Lori
McKenna ha appena annunciato la realizzazione di un nuovo album in
studio, The Tree, in uscita il 20 di luglio via CN Records And Thirty
Tigers. The tree è il suo undicesimo disco e segue The Bird And The
Rifle, che nel 2016 è stato nominato al Grammy Award.
Come
per il suo predecessore, il disco è stato registrato presso i
leggendari RCA Studio A di Nashville e vede in cabina di regia il
prolifico Dave Cobb. Nella composizione delle canzoni, Lori è stata
affiancata da Natalie Hemby, Hailey Whitters, Liz Rose, and Hillary
Lindsey, mentre in studio è stata accompagnata da un parterre de roi
composto da Anderson East (chitarra elettrica), Brian Allen (basso),
Chris McKenna (mellotron), Chris Powell (batteria), e Kristen Rogers
(background vocals).
The Tree viene anticipato dal primo singolo People Get Old.
Scordatevi gli Arctic Monkeys, perché la band che conoscevate non esiste più. Whatever People Say I Am, That's What I'm Not
(2006) è un disco che appartiene a un’epoca preistorica, che nulla ha
più a che vedere con questo nuovo corso intrapreso da Alex Turner e
soci; ma mettete una bella croce anche sul più recente AM (2013), che già non era molto in linea con i primi lavori del gruppo.
Da
quel penultimo disco sono passati solo cinque anni, ma la distanza si è
fatta siderale. In AM, l’urgenza quasi punk, che ci faceva zompare come
indemoniati mentre pulsava rapida I Bet You Look Good On The Dancefloor,
era andata (quasi) perduta per sempre. Le canzoni quel disco
denotavano un’architettura sonora più riflessiva, che continuava a
mantenere un appeal giovanilistico e modaiolo, ma che si faceva al
contempo più variegata, ricca di citazioni e con sfiziosi ammiccamenti a
certa musica nera, hip hop e soul in primis.
Se, però, voi, fans della prima ora, consideravate AM l’album del tradimento definitivo, Tranquillity Base Hotel & Casino
suonerà alle vostre orecchie come una sorta di vilipendio di cadavere.
Quindi, scappate a gambe levate. Perché, al sesto album in studio, gli
Arctic Monkeys hanno, infatti, plasmato una scaletta depurata da ogni
possibile scoria del passato (visto il nuovo corso, la parola scoria è
quasi d’obbligo), tanto che per approcciarsi all’ascolto e uscirne
soddisfatti (sempre ammesso che sia possibile), è di gran lunga
preferibile non essere fan della band.
Tranquillity
Base Hotel & Casino è un disco figlio di cinque anni di riflessione
e della nuova passione di Turner per il piano, un lavoro meditato,
voluttuoso ma scorbutico, poco incline ad accondiscendere ascolti
superficiali, dal momento che l’immediatezza, ormai, non abita più qui.
Le chitarre ci sono ancora, certo, ma sono solo sfumature in una tela di
colori pastello, tratteggiati da arrangiamenti densi, che vestono di
vintage ed elettronica melodie sinuose e stravaganti, citando i Beatles
e, perché no, Bowie, e ammiccando a sonorità, tutto sommato, più vicine
ai Last Shadow Puppets.
Questo
disco, probabilmente, non piacerà, né ai fan della prima ora né agli
ascoltatori occasionali, che cercano nella musica emozioni subitanee e
quelle due o tre canzoni che spaccano e fanno la differenza anche in
termini di orecchiabilità. E ciò nonostante la miglior prova vocale di
sempre di Turner, il coraggio della sperimentazione e un fascino elusivo
di canzoni quasi inafferrabili.
Un
disco complesso, dunque, che ha sancito definitivamente la metamorfosi
di una ex internet band di ragazzini, che cavalcò meravigliosamente
l’onda lunga del post punk revival e che ora, invece, ha iniziato a
suonare in un’altra galassia. Per capire se è un bene o un male, bisogna
solo ascoltare: ci vuole tempo, ma potrebbe essere una sorpresa.
Dopo aver annunciato per il 6 luglio l’uscita del nuovo album Sun On The Square,
i the innocence mission condividono il primo video, “Green Bus”,
aratterizzato dalla bellissima animazione creata da Karen Peris, voce
del gruppo e artista talentuosa. “È il mio primo tentativo di rendere
una canzone con l’animazione,” dice Karen, “ed è stato un processo molto
divertente che mi ha anche aiutato a percepire alcune cose
sull’emozione che sta dietro al brano e che non avrei potuto realizzare
appieno mentre componevo.”
