giovedì 1 settembre 2022

I'M YOURS -JASON MRAZ (ATLANTIC, 2008)

 


Apritevi all’amore e alla vita, donate con generosità e ricevete con riconoscenza. Siate felici, soprattutto, e condividete la gioia con gli altri, con chi vi ama e vi sta vicino. E’ questo il messaggio positivo contenuto in I’m Yours, uno di quei tormentoni che se ascolti anche una sola volta, finisci per ricordarne per sempre la melodia.

Un brano zuccherino, certo, ma tutto sommato refrattario alle mode, non incanalato negli standard di un genere, ma dotato di una inusuale libertà espressiva, addirittura scarno nella sua veste formale, eppure incredibilmente ritmico e melodioso.

Mraz scrisse la canzone nel 2003, in un quarto d’ora, mentre si trovava a casa sua a San Diego e stava cazzeggiando con la chitarra elettrica. La melodia gli sgorgò dalle dita quasi per caso e iniziò a cantarci sopra, ispirato dal sole e dal cielo terso di quel pomeriggio californiano. E quel momento, di perfetta estasi, ispirò le liriche, che esprimevano la felicità di sentirsi vivo, di godere della bellezza del mondo e di volerla condividere con gli altri.

Il chitarrista iniziò a eseguire immediatamente il brano dal vivo e, nel 2005, decise di pubblicarne una versione demo, che inserì su un EP bonus a edizione limitata, che venne pubblicato per promuovere il suo album Mr. A-Z.

Più il tempo passava, più Mraz si accorgeva che I’m Yours faceva breccia nel cuore della gente, anche perché su YouTube iniziavano a comparire centinaia di cover del brano, eseguite dai suoi fan. A quel punto il chitarrista decise che era ora di dare una propria casa alla canzone, e pertanto la inserì in una versione definitiva nel suo album We Sing. We Dance. We Steal Things., il cui titolo venne ispirato a un’opera di David Shrigley, un artista britannico, noto soprattutto per i suoi cartoni animati umoristici, che disegnò anche la copertina del disco.

In realtà, una demo del brano, anni prima, era stata consegnata da Mraz anche a Steve Lillywhite, che era il produttore del disco precedente, Mr.A-Z. Lillywhite, che aveva lavorato con Simple Minds, U2, Talking Heads, Big Country e Rolling Stones, non riusciva, però, a comprenderne il senso perché mancava un ritornello, o meglio, perché tutto il brano era un unico ritornello. Quindi, ci lavorò un po', ma poi, non sapendo che farne, la accantonò, salvo poi, in un’intervista successiva alla pubblicazione del singolo, fare ammenda, per non aver capito, testuali parole, di avere” una pepita d’oro” fra le mani.

Il successo del brano, tuttavia, non fu immediato. I’m Yours, infatti, detiene il record per il tempo più lungo occorso a una canzone, ventotto settimane, per accedere alla prima piazza di Billboard, superando di una settimana il precedente record registrato da Bad Days (2005) di Daniel Powter. Tuttavia, I’m Yours detiene anche un altro primato, decisamente più confortante: è stata, infatti, la canzone che ha stazionato più a lungo, ben settantasei settimane, nella Hot 100 di Billboard.

 


 

Blackswan, giovedì 01/09/2022

martedì 30 agosto 2022

STARS - FROM CAPELTON HILL (Last Gang, 2022)

 


Se c’è un disco che sposa meravigliosamente la leggerezza dell’estate, questo senza dubbio è il nono album in studio dei canadesi Stars, From Capelton Hill. Un titolo che cita una località situata a est del Quebec, un luogo caro al cuore del cantante Torquil Campbell, il cui nonno, lì, costruiva case alla fine del 1800. Non sorprende quindi che questo disco, nella sua coloratissima bellezza, attinga anche ai temi della nostalgia, risultando in tal senso commovente ed emotivamente vibrante.

A quasi venticinque anni dall'inizio della loro carriera, gli Stars ormai possono fare praticamente quello che vogliono. Nel precedente There Is No Love in Fluorescent Light del 2017, avevano fatto convivere le più recenti sonorità dance oriented con il pop barocco degli esordi. Se quel disco era il suono di una band che sa esattamente chi è, From Capelton Hill rivela, invece, una band che sa da dove proviene, consapevole della propria eredità e disposta a costruire su di essa, per perfezionare il proprio marchio di fabbrica. Questo è, quindi, il loro album più riconoscibile da anni, un lavoro costruito su atmosfere più intime e personali piuttosto che sulla grandeur cinematografica che aveva avvolto alcuni lavori precedenti.

