martedì 30 maggio 2023

FREDERIC DARD - NEGLI OCCHI DI MARIANNE (Rizzoli, 2023)

 


È una notte spagnola di lucciole e falene. Daniel Mermet, pittore parigino in vacanza sulla torrida costa catalana, sta guidando quando una donna sbuca dal nulla e si getta sotto la sua auto. Preso dal panico per le possibili implicazioni giudiziarie, invece di portarla in ospedale la carica in macchina e torna alla pensione in riva al mare dove alloggia. La mattina seguente trova la sconosciuta sveglia e scopre di lei due cose: parla francese e ha perso del tutto la memoria. È una donna di fulminea bellezza, un bozzolo di mistero, la musa perfetta. L’attrazione istintiva che Daniel sente per quella giovane anima allo sbando si trasforma repentinamente in amore quando decide di portarla sulla spiaggia, per farle un ritratto: esperienza esaltante, nonostante il quadro, all’ultima pennellata, disveli una sfumatura inattesa. Fermato sulla tela, lo sguardo di questa donna senza passato, “il sogno di tutti gli uomini” pensa Daniel, gli sembra d’un tratto carico di suggestioni sinistre, un inquietante ricettacolo di segreti. Spaccato tra devozione e dubbio, eccitato dalla curiosità, Daniel avvia un’indagine che lo riporta in Francia e subito lo inghiotte, innescando un mortifero balletto tra il suo amore e la macabra realtà.

Quello di Frederic Dard è un nome famigliare agli amanti del noir transalpino, che lo ricorderanno come il creatore del Commissario Sanantonio, i cui romanzi, pubblicati tra il 1949 e il 2001, ebbero una discreta fortuna anche in Italia. Influenzato nella prosa da Celine, e accostato spesso a George Simenon, due scrittori con i quali intrecciò un rapporto di profonda amicizia, Dard è considerato uno dei maestri del noir francese, genere che affrontò con vena inesausta, pubblicando la bellezza di circa trecento romanzi. Uno di questi, Le Bourreau Pleure, scritto nel 1956, vinse, l’anno successivo, il Grand Prix De Litterature Policiere, e oggi viene finalmente pubblicato anche in Italia con il titolo di Negli Occhi Di Marianne, un romanzo breve, di quelli che, volendo, si leggono in una giornata, e in cui Dard dimostra quanto fosse meritata la sua fama.

Dopo aver soccorso una bellissima donna investita nel cuore della notte, il giovane e aitante pittore Daniel la porta nella pensione spagnola in cui soggiorna e qui si rende conto ben presto  che la ragazza ha completamente perso la memoria. Giorno dopo giorno, tra i due nasce un sentimento sempre più totalizzante, prima platonico, poi irresistibilmente sensuale, che li porta in poco tempo a dichiararsi amore eterno. Ma perché il loro sogno di una vita condivisa possa realizzarsi, è indispensabile avere dei documenti che permettano alla donna, che parla francese ma che nulla ricorda del suo passato, di espatriare insieme a Daniel, la cui opera di pittore gli sta aprendo le porte del successo negli Stati Uniti. Il giovane pittore, deciso a tutto pur di coronare il suo sogno d’amore, decide di tornare in Francia, per indagare sul passato della donna (che nel frattempo si è ricordata di chiamarsi Marianne), e ottenere, attraverso un escamotage, quei documenti così tanto indispensabili alla comune felicità. Ciò che scoprirà, però, trasformerà il sogno dolcissimo in un incubo.

L’intreccio noir è costruito con rigore e sapienza, trasmettendo al lettore un senso di inquietudine per una storia che, pagina dopo pagina, si gonfia in un crescendo di tensione pronta a esplodere come una bomba a orologeria. Non mancano, dunque, i colpi di scena e i saliscendi emotivi, scatenati da un andamento che alterna ritmi serrati a momenti di placida stasi (perfetta è la cornice rappresentata da Castelldefels in Catalogna), in cui si assiste alla nascita e al crescendo di un amore impossibile. Non solo noir, però. Dard si dimostra anche abile conoscitore della psiche umana, approfondendo il tormento interiore del suo protagonista, dilaniato fra le ragioni del cuore e quelle della mente, e sviluppando con fine acutezza, attraverso la figura di Marianne, il tema pirandelliano del doppio-sdoppiamento.

Il risultato è un romanzo avvincente e solo apparentemente semplice, che si legge in un fiato, ma che, proprio per la sua immediatezza, si farà fatica a dimenticare.  

