venerdì 5 aprile 2019

ALLY VENABLE BAND - TEXAS HONEY (Ruf Records, 2019)

Ally Venable ha solo diciannove anni. La cosa già sorprenderebbe, se questo fosse il primo album della chitarrista e cantante texana. In realtà, Ally è arrivata al suo terzo disco in studio, il primo dei quali pubblicato quando aveva poco più che sedici anni. Un talento precoce, dunque, maturato fin da bambina, quando ha iniziato a cantare nel coro della chiesa vicino a casa, e poi, esploso, quando, a soli dodici anni, ha imbracciato per la prima volta la chitarra elettrica, senza più mollarla.
Da quel momento in avanti, la bacheca della giovanissima Venable si è riempita di premi: ha vinto per due volte l’East Texas Music Award come chitarrista dell’anno e tre volte ha portato a casa lo stesso premio per la Blues Band dell’anno e per l’album dell’anno.  
E’ stato, però, il secondo disco, Puppet Show, finito al settimo posto di Billboard Blues Chart, ad attirare l’attenzione di Thomas Ruf, patron della Ruf Records, che ha preso Ally sotto la propria ala protettrice e l’ha affidata alle sapienti mani di Mike Zito (Samantha Fish, Katarina Pejak, etc.), che ha prodotto questo Texas Honey. Affiancata da due vecchie volpi come Bobby Wallace al basso e Elijah Owings alla batteria, con cui crea un power trio affiatato e cazzutissimo, la Venable dimostra di essere tutt’altro che una musicista alle prime armi, sfoderando uno stile già ben definito e un discreto songwriting votato a un rock blues potente e senza troppi fronzoli, che spesso e volentieri evoca i suoni della terra natia.
La voce di Ally, vista la giovane età, è un po' acerba, manca di profondità e di sfumature, e forse sarebbe adatta più al pop che al rock e al blues; tuttavia, il contrasto tra il timbro vocale esile e una chitarra distorta e arroventata, che forgia riff perentori (Broken, White Flag), sferra rumorosissimi colpi sotto la cintola (Come And Take It, con Eric Gales ospite alla sei corde e alla voce) e galoppa selvaggia nei territori di un primitivo rock’n’roll (Love Struck Baby), produce un effetto straniante e di inaspettata efficacia.
Un disco gagliardo e convincente, dunque, che rende Ally Venable una delle più promettenti figure nell’ambito del rock blues americano in quota rosa (movimento spesso alimentato proprio dalle intuizioni della Ruf Records). Se sarete in grado di perdonare a questa ragazzina una delle più brutte copertine di tutti i tempi, avrete modo di divertirvi. Garantito.

VOTO: 7 





Blackswan, venerdì 05/04/2019

giovedì 4 aprile 2019

PREVIEW



Gli Interpol annunciano il nuovo EP A Fine Mess, che sarà pubblicato il 17 maggio su Matador Records. L’annuncio è accompagnato dal nuovo brano “The Weekend”.

 Registrati nel nord dello stato di New York con il produttore Dave Fridmann, i cinque brani che compongono A Fine Mess si distinguono da quelli di Marauder anche per le tematiche. Alla produzione della title track “Fine Mess”, inserita nella playlist di BBC 6 Music, si sono aggiunti Kaines & Tom A.D. mentre il mixaggio è stato affidato a Claudius Mittendorfer, che aveva già lavorato con gli Interpol su Our Love To Admire. Il risultato è una cartolina che la band manda ai fan, mentre suona in giro per il mondo. Frutto dell’energia viscerale e contagiosa del set che accompagna l’ultimo album.

Proprio come suggerisce il titolo, l’idea della copertina di A Fine Mess è nata da una serie di immagini recuperate in una stazione di polizia abbandonata di Detroit, nel Michigan. Tra le macerie di un fatiscente deposito di prove c’era un rullino non sviluppato, datato 20 gennaio 1996, che conteneva delle fotografie di una stanza in disordine.

Dal ritornello ammaliante della title track alla profonda “No Big Deal”, dalla catarsi di “Real Life”, che è una delle preferite dal pubblico, passando per l’inno “The Weekend” e le varie sfumature di “Thrones”, A Fine Mess accoglie l’ascoltatore nell’universo degli Interpol.

Dopo le recenti performance al Madison Square Garden, all’Hollywood Bowl, alla Sydney Opera House e le due serate alla Royal Albert Hall, gli Interpol continuano il loro tour mondiale con esibizioni a festival come Glastonbury, Primavera, All Points East con i The Strokes, Best Kept Secret, e una serie di date da headliner in America, nel Regno Unito e in Europa, altre verranno aggiunte successivamente. Trovi sotto tutte le date già annunciate.