In tal senso, qui non c'è niente che gli Stars non abbiano già fatto prima. Brani come "Back To The End" e "Hoping" richiamano le trame orchestrali del loro amato classico "Set Yourself On Fire", mentre "Build a Fire" riecheggia l'estetica della pista da ballo di "No One Is Lost" del 2014. Ma la loro esperienza consente di attingere a queste sonorità note, evitando ogni stucchevole autocompiacimento.

Non è un caso che la miglior qualità di From Capelton Hill sia la misura. In passato, gli Stars avevano avuto, talvolta, la tendenza a esagerare, a sovraccaricare il suono. Naturalmente, le inclinazioni melodrammatiche fanno parte del loro fascino, ma qui fanno affidamento sui loro punti di forza e lasciano che la qualità della scrittura delle canzoni faccia il resto, evitando accuratamente orpelli in fase di produzione. L'opener "Palmistry" ne è un ottimo esempio: una semplice melodia spinta da bellissime armonie vocali con arrangiamenti di archi lussureggianti ma non invadenti. La successiva "Pretenders" è altrettanto diretta e accattivante, con il suo hook contagioso e un ritornello che evoca il jangle pop degli Stone Roses.

Il disco è un susseguirsi di piccole gemme, e a parte, forse, "If I Never See London Again", che soffre di un eccesso negli arrangiamenti, gli Stars riescono a toccare spesso il cuore, ad esempio, con l’acustica e commuovente "Snowy Owl", posta a chiusura di disco, e con "Capelton Hill", la migliore del lotto, che spinta da un ritornello epico, racchiude i temi della nostalgia e della perdita, e inumidisce gli occhi grazie anche al brillante duetto tra Campbell e la deliziosa Amy Millan.

From Capelton Hill, che beneficia anche dell’attenta produzione di Marcus Paquin e Jace Lasek, due veterani della scena di Montreal, è un disco finemente strutturato, in cui ogni strumento ottiene lo spazio necessario, con la bella evidenza del corno francese di Chris Seligman e del fingerpicking delle chitarre acustiche. Ed è anche, nel complesso, un brillante promemoria su come la consapevolezza e la maturità raggiunta possano tranquillamente fare affidamento sui propri punti di forza, senza dover cercare necessariamente nuovi trucchi per continuare a stupire. In tal senso gli Stars sono riusciti a emozionare senza inventarsi nulla, ma semplicemente regalando ai fan la miglior versione di loro stessi.  

VOTO: 7,5




Blackswan, martedì 30/08/2022

lunedì 29 agosto 2022

BEN HARPER - BLOODLINE MAINTENANCE Mercury, 2022)

 


Bloodline Maintenance è il primo disco di canzoni originali da sei anni a questa parte (l’ultimo è stato Call It What It Is) ed è una lavoro in cui ben Harper ha messo tutto se stesso, anima e corpo. Non solo perché lo ha registrato in (quasi) completa solitudine, ma soprattutto perchè in queste undici canzoni ha condensato il dolore per la perdita dell’amico Juan Nelson, bassista degli Innocent Criminals, lutto che ha innescato una profonda riflessione sulle proprie origini, sul proprio passato (in copertina la foto di Harper bambino con il proprio padre) e sul concetto di trauma intergenerazionale, quel fenomeno per cui se un proprio antenato sperimenta un evento così traumatico da incidere sulla psiche, i conseguenti stati d’ansia e la depressione si riflettono inevitabilmente anche sulla propria progenie.

Non solo: rileggendo il suono delle radici e la musica che ha sempre amato, con il consueto approccio distintivo e personale, Harper riflette anche sul dolore, sull’amore, sulla deriva della società americana e, soprattutto, sul razzismo, tema sviscerato con sguardo appassionato e carico di rabbia politica.

L'album si apre con "Below Sea Level", un’inquietante canzone a cappella, che parla dell'imminente apocalisse climatica e del travolgente senso di disperazione che ne deriva. Harper utilizza voci armonizzate senza alcuna strumentazione di supporto, evidenziando il senso di terrore condiviso da tutte quelle persone che hanno paura per il futuro della terra, ma che rimangono inascoltate da chi è al potere.

Il singolo "We Need To Talk About It" si apre con un riff di chitarra funky, pedale wah wah innestato e rullanti echeggianti, mentre Harper invoca la necessità di discutere apertamente e onestamente sulla schiavitù e sul suo continuo impatto sulla società americana: sono i bianchi americani a rifuggire dal tema, che preferiscono evitare, per non ammettere che esiste un fortissimo legame che unisce lo schiavismo al movimento Black Lives Matter.