 

Blackswan, martedì 30/05/2023

lunedì 29 maggio 2023

THE HOLD STEADY - THE PRICE OF PROGRESS (Thirty Tigers, 2023)

 


Difficile trovare una band immediatamente riconoscibile come lo sono gli Hold Steady: la voce recitante di Craig Finn, le chitarre croccanti e la profondità di testi, che sembrano veri e propri racconti di vita vissuta, sono il segno distintivo di una band che calca le scene ormai da vent’anni, senza aver mai abiurato il proprio credo musicale.

Anche questo nuovo The Price Of Progress è un disco che si allinea perfettamente al consueto stile della band, il cui rock spigoloso e adulto, spesso inquadrato nel mare magnum dell’alternative, è figlio in realtà di un impeto fortemente popolare, contiguo all’arte di musicisti come Springsteen e Petty, e di un suono sovraccarico di pathos ed energia, che unisce in un abbraccio fraterno, artista, gente comune, ultimi e diseredati. Merito della scrittura e, soprattutto, delle liriche di Craig Finn, verboso crooner col cuore in mano, che partendo da riflessioni personalissime, quasi fossero uno sfogo terapeutico per evitare il lettino dello psicanalista, riesce a trasformare la propria soggettiva in una visione universale, in cui non è poi così difficile immedesimarsi.

Non cambiano approccio, gli Hold Steady, e, imperturbabili rispetto alle mode, continuano a suonare il loro blue collar rock con una perseveranza ai limiti della testardaggine, circostanza, questa, che è un’arma a doppio taglio, la loro forza e il loro limite. A volte salta fuori il discone, come nel caso del precedente Open Door Policy (2021), in altre occasioni, invece, come per questa nuova fatica, si rimane nell’ambito di un minimo sindacale, che resta piacevolissimo, soprattutto per i fan, ma che manca di un vero e proprio slancio che possa raggiungere anche una più importante fetta di pubblico. Quello degli Hold Steady è un suono famigliare, accattivante per chi ama un certo rock diretto e senza fronzoli, ma che talvolta cade nella trappola del deja vu, a causa del cantato intenso, ma monocorde, del proprio leader.

Certo, non mancano momenti davvero azzeccati, come l’opener Grand Junction, melodica e dal retrogusto malinconico, l’impeto vibrante della splendida Sideways Skull o il tiro diretto dei riff di Sixers. Il songwriting è solido, per carità, ma non aggiunge nulla a un songbook già ricco e di altissimo livello, nessun elemento di novità che riesca a carpire l’attenzione di chi, questa formula, ormai la conosce a memoria. E’ inevitabile, quindi, che alcuni momenti risultino tanto prevedibili da procurare un senso di quieta noia ("City At Eleven, Distortions Of Faith").

Alla fine, chiunque abbia mai ascoltato una canzone degli Hold Steady sa esattamente cosa aspettarsi da questo disco. L'estro romanzesco di Craig Finn rimane il fulcro della proposta, e sebbene la scrittura resti di buon livello e perfettamente in linea con la fama della band, allo stesso modo manca quel pathos che accenda e faccia divampare la fiamma. The Price Of Progress, in definitiva, è un disco Hold Steady a tutto tondo, funziona bene, e ci mancherebbe, ma solo a tratti riesce a scaldare il cuore.

VOTO: 6,5 

GENERE: Blue Collar Rock




Blackswan, lunedì 29/05/2023

giovedì 25 maggio 2023

RAMBLIN' MAN - THE ALLMAN BROTHERS BAND (Capricorn Records, 1973)

 


Poche canzoni al mondo trasmettono un frastornante senso di libertà come Ramblin’ Man degli Allman Brothers. Partono le prime note della canzone e si aprono immensi spazi, che suggeriscono immediatamente il desiderio di mettersi in viaggio, di vagabondare senza metà, la testa svuotata da ogni pensiero che non sia il desiderio di provare a vedere cosa c’è là in fondo, proprio dietro l’orizzonte.

Il brano fu composto dal chitarrista degli Allmans, Dickey Betts, che prese in prestito il titolo da un brano di Hank Williams del 1951, intitolato proprio Ramblin' Man.

Betts, che è anche la voce solista della canzone, ha detto di essersi ispirato per la stesura delle liriche (che raccontano la storia di un ragazzo i cui viaggi lo portano ovunque e che prende la vita così come viene, senza pensieri), ad avvenimenti autobiografici, vissuti, quindi, in prima persona.

Quando era un bambino, infatti, il padre lavorava nell’edilizia e continuava a spostarsi dalla costa orientale e quella occidentale della Florida. Il piccolo Dickey, così, frequentava una scuola per un anno, e l’anno successivo ne frequentava un’altra, finendo per crearsi, in questo ripetuto andirivieni, due diversi gruppi d’amici. Questo continuo vagabondare, spesso e volentieri sui sedili di un autobus Greyhound, era un vero e proprio stile di vita che, invece di deprimerlo, fu motivo di arricchimento esistenziale per il giovane chitarrista.