Blackswan, giovedì 04/04/2019

mercoledì 3 aprile 2019

LUCY ROSE - NO WORDS LEFT (Caroline International, 2019)

Tutti coloro che amano il folk di nobile retaggio o che sono cresciuti coi dischi di quel cantautorato femminile che ha scritto pagine importantissime tra la fine degli anni ’60 e la prima metà dei seventies, dovrebbe fare un monumento a Lucy Rose. La singer songwriter inglese, giunta al quarto lavoro in studio, non solo, infatti, rilascia il suo disco migliore, ma ribadisce nuovamente di potersi inserire con naturalezza e merito nella scia tracciata da quelle (grandi) musiciste che hanno scritto le pagine più significative del genere (Joni Mitchell su tutte, ma un pensiero va anche a Carole King e, in qualche modo, a Laura Nyro).
No Words Left è un disco dal sapore antico, che guarda a quei gloriosi giorni con rinnovata consapevolezza; ma è anche, e soprattutto, il disco concepito da chi, quel suono, è in grado di rielaborarlo senza timore reverenziale, ma con idee, intuizioni e un gusto personalissimo, figlie di un’indiscutibile tecnica, di un songwriting senza sbavature e di una voce capace di toccare le corde del cuore.
Una scaletta breve (undici brani per 35 minuti di musica), omogenea e coerente nell’andamento, senza tuttavia essere mai noiosa o ripetitiva, attraversata da un intimismo traslucido e carico di suggestioni, in cui un folk ossuto, e al contempo incredibilmente avvolgente, viene incastonato in un suono semplice ed efficace, giocato su arrangiamenti mirati, che utilizzano pochi elementi per riempire grandi spazi.
Un arpeggio di chitarra, un’armonia che levita leggera dai tasti del pianoforte, qualche impercettibile percussione, le carezze al velluto degli archi, un riverbero elettrico, poche note di sax e, ad amalgamare il tutto, la voce eterea della Rose, caratterizzata da un timbro dolcemente malinconico, da una cangiante espressività e da un vibrato che manda al tappeto.
No Words Left è un piccolo fiume che scorre sinuoso e apparentemente tranquillo, anche se poi a ogni singola ansa si scopre un’emozione capace di far tremare i polsi delle vene: la melodia malinconica di Conversation, che si scioglie nell’abbraccio discreto degli archi, il tocco lieve, quasi jazzy, del pianoforte di Solo(w), le cui progressioni armoniche evocano Laura Nyro ed evaporano in poche note di sax, o il candore odoroso di primavera della deliziosa What does It Takes sono solo alcuni degli high lights di un disco privo di momenti di immediatezza e di possibili hit, e quindi, nonostante il nitore compositivo e la seducente bellezza, destinato a rimanere patrimonio di pochi fortunati ascoltatori.

VOTO: 7,5





Blackswan, mercoledì 03/04/2019

martedì 2 aprile 2019

PREVIEW





Splendide armonie, arrangiamenti sorprendenti e testi evocativi contraddistinguono la nuova band BAILEN, trio con base a New York e composto dai fratelli gemelli Daniel (voce / basso / synth / chitarra) e David (voce / batteria) e la sorella minore Julia Bailen (voce / chitarra).
Annunciano la pubblicazione del loro album di debutto Thrilled To Be Here, prodotto dal vincitore del GRAMMY John Congleton (St. Vincent, The War on Drugs), il 26 aprile 2019 tramite Fantasy Records via Caroline International.

Seducenti armonie in tre parti alimentano il primo singolo dell'album "I Was Wrong", una dichiarazione di compassione e auto-riflessione. "La canzone parla di stare insieme e ascoltare l'altro lato in una discussione, ascoltare un'altra prospettiva e poter dire che avevo torto. È stato ispirato dal crescente divario globale nell'ideologia e da una riluttanza generale ad ascoltare qualcuno con opinioni divergenti. A volte la cosa più difficile da fare è ammettere i propri difetti, ma spesso è l'unico modo per andare avanti ".

La musicalità ultraterrena di BAILEN nasce nel loro DNA. Cresciuti a New York dai genitori di formazione classica, Daniel, David e Julia si sono immersi nella variegata collezione di dischi della famiglia. Le canzoni altamente collaborative del gruppo sono formate da tre individui molto diversi che sono stati tutti ispirati dalla letteratura e dall'amore per il linguaggio.
Il conseguente meticoloso e cangiante lavoro artistico di “Thrilled To Be Here” è radicato nella destrezza soprannaturale e nell'intuizione lirica del giovane gruppo.

Orientati ai dettagli e precisi, i membri di BAILEN hanno trovato il perfetto contrappunto nell'approccio più aperto del produttore Congleton: "Pensiamo in piccolo e John è stato davvero bravo a pensare in grande per il disco", osserva Julia. "I primi dischi sono speciali perché hai passato tutta la vita a scriverli. Registrando il nostro album in un mese nello stesso studio con un produttore abbiamo mantenuto la creatività, ma abbiamo anche trovato la coesione."