Non molla la presa, Harper, e strattona l’ascoltatore mettendolo di fronte ai problemi di un mondo che, lentamente ma inesorabilmente, si sta autodistruggendo. Il funky settantiano di "Where Did We Go Wrong" esamina le crescenti tensioni internazionali mentre la guerra non cessa e c'è una minaccia sempre più incombente che un lancio nucleare diventi, prima o poi, realtà. La traccia successiva, "Problem Child", è un blues zoppicante e inquieto, che esplora la questione della ricchezza e della distribuzione delle risorse, e che nella seconda parte acquisisce elementi jazz, pur mantenendo un mood cupo e disturbante.

"More Than Love" apre al tema dell’amore ed è un tuffo negli anni ’60, la melodia ipnotica che si srotola sulle percussioni e un bellissimo suono di chitarra. Anche la cadenzata "Smile At The Mention" e la più ritmata "Honey, Honey" parlano d’amore: la prima, riflette sul setimento come forza trainante della speranza di fronte alla travolgente incertezza dei nostri giorni, mentre nella seconda, Harper esprime il desiderio di trascorrere i suoi ultimi momenti in compagnia dei propri cari, quasi fosse un atto di ribellione in risposta a un mondo freddo e crudele.

L'album si chiude sulle note basse di "Maybe I Can't", una sorta di confessione con il cuore in mano, in cui Harper si rende conto di essere perseguitato dalle cicatrici del passato e di come il passato, inevitabilmente, segnerà per sempre il suo (il nostro) futuro.

Bloodline Maintenance è un album intenso, che trabocca di passione e che non ha paura di esaminare, senza filtri, le disfunzioni della società americana. Sembra essere pervaso da un’insormontabile senso di disperazione e da una tristezza che pare, ormai, il sentimento più presente nelle nostre vite. Eppure, Harper, in qualche modo, riesce anche a trasmettere speranza: l’incapacità di arrendersi, la forza di parlare di temi invisi al potere e la rabbia militante sono linfa vitale, sono la forza che ci permettere di prendere in mano il nostro destino e di cercare di cambiare le cose. Gran disco.

VOTO: 8 




Blackswan, lunedì 29/08/2022

giovedì 25 agosto 2022

RIDE LIKE THE WIND - CHRISTOPHER CROSS (Warner, 1979)

 


Ci sono canzoni che respirano aria di libertà, che evocano sogni di capelli al vento, che creano un immaginario di fughe, di corse a perdifiato su decapottabili che puntano dritto l’orizzonte. Una di queste è, senza ombra di dubbio, Ride Like The Wind, primo singolo pubblicato da Christopher Cross, esordio dell’omonimo cantautore, pubblicato nel 1979. Un classico del soft rock, un best seller senza tempo, che nel 1981, vinse ben quattro Grammy (primato eguagliato solo di Billie Eilish nel 2020), tra i quali quello di disco dell’anno, togliendo la palma del migliore addirittura The Wall dei Pink Floyd.

La canzone, il cui testo è declinato in prima persona, racconta la storia di un fuorilegge pluriomicida condannato, che fugge in Messico per salvarsi dalla certa impiccagione, e quindi cavalca come il vento per oltrepassare il confine, in modo che chi lo insegue non possa più arrestarlo.

Il testo fu scritto da Cross mentre si trovava in Texas e stava viaggiando sulla strada che separava Houston da Austin, un tragitto che il musicista percorse completamente strafatto di LSD.  Questa storia western, in cui il cattivo la fa franca, l’aveva in testa praticamente da sempre. Cross, infatti, era un appassionato di film e telefilm sul far west, che spesso raccontavano di fuorilegge in fuga inseguiti dallo sceriffo di turno. Il cantante, poi, viveva a San Antonio, città situata vicino al confine con il Messico, paese che nel suo immaginario di ragazzo possedeva il fascino conturbane di luogo di dissolutezza e di grandi sbornie, una sorta di zona franca su cui le autorità non avevano alcun potere.

Dal punto di vista musicale, la composizione nacque, come spesso accade, per caso, quando il giovane Cross e la sua band proponevano dal vivo Nineteen Hundred And Eighty Five, un brano dei Wings di Paul McCartney, che non riuscivano mai ad eseguire correttamente, eseguendo, nella parte centrale, sempre lo stesso errore. Ecco, quell’errore ripetuto divenne la base di partenza per Ride Like The Wind.