Il primo abbozzo della canzone risale al 1969, poco prima di entrare a far parte degli Allman, quando Betts suonava in varie band della Florida, senza avere ancora ben chiaro quale sarebbe stato il suo futuro. A quei tempi, il chitarrista era pappa e ciccia con Kenny Harwick, un ragazzone che aveva il curioso vezzo di fare delle domande, a cui rispondeva lui stesso prima di dare all’interlocutore il tempo di farlo. Un giorno, mentre Dickey stava strimpellando la chitarra, Kenny gli chiese: “Hey amico, come stai?”. E prima che Betts potesse proferire parola, soggiunse: “Scommetto che stai solo cercando di guadagnarti da vivere e di fare del tuo meglio”. Quelle parole furono l’abbrivio per la scrittura delle liriche di Ramblin’ Man, incentrate proprio sul verso: “Tryin' to make a livin' and doin' the best I can”. Il resto della canzone fu scritta nel 1972, a Macon, in Georgia, nella casa che il chitarrista condivideva con il resto della band.

Ramblin’ Man è stato il primo singolo della Allman Brothers Band registrato senza il loro leader, Duane Allman, morto in un incidente motociclistico nel 1971. Una perdita esiziale che, aldilà del dolore per la morte di un caro amico, apriva un immenso vuoto creativo e sonoro, colmato proprio dalla canzone scritta da Betts, che trainò il nuovo album della band, Brothers And Sisters, divenendo anche il più grande successo commerciale degli ABB.

La struttura della canzone è molto particolare. La prima parte si sviluppa in modo abbastanza convenzionale (ritornello/strofa/ritornello/assolo di chitarra/strofa/ritornello), ma successivamente ci sono altri due minuti particolarmente intricati, che erano ispirati al finale di Layla, il leggendario brano dei Derek & The Dominos, su cui aveva suonato anche Duane Allman. Per realizzarlo, Betts ha prima provato a sovraincidere molte parti di chitarra, ma poi, visto il risultato scadente, chiese al suo amico Les Dudek, che era in studio con la band, di suonare la chitarra solista insieme a lui, esattamente come avrebbe fatto Duane. Così i due crearono un intreccio sonoro di chitarre, ripetendo le stesse linee più e più volte, risuonandole con un registro più basso, e sovraincidendo il tutto. Solo a quel punto, Betts diede vita alla parte solista con la chitarra slide, che si adagia perfettamente sulla base precedentemente creata.

Questa canzone, quindi, è anche un omaggio al compianto Duane, dal momento che si basava proprio sul quel suono armonico della doppia chitarra che era un marchio di fabbrica della band, quando il più anziano dei due Allman era ancora in vita.

E’ triste ricordarlo, ma questa è anche l’ultima canzone registrata dal bassista Berry Oakley, che l’11 novembre del 1972 morì in un incidente automobilistico, in circostanze analoghe a quelle in cui perì il povero Duane.

 


 

Blackswan, giovedì 25/05/2023

martedì 23 maggio 2023

DON WINSLOW - CITTA' DI SOGNI (Harper Collins, 2023)

 


Dopo essere scampato alla sanguinosa guerra che ha devastato il New England, Danny Ryan è in fuga. I mafiosi, i poliziotti e anche l’FBI lo vogliono morto o in prigione. È partito insieme al figlio, all’anziano padre e ai pochi fedeli rimasti della sua banda ed è arrivato fino in California.
Qui vorrebbe solo una vita pacifica, ma i federali lo beccano e lo costringono a far loro un favore che potrebbe renderlo ricco. Oppure ucciderlo.
Intanto a Hollywood stanno girando un film ispirato alla faida che ha rovinato la sua vita e Danny decide di rientrare in affari, costruendo un nuovo impero criminale. Quello che non ha previsto è l’incontro con un’attrice bellissima, ma con un passato oscuro. Una donna di cui si innamora perdutamente.
E mentre i loro mondi collidono in un’esplosione che potrebbe annientare entrambi, Danny Ryan combatte per la vita nella città dove di solito nascono i sogni.

Secondo capitolo della trilogia ispirata ai poemi classici, Città Di Sogni segue le vicende di Danny Ryan (Enea) che, fuggito dal New England (Troia), con il padre (Anchise) e il figlioletto (Ascanio), cerca di ricostruirsi una vita in California (le sponde del Lazio), sognando di diventare un imprenditore cinematografico. Per quanto Ryan si sforzi per tenersi lontano dai guai, però, deve però fare i conti con il proprio violento passato e con tutti quei nemici che si è lasciato alle spalle e che farebbero di tutto pur di vederlo morto.

