domenica 20 maggio 2018

PREVIEW



Lori McKenna ha appena annunciato la realizzazione di un nuovo album in studio, The Tree, in uscita il 20 di luglio via CN Records And Thirty Tigers. The tree è il suo undicesimo disco e segue The Bird And The Rifle, che nel 2016 è stato nominato al Grammy Award.
Come per il suo predecessore, il disco è stato registrato presso i leggendari RCA Studio A di Nashville e vede in cabina di regia il prolifico Dave Cobb. Nella composizione delle canzoni, Lori è stata affiancata da Natalie Hemby, Hailey Whitters, Liz Rose, and Hillary Lindsey, mentre in studio è stata accompagnata da un parterre de roi composto da Anderson East (chitarra elettrica), Brian Allen (basso), Chris McKenna (mellotron), Chris Powell (batteria), e Kristen Rogers (background vocals).
The Tree viene anticipato dal primo singolo People Get Old.





Blackswan, domenica 20/05/2018

sabato 19 maggio 2018

ARCTIC MONKEYS - TRANQUILLITY BASE HOTEL & CASINO (Domino, 2018)

Scordatevi gli Arctic Monkeys, perché la band che conoscevate non esiste più. Whatever People Say I Am, That's What I'm Not (2006) è un disco che appartiene a un’epoca preistorica, che nulla ha più a che vedere con questo nuovo corso intrapreso da Alex Turner e soci; ma mettete una bella croce anche sul più recente AM (2013), che già non era molto in linea con i primi lavori del gruppo.
Da quel penultimo disco sono passati solo cinque anni, ma la distanza si è fatta siderale. In AM, l’urgenza quasi punk, che ci faceva zompare come indemoniati mentre pulsava rapida I Bet You Look Good On The Dancefloor, era andata (quasi) perduta per sempre.  Le canzoni quel disco denotavano un’architettura sonora più riflessiva, che continuava a mantenere un appeal giovanilistico e modaiolo, ma che si faceva al contempo più variegata, ricca di citazioni e con sfiziosi ammiccamenti a certa musica nera, hip hop e soul in primis.
Se, però, voi, fans della prima ora, consideravate AM l’album del tradimento definitivo, Tranquillity Base Hotel & Casino suonerà alle vostre orecchie come una sorta di vilipendio di cadavere. Quindi, scappate a gambe levate. Perché, al sesto album in studio, gli Arctic Monkeys hanno, infatti, plasmato una scaletta depurata da ogni possibile scoria del passato (visto il nuovo corso, la parola scoria è quasi d’obbligo), tanto che per approcciarsi all’ascolto e uscirne soddisfatti (sempre ammesso che sia possibile), è di gran lunga preferibile non essere fan della band.
Tranquillity Base Hotel & Casino è un disco figlio di cinque anni di riflessione e della nuova passione di Turner per il piano, un lavoro meditato, voluttuoso ma scorbutico, poco incline ad accondiscendere ascolti superficiali, dal momento che l’immediatezza, ormai, non abita più qui. Le chitarre ci sono ancora, certo, ma sono solo sfumature in una tela di colori pastello, tratteggiati da arrangiamenti densi, che vestono di vintage ed elettronica melodie sinuose e stravaganti, citando i Beatles e, perché no, Bowie, e ammiccando a sonorità, tutto sommato, più vicine ai Last Shadow Puppets.
Questo disco, probabilmente, non piacerà, né ai fan della prima ora né agli ascoltatori occasionali, che cercano nella musica emozioni subitanee e quelle due o tre canzoni che spaccano e fanno la differenza anche in termini di orecchiabilità. E ciò nonostante la miglior prova vocale di sempre di Turner, il coraggio della sperimentazione e un fascino elusivo di canzoni quasi inafferrabili.
Un disco complesso, dunque, che ha sancito definitivamente la metamorfosi di una ex internet band di ragazzini, che cavalcò meravigliosamente l’onda lunga del post punk revival e che ora, invece, ha iniziato a suonare in un’altra galassia. Per capire se è un bene o un male, bisogna solo ascoltare: ci vuole tempo, ma potrebbe essere una sorpresa.

VOTO: 7,5





Blackswan, sabato 19/05/2018

venerdì 18 maggio 2018

PREVIEW



Dopo aver annunciato per il 6 luglio l’uscita del nuovo album Sun On The Square, i the innocence mission condividono il primo video, “Green Bus”, aratterizzato dalla bellissima animazione creata da Karen Peris, voce del gruppo e artista talentuosa. “È il mio primo tentativo di rendere una canzone con l’animazione,” dice Karen, “ed è stato un processo molto divertente che mi ha anche aiutato a percepire alcune cose sull’emozione che sta dietro al brano e che non avrei potuto realizzare appieno mentre componevo.”
Per i loro fan, i the innocence mission sono ben più della “gruppo preferito”, sono il compagno amato: tale è l’intensità del loro suono e della loro visione, guidati dalla voce mozzafiato di Karen Peris. Tra i loro fan ci sono Sufijan Stevens e Sam Beam (Iron & Wine), che hanno entrambi fatto cover di loro canzoni.





