disco dei Punch Brothers: troppo bravi tecnicamente, troppo alti concettualmente, troppo stilisticamente elusivi. E poi, c’è Chris Thile, debordante talento e mente sopraffina, genietto multitasking, che oltre ai Punch Brothers, ha portato al successo i Nickel Creek, roots band vincitrice di un Grammy Award, e vanta collaborazioni illustrissime sia in ambito di musica classica (Yo-Yo Ma su tutti) che in ambito jazz (da ultimo, lo splendido album dello scorso album in condominio con Brad Mehldau).
Vero artefice del progetto (ma non dimentichiamo gli altri componenti, Noam Pikelny, Chris Eldridge, Paul Kowert e Gabe Witcher, tutti ottimi musicisti), Chris Thile ha introdotto nel suono della band tutti gli elementi derivanti dalla propria variegata esperienza, stratificando la solida base bluegrass di partenza con idee innovative e sperimentali. Se Who’s Feeling Young Now? (2012) e Phosphorescent Blues (2015), pur nella loro complessità, erano dischi più accessibili, grazie al tentativo di inserire in scaletta aperture verso il pop (non dimentichiamo che la band, ad esempio, non ha mai nascosto la propria passione per i Radiohead, di cui ha coverizzato numerose canzoni), All Ashore è un disco ostico, di non facile assimilazione, in cui la parte progressive della formula prende decisamente il sopravvento sulle sonorità bluegrass (predominanti nel divertissement old time di Jumbo o nel mostruoso sfoggio di tecnica e velocità esecutiva di Jungle Bird).
Se i due dischi precedenti puntavano maggiormente sulla formula canzone, questo nuovo full lenght, invece, mette semmai in evidenza l’altissimo tiro strumentale di una band a cui, per qualità tecniche, estro e fantasia, il minutaggio limitato dei brani sembra andare decisamente stretto (non è un caso che le canzoni in scaletta siano più lunghe e meno lineari del solito).
In All Ashore c'è per i Punch Brothers l’algida consapevolezza di essere una band che ha pochi rivali al mondo in quanto a padronanza degli strumenti, cosa che inevitabilmente suscita la sensazione di trovarci di fronte a un lavoro tanto spregiudicato quanto ambizioso ai limiti dell’arroganza.
Eppure, in un quadro di generale ostentazione tecnica, l’ispirazione si mantiene mediamente alta e le melodie, nascoste talvolta tra le pieghe di preziosismi tecnicismi, si disvelano dopo qualche ascolto in tutta la loro cristallina bellezza (su tutte le title track e Three Dots and Dash, decisamente le migliori del lotto). In definitiva, predomina in All Ashore l’approccio da jam band, in virtù del quale le canzoni hanno minor rilevanza rispetto alle intuizioni figlie del processo di improvvisazione.
Non ci sono dubbi che i Punch Brothers se lo possano permettere, perché in fin dei conti, questo quinto album in studio, garantisce momenti di grande suggestione oltre all’inevitabile stupore per virtuosismi di livello pirotecnico. Un gioco che alla lunga, però, potrebbe stancare, perché questa musica, così smaccatamente intellettuale e cerebrale, è accessibile solo a pochi e non riesce a scaldare il cuore.

VOTO: 7





Blackswan, venerdì 17/08/2018

martedì 14 agosto 2018

PREVIEW



Dopo uno iato durato quasi cinque anni, Phosphorescent, il progetto musicale di Matthew Houck, sta tornando il prossimo ottobre con un nuovo album intitolato C’est La Vie. Il disco è stato registrato a Nashville, nel nuovo studio casalingo che Houck ha approntato dopo che si è trasferito in città con la famiglia da New York. C’est La Vie, che uscirà in tutto il mondo il 5 di ottobre via Dead Oceans, è stato mixato dallo stesso Houck e da Vance Powell (Jack White, Chris Stapleton, Arctic Monkeys). In rete, circola da qualche giorno il primo singolo, New Birth In A New England.





Blackswan, martedì 14/08/2018