I BAILEN sono emersi sulla scena coltivando un seguito appassionato attraverso i loro live, con oltre 300 spettacoli fino ad oggi, e facendo tour e collaborazioni con artisti come Amos Lee, The Lone Bellow, Joseph, Oh Wonder e altri. La band ha anche annunciato un tour americano da Febbraio ad Aprile al momento.





Blackswan, martedì 02/04/2019

lunedì 1 aprile 2019

MARY BRAGG - VIOLETS AS CAMOUFLAGE (Tone Tree Music, 2019)

Finalmente, al quarto tentativo, Mary Bragg sforna quel capolavoro che i lavori precedenti già facevano presagire. Fin dal titolo originalissimo, Violets As Camouflage è un disco sincero e sfacciato, in cui la Bragg sfoggia una padronanza compositiva da fuoriclasse, gioca sui contrasti, alternando intensità emotiva e vulnerabilità, ricamo acustico e distorsione elettrica, malinconia autunnale e barbagli di sole primaverile.
La storia di Mary Bragg è la storia di un’artista inquieta, di una donna che ha girato gli States in lungo e in largo per trovare, finalmente, a Nashville, una casa dove stabilizzare la propria creatività. Nata a Swainsboro (Georgia), nel profondo Sud degli Stati Uniti, Mary è cresciuta in una famiglia numerosa (quattro fratelli e ventun cugini, riportano le cronache), trovando poco spazio per dare voce alle proprie velleità musicali. Un viaggio a New York, le ha cambiato la vita e le prospettive, tanto che, finito il liceo, la giovane Bragg si è trasferita a vivere nella Grande Mela, per fare un’esperienza di vita, quella che poi confluirà nei testi delle canzoni di Lucky Strike (il suo terzo full lenght), e per tentare di sfondare nel mondo della musica, favorita dal rutilante panorama di una metropoli dalle mille possibilità.
New York, però, logora, soprattutto chi arriva dalla provincia: così Mary, dopo aver registrato un disco a Manatthan (Tatoos & Bruises del 2011) ed aver tentato l’avventura californiana con The Edge Of This Town (2015), è approdata a Nashville, città meno caotica ma comunque fervida di suggestioni musicali. Qui, dove risiede dal 2014, è entrata subito in sintonia con la comunità roots, conquistandosi la stima di molti musicisti locali, che hanno dato poi un contributo decisivo alla stesura delle canzoni che hanno composto l’acclamato Lucky Strike.
L’approccio di Mary a quel lavoro fu, a dir poco, minimal. Scelse un budget ridotto e uno studio di registrazione di basso profilo, con impianti e microfoni vecchi, per rendere più vero il suono, privandolo così di ogni inutile artificio. Si fece affiancare alla consolle da Jim Reilly (membro fondatore dei New Dylans) e scelse la strada, per quanto possibile, della presa diretta, registrando senza filtri ed evitando invasivi rimaneggiamenti in fase di post produzione. Violets As Camouflage si muove più o meno negli stessi territori, ma con una consapevolezza diversa, un tocco più maturo, con arrangiamenti meno francescani, ma egualmente calibrati. Americana, con qualche incursione nel country (il violino di A Little Less), e un filotto di ballate, talvolta solo acustiche, nella seconda parte del disco più elettriche, che declinano con ispirazione un linguaggio conosciuto, ma in questo caso ricco di sfumature e di debordante intensità.Se l’abito indossato da queste canzoni è il più classico dei classici, da parte sua la Bragg mette una voce incredibilmente duttile e ispirata, cesellando melodie che, in più di un caso, lasciano a bocca aperta.
Il disincanto malinconico di I Thought You Were Somebody Else (“Ho preso in giro me stessa. Scusa, pensavo fossi qualcun altro”) apre il disco su note di pedal steel, languide come lacrime sul velluto. La melodia in punta di plettro di Fixed pizzica le corde del cuore e sollecita al ragionamento, innescando una riflessione sull’idea distorta che i giovani talvolta hanno di loro stessi e della propria bellezza a causa dei social.
Fool è una ballata elettroacustica che passa vicino a Lucinda Williams e manda al tappeto con un ritornello di sofferta intensità, Runaway Town è il brano più rock del lotto, vola dritto e diretto su un drive di chitarra schietto e senza fronzoli, mentre The Right Track intreccia acustica e pedal steel in un ordito melodico candido come la neve.  
Poi, arriva il momento di The Highest Tower, e la caratura artistica di Mary Bragg si manifesta in tutto il suo abbagliante splendore: chitarra acustica, riverberi elettrici e un’interpretazione vocale che commuove alle lacrime, per intensità, inaspettati cambi di registro e tecnica. Fare una canzone immensa con quasi nulla, non è da tutti. Mary Bragg ci riesce, sigillando un disco di americana fra i migliori ascoltati negli ultimi anni. Bellissimo. 

VOTO: 8





Blackswan, lunedì 01/04/2019