Blackswan, venerdì 18/05/2018

giovedì 17 maggio 2018

OLD CROW MEDICINE SHOW - VOLUNTEER (Columbia, 2018)

Ci sono band a cui basta un disco, magari anche un singolo, per scalare le classifiche e diventare famose; e altre, invece, che si dannano l’anima per anni senza cavare un ragno dal buco. E’ quello che, più o meno, è successo agli Old Crow Medicine Show, band oggi di stanza a Nashville, formatasi sul finire degli anni ’90 a Harrisonburg, Virginia.
Una gavetta dura, a sputar sangue in piccolissimi locali di periferia o a raccogliere consensi agli angoli delle strade (il nome del gruppo in tal senso è abbastanza esplicito). Ed è proprio durante uno di questi concerti improvvisati, davanti a una farmacia di Boone, un paesone della North Carolina, che gli OCMS vengono notati da Doc Watson, uno dei padri dell’american roots.
Un bel intuito quello avuto da Watson che, dopo averli ascoltati, se li porta a suonare al Merlefest, festival di musica tradizionale che si svolge ogni anno in quel di Wilkesboro. Da qui, dal cuore dell’America rurale, la band capitanata dal cantante e violinista Ketch Secor ha iniziato un’ascesa di consensi e successo che li ha portati a suonare al Grand Ole Opry, programma radiofonico in onda ininterrottamente dal 1925 e che è considerato il massimo punto di arrivo per la consacrazione di un musicista country.
Ora, gli Old Crow Medicine Show li conoscono tutti, sono uno dei gruppi leader di quel movimento chiamato progressive bluegrass (e di cui rappresentano la falange più ortodossa), vendono milioni di dischi (un Grammy Award vinto con il loro penultimo Remedy) e si piazzano sempre ai primi posti delle posti delle classifiche di genere. Sei dischi all’attivo (senza contare i primissimi lavori, praticamente introvabili) una manciata di Ep e una fama ormai consolidatissima di eccezionale live band, rappresentano il pedigree di una delle realtà più stimolanti dell’intera scena country statunitense. Anche perché questi sette ragazzi non si limitano a rinverdire i fasti della tradizione, ma amano plasmare il suono roots con un approccio incredibilmente punk rock: alternative country, quindi, suonato in acustico, ma con la potenza e l’energia di una band che suona elettrico.
Volunteer è il secondo disco sotto l’egida Columbia, major con la quale gli OCMS avevano già pubblicato, lo scorso anno, lo splendido tributo a Dylan (50 Years Of Blonde On Blonde). Ed è anche il primo disco che vede la presenza di Dave Cobb in produzione, dopo che il precedente Remedy (2014) si era valso dei servigi del britannico Ted Hutt (Gaslight Anthem, Flogging Molly, etc).
Cobb, dal canto suo, non ha aggiunto molto a un repertorio già ben consolidato, limitandosi a rendere ancora più potente il suono e ad arrotondare qualche spigolo. Insomma, ha assecondato le doti principali della band, mettendo in luce i gioielli di famiglia, e cioè, immediatezza, potenza, gran ritmo e strumenti sbrigliati usque ad fine, fiore all’occhiello di quello che potremmo definire, insieme a Remedy, il miglior capitolo della discografia degli OCMS.
Canzoni che pescano dal bluegrass, che citano Dylan (la voce di Secor, senza possederne la fascinosa asprezza, ricorda da vicino quella del menestrello di Duluth), che sfociano in up tempo travolgenti (per chi non mastica la materia, rimanderei alle gighe dei Pogues, giusto per farsi un’idea) o si illanguidiscono attraverso ballate pronunciate con accenti decisamente bluesy.
Un disco che si ascolta tutto in un fiato, e che trasmette la sanguigna passionalità di chi ha costruito la propria carriera trasformando ogni concerto in un pogo travolgente (ascoltate le accelerazioni di Flicker & Shine, indemoniato compendio di tecnica e ultra velocità). Questa volta, però, sono i brani più lenti a prendersi la scena, visto che i nostri eroi inanellano un filotto di ballate da urlo (Child Of The Mississippi, Old Hickory, Homecoming Party, Whirlwind) levigate dalla mano sicura di Cobb e dalla voce appassionata di un sempre più convincente Secor.
Nella speranza che prima o poi facciano un salto dalle nostre parti, non perdetevi questo gioiellino: loro sono probabilmente la migliore roots band in circolazione.