Per
i loro fan, i the innocence mission sono ben più della “gruppo
preferito”, sono il compagno amato: tale è l’intensità del loro suono e
della loro visione, guidati dalla voce mozzafiato di Karen Peris. Tra i
loro fan ci sono Sufijan Stevens e Sam Beam (Iron & Wine), che hanno
entrambi fatto cover di loro canzoni.
Ci
sono band a cui basta un disco, magari anche un singolo, per scalare le
classifiche e diventare famose; e altre, invece, che si dannano l’anima
per anni senza cavare un ragno dal buco. E’ quello che, più o meno, è
successo agli Old Crow Medicine Show, band oggi di stanza a Nashville,
formatasi sul finire degli anni ’90 a Harrisonburg, Virginia.
Una
gavetta dura, a sputar sangue in piccolissimi locali di periferia o a
raccogliere consensi agli angoli delle strade (il nome del gruppo in tal
senso è abbastanza esplicito). Ed è proprio durante uno di questi
concerti improvvisati, davanti a una farmacia di Boone, un paesone della
North Carolina, che gli OCMS vengono notati da Doc Watson, uno dei
padri dell’american roots.
Un
bel intuito quello avuto da Watson che, dopo averli ascoltati, se li
porta a suonare al Merlefest, festival di musica tradizionale che si
svolge ogni anno in quel di Wilkesboro. Da qui, dal cuore dell’America
rurale, la band capitanata dal cantante e violinista Ketch Secor ha
iniziato un’ascesa di consensi e successo che li ha portati a suonare al
Grand Ole Opry, programma radiofonico in onda ininterrottamente dal
1925 e che è considerato il massimo punto di arrivo per la consacrazione
di un musicista country.
Ora,
gli Old Crow Medicine Show li conoscono tutti, sono uno dei gruppi
leader di quel movimento chiamato progressive bluegrass (e di cui
rappresentano la falange più ortodossa), vendono milioni di dischi (un
Grammy Award vinto con il loro penultimo Remedy) e si piazzano sempre ai
primi posti delle posti delle classifiche di genere. Sei dischi
all’attivo (senza contare i primissimi lavori, praticamente introvabili)
una manciata di Ep e una fama ormai consolidatissima di eccezionale
live band, rappresentano il pedigree di una delle realtà più stimolanti
dell’intera scena country statunitense. Anche perché questi sette
ragazzi non si limitano a rinverdire i fasti della tradizione, ma amano
plasmare il suono roots con un approccio incredibilmente punk rock:
alternative country, quindi, suonato in acustico, ma con la potenza e
l’energia di una band che suona elettrico.
Volunteer
è il secondo disco sotto l’egida Columbia, major con la quale gli OCMS
avevano già pubblicato, lo scorso anno, lo splendido tributo a Dylan (50
Years Of Blonde On Blonde). Ed è anche il primo disco che vede la
presenza di Dave Cobb in produzione, dopo che il precedente Remedy
(2014) si era valso dei servigi del britannico Ted Hutt (Gaslight
Anthem, Flogging Molly, etc).
Cobb,
dal canto suo, non ha aggiunto molto a un repertorio già ben
consolidato, limitandosi a rendere ancora più potente il suono e ad
arrotondare qualche spigolo. Insomma, ha assecondato le doti principali
della band, mettendo in luce i gioielli di famiglia, e cioè,
immediatezza, potenza, gran ritmo e strumenti sbrigliati usque ad fine,
fiore all’occhiello di quello che potremmo definire, insieme a Remedy,
il miglior capitolo della discografia degli OCMS.
Canzoni
che pescano dal bluegrass, che citano Dylan (la voce di Secor, senza
possederne la fascinosa asprezza, ricorda da vicino quella del
menestrello di Duluth), che sfociano in up tempo travolgenti (per chi
non mastica la materia, rimanderei alle gighe dei Pogues, giusto per
farsi un’idea) o si illanguidiscono attraverso ballate pronunciate con
accenti decisamente bluesy.
Un
disco che si ascolta tutto in un fiato, e che trasmette la sanguigna
passionalità di chi ha costruito la propria carriera trasformando ogni
concerto in un pogo travolgente (ascoltate le accelerazioni di Flicker & Shine,
indemoniato compendio di tecnica e ultra velocità). Questa volta, però,
sono i brani più lenti a prendersi la scena, visto che i nostri eroi
inanellano un filotto di ballate da urlo (Child Of The Mississippi, Old Hickory, Homecoming Party, Whirlwind) levigate dalla mano sicura di Cobb e dalla voce appassionata di un sempre più convincente Secor.
