sabato 25 giugno 2016

PAUL CLEAVE - IL VENDICATORE



Theodore Tate, detective privato, non ha mai dimenticato la sua prima scena del crimine. Quindici anni fa, quando era ancora uno stimato poliziotto, fu lui a ritrovare il corpo di una bambina, Jessica Cole, in un mattatoio abbandonato. Il killer fu identificato e arrestato e giustizia fu fatta. Ma è stato davvero così? Oggi, a quindici anni di distanza da quell’omicidio, un nuovo killer si aggira per Christchurch in Nuova Zelanda, e ha una lista di persone da uccidere, tutte coinvolte nell’assassinio di Jessica. Così Tate si trova, suo malgrado, proiettato di nuovo nelle indagini. E tutto, come allora, sembra riportarlo allo stesso, vecchio mattatoio…

Tutti gli amanti dei thriller prestino attenzione! Paul Cleave, romanziere neozelandese, notissimo in patria (il suo The Cleaner è stato un best seller nazionale) e un po’ meno da noi, è uno scrittore coi fiocchi. A dimostrarlo questo lavoro, risalente al 2012, che si inserisce con autorevolezza nel filone thriller ma che ha molte altre frecce al proprio arco. In primo luogo, una scrittura ritmata e agile, ma mai sciatta, spesso innervata da una buona dose di ironia. In secondo luogo, se è vero che Theodore Tate, il protagonista buono del romanzo, non esce dalla consueta rappresentazione del poliziotto tormentato da mille fantasmi, è per converso ottimo l’approfondimento psicologico che Cleave fa della figura dell’altrettanto tormentato protagonista negativo, nel quale si alternano, in modo inaspettato, momenti di umanità ad altri di belluina ferocia. Infine, Cleave riesce a superare la suddivisione manichea fra bene e male, per porci alcuni quesiti etici su vendetta e perdono, temi, questi, che ricorrono in quasi tutte le quattrocento pagine del libro. Alla fine, tuttavia, ciò che più conta in questo genere di romanzi, sono il ritmo e i colpi di scena, e qui ce ne sono in abbondanza. Tanto che, in alcuni passaggi del libro, la tensione si fa quasi parossistica. Consigliatissimo per chi, sotto l’ombrellone, ama portarsi libri d’evasione e provare qualche sottile brivido di paura.


Blackswan, sabato 25/06/2016 

venerdì 24 giugno 2016

ROBERT ELLIS - ROBERT ELLIS



Ci sono dischi che lasciano inevitabilmente perplessi, soprattutto quando provengono da musicisti di indubbia caratura artistica, con alle spalle lavori ben fatti, di quelli che ritrovi ad ascoltare con piacere anni dopo la loro uscita. E' il caso di Robert Ellis, ottimo songwriter e chitarrista texano, con alle spalle tre album di ottima fattura e un'idea di americana capace di sposarsi meravigliosamente bene con raffinate melodie pop. Oggi, Ellis torna con un nuovo disco dedicato a una storia d'amore finita, interamente composto e autoprodotto dallo stesso chitarrista. ed è proprio sulla produzione che casca l'asino. Perchè Ellis non abbia voluto mantenere in vita il sodalizio con Jacquire King, che aveva fatto tanto bene con il precedente e celebrato The Lights From The Chemical Plant, non solo è un mistero ma è anche la classica zappa sul piede. Il songwriting del musicista texano, capace di delicatezze compositive che spesso hanno indotto ad accostamenti con Paul Simon (ascoltate l'iniziale Perfect Strangers e California, per intenderci), viene qui, infatti, soffocato da una produzione invasiva, che fa abbondante uso di MIDI keyboards, sezioni d'archi, ambient noise e sintetizzatori in dose massiccia. Il risultato è confuso e innaturale, e la sensazione dominante è quella che Ellis abbia gettato un'occasione dalla finestra. A parte alcuni filler, riconoscibili al primo ascolto (la strumentale Screw, ad esempio, è un esperimento elettronico che non funziona), le canzoni ci sono e le melodie anche. Il problema, semmai, è che tutto è pasticciato e pomposo, e brani che in una veste scarna sarebbero splendidi (You're Not The One viene letteralmente uccisa da un fastidioso arrangiamento d'archi), perdono di efficacia per un eccesso di artificio. Così, alla fine, le cose migliori sono i due brani poc'anzi citati (Perfect Strangers e California possiedono un delizioso retrogusto seventies), l'onestissimo gancio radiofonico di How I Love You e il fingerpicking seducente di Elephant. Il rimanente lotto, se fosse denudato da inutili orpelli, ci farebbe propendere per un'abbondante sufficienza. Invece, così, resta l'amaro in bocca per un enorme potenziale malamente dissipato.