VOTO: 8





Blackswaan, giovedì 17/05/2018

mercoledì 16 maggio 2018

PREVIEW




Per anni le composizioni e le produzioni di J. Peter Schwalm sono state una prova impressionante dell'intensità dei suoni senza parole. Più coerente che mai, nel suo nuovo album “How We Fall”, Schwalm crea sculture sonore che trascendono le categorie più comuni. Le loro strutture possono assumere forme ruvide o dolcemente curve, dispiegare effetti associativi o contemplativi e possono anche far rabbrividire l'ascoltatore. La sensibilità di Schwalm per le sfumature, gli archi di tensione e i suoni individuali si basa sul talento e su un'esperienza pluriennale. 

Il suo ultimo album prima di questo nuovo “How We Fall”, intitolato “The Beauty Of Disaster”, risale alla primavera del 2016; il lavoro ruotava intorno ad una dualità che modella le arti visive e la musica, oltre che la vita stessa: una certa malinconia che è sempre insita nella speranza. Poi, nell'autunno 2016 una svolta nella sua vita, un'esperienza esistenziale che ha lasciato tracce profonde: al musicista (nato a Francoforte sul Meno nel 1970) viene diagnosticato un tumore cerebrale, che deve essere rimosso chirugicamente. 
Durante l'intervento la procedura si dimostra però impossibile e Schwalm viene sottoposto a chemioterapia. Nel corso dell'anno successivo il nostro si rimette al lavoro su una serie di pezzi che inevitabilmente riflettono stati d'animo quali irrequietezza, paura, disperazione e rabbia, mentre lo sforzo artistico è concentrato nella capacità di elaborare queste emozioni in suoni astratti. La ripartenza dopo la pausa per malattia non è stata facile: "Nelle prime settimane dopo l'operazione, ho ascoltato il mio archivio per distrarmi e ispirarmi. Ho iniziato a progettare miniature al pianoforte, sviluppando armonie che ho poi trasferito alle mie macchine. Mi sono però reso conto che dovevo riscoprire parti della mia attrezzatura perché non ne ricordavo tutte le funzioni". 
Questo si spiega in parte con il fatto che il musicista tedesco ha negli anni utilizzato tecniche avanzate e molto particolari, alcune delle quali da lui personalmente sviluppate e insegnate in occasioni di festival e seminari in tutto il mondo. Nel corso del tempo, Schwalm ha trasformato le sue idee originali, ha variato e ampliato la gamma dei timbri delle sue composizioni fino a rendere irriconoscibili gli strumenti di cui si avvale. "Durante il processo mi sono reso conto che ci sono paralleli tra le mie esperienze personali e le mie emozioni e l'attuale situazione sociale e politica nel mondo", aggiunge Schwalm. Questo pensiero lo ha portato a scegliere per alcuni pezzi del nuovo album titoli che assomigliano in modo ingannevole a dei termini inglesi. "Altri sono invece nomi di veri villaggi tedeschi, luoghi appartenenti ad un'area scelta dal comando militare americano durante la Guerra Fredda come zona di eventuale sgancio di armi nucleari, per prevenire possibili attacchi sovietici che tentassero di occupare la Germania" spiega Schwalm, che proviene proprio da questa regione, chiamata "Fulda Gap" (Varco di Fulda).

I sorprendenti cambiamenti sonori che troviamo nella iniziale “Strofort” sono un esempio per i successivi 45 minuti. Suggestivo come una colonna sonora che non ha bisogno di immagini, il brano collega, disponendole con cura, diverse superfici e frammenti di un linguaggio immaginario, che ci proiettano in un'altra dimensione. Nel corso dell'album ci sono pezzi come “Stormbruch” che spingono oltre il limite il concetto di drone in lenta crescita. Oppure  “Clingon”, giocata interamente sullo sviluppo di pulsazioni. "Rispetto al disco precedente, questa volta ho lavorato di più con dettagli ritmici, inclusi metri dispari e opposti", spiega Schwalm. Per J. Peter Schwalm “How We Fall” è una sorta di istantanea scattata in un tempo relativamente breve rispetto ai lavori precedenti. "La musica rappresenta un universo chiuso che riflette il momento e le circostanze in cui è stata creata", spiega. Tutti i pezzi di questo album sono profondamente personali, espressione intensa di un artista sonoro che non deve scendere a compromessi. La musica senza dubbio suona scura, ma mai depressa, e quasi sempre si scorge un accenno di luce. 





Blackswan, mercoledì 16/05/2018