Nella
speranza che prima o poi facciano un salto dalle nostre parti, non
perdetevi questo gioiellino: loro sono probabilmente la migliore roots
band in circolazione.
Per
anni le composizioni e le produzioni di J. Peter Schwalm sono state una
prova impressionante dell'intensità dei suoni senza parole. Più
coerente che mai, nel suo nuovo album “How We Fall”, Schwalm crea
sculture sonore che trascendono le categorie più comuni. Le loro
strutture possono assumere forme ruvide o dolcemente curve, dispiegare
effetti associativi o contemplativi e possono anche far rabbrividire
l'ascoltatore. La sensibilità di Schwalm per le sfumature, gli archi di
tensione e i suoni individuali si basa sul talento e su un'esperienza
pluriennale.
Il
suo ultimo album prima di questo nuovo “How We Fall”, intitolato “The
Beauty Of Disaster”, risale alla primavera del 2016; il lavoro ruotava
intorno ad una dualità che modella le arti visive e la musica, oltre che
la vita stessa: una certa malinconia che è sempre insita nella
speranza. Poi, nell'autunno 2016 una svolta nella sua vita,
un'esperienza esistenziale che ha lasciato tracce profonde: al musicista
(nato a Francoforte sul Meno nel 1970) viene diagnosticato un tumore
cerebrale, che deve essere rimosso chirugicamente.
Durante l'intervento
la procedura si dimostra però impossibile e Schwalm viene sottoposto a
chemioterapia. Nel corso dell'anno successivo il nostro si rimette al
lavoro su una serie di pezzi che inevitabilmente riflettono stati
d'animo quali irrequietezza, paura, disperazione e rabbia, mentre lo
sforzo artistico è concentrato nella capacità di elaborare queste
emozioni in suoni astratti. La ripartenza dopo la pausa per malattia non
è stata facile: "Nelle prime settimane dopo l'operazione, ho ascoltato
il mio archivio per distrarmi e ispirarmi. Ho iniziato a progettare
miniature al pianoforte, sviluppando armonie che ho poi trasferito alle
mie macchine. Mi sono però reso conto che dovevo riscoprire parti della
mia attrezzatura perché non ne ricordavo tutte le funzioni".
Questo si
spiega in parte con il fatto che il musicista tedesco ha negli anni
utilizzato tecniche avanzate e molto particolari, alcune delle quali da
lui personalmente sviluppate e insegnate in occasioni di festival e
seminari in tutto il mondo. Nel corso del tempo, Schwalm ha trasformato
le sue idee originali, ha variato e ampliato la gamma dei timbri delle
sue composizioni fino a rendere irriconoscibili gli strumenti di cui si
avvale. "Durante il processo mi sono reso conto che ci sono paralleli
tra le mie esperienze personali e le mie emozioni e l'attuale situazione
sociale e politica nel mondo", aggiunge Schwalm. Questo pensiero lo ha
portato a scegliere per alcuni pezzi del nuovo album titoli che
assomigliano in modo ingannevole a dei termini inglesi. "Altri sono
invece nomi di veri villaggi tedeschi, luoghi appartenenti ad un'area
scelta dal comando militare americano durante la Guerra Fredda come zona
di eventuale sgancio di armi nucleari, per prevenire possibili attacchi
sovietici che tentassero di occupare la Germania" spiega Schwalm, che
proviene proprio da questa regione, chiamata "Fulda Gap" (Varco di
Fulda).
I sorprendenti cambiamenti sonori che troviamo nella
iniziale “Strofort” sono un esempio per i successivi 45 minuti.
Suggestivo come una colonna sonora che non ha bisogno di immagini, il
brano collega, disponendole con cura, diverse superfici e frammenti di
un linguaggio immaginario, che ci proiettano in un'altra dimensione. Nel
corso dell'album ci sono pezzi come “Stormbruch” che spingono oltre il
limite il concetto di drone in lenta crescita. Oppure “Clingon”,
giocata interamente sullo sviluppo di pulsazioni. "Rispetto al disco
precedente, questa volta ho lavorato di più con dettagli ritmici,
inclusi metri dispari e opposti", spiega Schwalm. Per J. Peter Schwalm
“How We Fall” è una sorta di istantanea scattata in un tempo
relativamente breve rispetto ai lavori precedenti. "La musica
rappresenta un universo chiuso che riflette il momento e le circostanze
in cui è stata creata", spiega. Tutti i pezzi di questo album sono
profondamente personali, espressione intensa di un artista sonoro che
non deve scendere a compromessi. La musica senza dubbio suona scura, ma
mai depressa, e quasi sempre si scorge un accenno di luce.