VOTO: 5,5





Blackswan, venerdì 24/06/2016

giovedì 23 giugno 2016

RIVAL SONS - HOLLOW BONES (Earache, 2016)



Suonano Rock e Hard-Blues dal 2008 e non sembrano avere l’intenzione di smettere, anzi alla luce di questo recentissimo lavoro danno l’impressione di voler accelerare il tiro, offrendoci nove canzoni nuove di zecca di straordinaria intensità e compattezza. Molti tra coloro che ritengono il genere morto e sepolto già da qualche decennio si faranno in quattro per sostenere, puntando il dito sul sound dalla band mutuato da quelle storiche dei ’60 e dei ’70 (Cream, Zeppelin, Steppenwolf), che i Rival Sons ripropongono formule musicali derivative e antiquate. Niente di più giusto, niente di più sbagliato: a convincere, oltre al feeling innegabile con quegli anni, sono soprattutto la personalità, le capacità compositive e la carica interpretativa fuori dal comune, che la band californiana profonde generosamente ad ogni nuova uscita.
A questo proposito, ritengo che gruppi come i Rival Sons siano oggi necessari più che mai proprio perché, oltre a coltivare quel brutto vizio chiamato memoria, gettando un ponte ideale tra il periodo aureo del Rock e la contemporaneità, intervengono ad alzare un argine atto a contenere la tendenza attuale che vede la sostanziale dittatura del mainstream con il benestare spesso entusiastico della maggior parte della critica ubriaca di hype, facili sensazionalismi dal fiato corto e micidiali crossover dove il peggio va allegramente a braccetto con il ridicolo. 




Dopo questa premessa verrebbe da dare un 9 di pura simpatia a Jay Buchanan e compagni (stando a sentire gli addetti ai lavori di cui sopra, anacronistici panda in via d’estinzione) prescindendo dall’ascolto del nuovo disco! Anche perché basterebbero i tre full-lenght precedenti e pezzi come Play the Fool, Until the Sun Comes o Good Things per annoverare la band di Los Angeles tra le più eccitanti degli anni ’10. Naturalmente non c’è bisogno di tanta vicinanza e propensione per caldeggiare le qualità dei Rival Sons: Hollow Bones è un album vitalissimo, potente ed elettrico, trascinante nei brani più irruenti (Hollow Bones pt.1, Thundering Voices, Pretty Faces, Black Coffee) ed evocativo in quelli più rilassati (Tied Up, Fade Out, All That I Want ), da ascoltare e riascoltare con la stessa “urgenza” di 40 e passa anni fa quando il mondo andava in tutt’altra direzione e dischi del genere erano normale prassi da opporre alle mostruosità che anche all’epoca non mancavano.
La formazione è tra le più classiche quando c’è da sudare sugli strumenti: una sezione ritmica instancabile con Dave Beste al basso e Mike Miley alla batteria, la chitarra tuttofare di Scott Holiday, e la voce ipnotica, benedetta dagli Dei del Rock, del già citato Jay Buchanan che dona alla band una riconoscibilità istantanea. Dirige, nei suoi studi di Nashville, Dave Cobb amico di lunga data e geniale produttore di alcuni capolavori di Rock e Americana degli ultimi anni (Sturgill Simpson, Anderson East, Bonnie Bishop, giusto per fare qualche nome). Tra le altre prerogative della band californiana l’intensissima attività live in proprio e come supporto per mostri sacri quali Aerosmith, Deep Purple, Alice Cooper e Black Sabbath (saranno con loro nel tour d’addio partito da poco). Infine, una curiosità: incidono fin dagli esordi con la Earache Records, una delle etichette simbolo del Metal estremo. La bizzarra collaborazione (davvero difficile immaginare i Rival Sons in un contesto Grindcore), sembra comunque funzionare molto bene considerando che la visibilità della band e i risultati commerciali sono in continua ascesa. Non rimane che augurare lunga vita ai derivativi e antiquati Rival Sons e buon ascolto a chi non ne può più di respirare unicamente l’aria che tira.

Voto: 8





Porter Stout, giovedì 23/06/2016

mercoledì 22 giugno 2016

HUGO RACE FATALISTS - 24 HOURS TO NOWHERE



Hugo Race è uno di quegli artisti a proposito del quale è quasi impossibile parlare male. Dopo una lunga carriera, iniziata secoli fa con i Birthday Party, proseguita alla corte di Nick Cave e impreziosita dalla militanza nei Dirtmusic di quel Chris Eckman, paladino delle contaminazioni, Race continua a rilasciare dischi (siamo ormai a venti, più o meno) con una coerenza e un'ispirazione che non ha cedimenti. 24 Hours To Nowhere prosegue la collaborazione con i Fatalists (è il terzo progetto insieme), gruppo di musicisti italiani, che dalle nostre parti prende il nome di Sacri Cuori, a cui si aggiungono altri artisti che hanno condiviso in passato palco e studio di registrazione con il songwriter australiano: Angie Hart dei Frente, Michelangelo Russo dei True Spirits, Davide Mahony e Giovanni Ferrario dei Sepiatone, Vicky Brown e Julitha Ryan (rispettivamente al violino e al violoncello). Un pugno di straordinari strumentisti, che tessono le trame entro le quali si dipana il senso di Race per il dolore e la malinconia. Le dieci canzoni in scaletta, infatti, non si discostano dal consueto mood di intimi struggimenti declamati da quella voce baritonale che da anni ci racconta, con intensità e sincera partecipazione, storie di morte, di malattia, d'amore, di speranza, di un tempo che trascorre inesorabile e indifferente al nostro destino. Canzoni di folk moderno, meravigliosamente arrangiate, talvolta percorse da battiti elettronici o avvolti nel tocco suadente degli archi, che raggiungono splendidi picchi nella magistrale cover di It'll Never Happen Again di Tim Hardin, in quella più solare di Ballad Of Easy Rider dei Byrds, o nelle evocative e strazianti note di We Were Always Young, No God In The Sky e 24 Hours To Nowhere, con la bella voce di Angie Hart a fare da contrappunto alle tonalità crooner di Race. Un viaggio intimo e profondo, ove tutto è penombra e crepuscolare emozione.

VOTO: 7 




Blackswan, mercoledì 22/06/2016

AMERICANA