La canzone venne pubblicata come primo singolo dell’album, anche se la casa discografica avrebbe preferito rilasciare per prima Say You'll Be Mine. Fu il produttore di Cross, Michael Omartian, e a spingere per Ride Like The Wind. Ovviamente, ebbe ragione, e la canzone divenne un clamoroso successo, arrivando al secondo posto delle classifiche americane, battuta, successivamente da Sailing, che conquistò la prima piazza.

Nel brano, poi, è presente un cameo di Michael McDonald, corista degli degli Steely Dan, che era stato presentato a Cross dal produttore Omartian. I due si presero subito in simpatia, tanto che Christopher chiese a Michael di contribuire ai cori di I Really Don't Know Anymore. Poi, quando si accorse che a Ride Like The Wind mancava una voce per il controcanto, invitò nuovamente il suo nuovo amico a collaborare.

Del brano furono eseguite, nel tempo, diverse cover. Gli East Side Beat, nel 1991, ne fecero un remix dance, che arrivò terzo nelle classifiche inglesi, il trombettista jazz Freddie Hubbard diede il nome del brano a un suo disco del 1982, inserendo in scaletta una personale rilettura della canzone, la quale, a sorpresa, venne coverizzata, nel 1988, anche dalla heavy metal band dei Saxon.

 


 

 

Blackswan, giovedì 25/08/2022

martedì 23 agosto 2022

JOEL DICKER - IL CASO ALASKA SANDERS (La Nave Di Teseo, 2022)

 


Aprile 1999, Mount Pleasant, New Hampshire. Il corpo di una giovane donna, Alaska Sanders, viene ritrovato in riva a un lago. L'inchiesta viene rapidamente chiusa, la polizia ottiene le confessioni del colpevole, che si uccide subito dopo, e del suo complice. Undici anni più tardi, però, il caso si ripresenta. Il sergente Perry Gahalowood, che all'epoca si era occupato delle indagini, riceve una inquietante lettera anonima. E se avesse seguito una falsa pista? L'aiuto del suo amico scrittore Marcus Goldman, che ha appena ottenuto un enorme successo con La verità sul caso Harry Quebert, ispirato dalla loro comune esperienza, sarà ancora una volta fondamentale per scoprire la verità. Ma c'è un mistero nel mistero: la scomparsa di Harry Quebert. I fantasmi del passato ritornano e, fra di essi, quello di Harry Quebert.

Joel Dicker va preso così com’è, pacchetto completo, pregi e difetti. Dipende da cosa il lettore desidera: se è lo svago che cerca, è sicuramente di fronte a un campione, se, invece, vuole una letteratura di spessore, meglio che si tenga alla larga.

Il Caso Alaska Sanders è lo specchio fedele dei punti deboli e di quelli di forza dello scrittore svizzero.  Dicker, è ormai un dato consolidato, possiede una scrittura scolastica e orizzontale, è incapace di profondità, tratteggia personaggi che restano figurine sfumate e senza sostanza, scambia il tomento interiore per melodramma da foileton, zoppica, e parecchio, sui dialoghi, che sono spesso assai ovvi e banali, si muove sempre all’interno di un’immutabile comfort zone di figure femminili e borghesia medio alta, ed è di un’inaccettabile arroganza ogni volta che continua a ripeterci, attraverso il suo alter ego Marcus Goldman, che è il più grande scrittore vivente.

Eppure, Il Caso Alaska Sanders è un libro d’intrattenimento eccezionale, che ti conquista dalla prima pagina e non ti molla più, fino alla fine. Dicker, a parte i difetti citati, è un vero e proprio prestigiatore, crea trame intricate che sviluppa con acume e consapevolezza, tiene in pugno il lettore con un ritmo serratissimo e con continui colpi di scena, a volte addirittura non funzionali alla trama, e riesce a stupire, come in questo caso, disseminando indizi che verranno poi spazzati via da un imprevedibile finale. In tal senso, è un vero maestro, un affabulatore capace di renderti prigioniero di un racconto che non vorresti mai finire.

Vale la pena, quindi, comprare e leggere le seicentoventiquattro che compongono questo nuovo ponderoso romanzo? Se è il divertimento che cercate, Il Caso Alaska Sanders è il libro che fa per voi: un romanzo tanto appassionante da farvi dimenticare ogni altra cosa, tenendovi svegli la notte. Basta abbiate la consapevolezza che la lettura alta sta proprio su un altro pianeta.

Blackswan, martedì 23/08/2022