Se Città In Rovina era ispirato all’Iliade, tanto che ogni personaggio incarnava uno degli eroi omerici, Città Di Sogni prende, invece, spunto dall’Eneide virgiliana (le cui citazioni aprono ogni capitolo del libro), seguendo le vicende di Danny Ryan, affiliato alla mafia irlandese facente capo alla famiglia Murphy, che cerca di ricostruirsi una vita, per dare un futuro al proprio figlio Ian.

Che abbia a che fare con Omero o con Virgilio, Winslow non sbaglia un colpo, ed estrae dal cilindro l’ennesimo romanzo palpitante, rapido e letale come un coltello a serramanico, ricco di colpi di scena, e attraversato da riflessioni nostalgiche sul tempo che passa, sull’impossibilità di realizzare i propri sogni e tenersi stretti al cuore gli affetti più cari.

Winslow, si potrà obiettare, scrive con il pilota automatico, conosce strutture e regole di scrittura immutabili, eppure riesce sempre a tenere alta l’ispirazione e a carpire, in poche pagine, l’attenzione del lettore. In tal senso, a dispetto di un genere in cui non è richiesta profondità di scrittura, la prosa de La Città Di Sogni è, invece, come sempre, essenziale, lucida, tagliente, ravvivata da abbondanti dosi di ironia e da quel tocco, inimitabile, che rende ogni romanzo di Winslow un libro da guardare come se fosse un film.

A prescindere dal ritmo serrato e dall’adrenalina che scorre a fiumi, questo nuovo romanzo affronta, però, in seconda battuta, alcuni temi cari allo scrittore americano, che portano la lettura a un livello superiore del semplice intrattenimento.

In primo luogo, l’on the road, la fuga dall’Est proletario dei blue collar (Ryan tiene a precisare che lui è un operaio della East Coast e ascolta Springsteen) verso il mondo rutilante di Hollywood (impossibile non pensare all’ultimo Tarantino), in cui tutti hanno una possibilità di realizzare i propri sogni. Almeno, in teoria. Perché i sogni di Ryan muoiono all’alba, e quel mondo di star, aspiranti attrici, ville con piscina e party vegetariani, dietro la scintillante patina del lusso, nasconde, in realtà, un’anima oscura e crudele, che non perdona alcuna debolezza, e che distrugge speranze e aspirazioni di chi non è abbastanza forte per sopravvivere a una feroce esposizione mediatica.

Ryan viene, dunque, catapultato in universo pericoloso e infido, improntato a un vuoto etico tanto invasivo da far rabbrividire anche un gangster, che, in fondo, possiede un semplice, ma indistruttibile impianto morale, quello che si fonda sull’onore e sulla parola data, valori che i nuovi tempi, stanno completamente azzerando. In tal senso, la figura di Ryan è quella di un antieroe, che lotta per affrancarsi dalla violenza, in un mondo che non gli perdona il passato e non gli concede una seconda possibilità. Quel vissuto non può essere cancellato e nessuno può liberarsi mai davvero dai propri fantasmi. Che tornano, sempre, a mordere la gola, ad annebbiare di dolore la speranza, a distruggere i sogni, grandi ma impossibili da raggiungere. Resta, così, un senso di ineluttabilità, solo in parte mitigato dal finale consolatorio, in cui la pietas e l’onore, devieranno il percorso di un destino all’apparenza già scritto.

Blackswan, martedì 23/05/2023

 

lunedì 22 maggio 2023

SEVENTH CRYSTAL - WONDERLAND (Frontiers, 2023)

 


Solo due anni fa, nel 2021, gli svedesi Seventh Crystal avevano pubblicato un centratissimo album di rock melodico intitolato Delirium, un disco che era entrato nel cuore di tutti gli appassionati di Aor e aveva strappato elogi lusinghieri da parte della critica. Quel lavoro, costruito intorno alla voce potente ed espressiva di Kristian Fyhr (uno che negli ultimi anni si sta dando molto da fare sotto l’egida Frontiers), esprimeva la quint’essenza del genere, attraverso un suono vorticoso di canzoni energiche che puntavano dritto al cuore grazie a melodie immediate e irresistibili.

Non era facile replicare la perfezione di quell’album, ma i Seventh Crystal (oltre a Fyhr, motore del progetto, ci sono anche Johan Älvsång alle tastiere, Olof Gadd al basso, Anton Roos alla batteria, e Emil Dornerus e Gustav Linde alle chitarre) si sono rimboccati le maniche e hanno tirato fuori un altro gioiellino che, ci scommetto una birra, farà la gioia di tutti coloro che amano il rock melodico.

Perché era davvero difficile replicare quell’exploit, quel perfetto equilibrio fra impeto rock e melodie acchiappone, ma mai zuccherine. Invece, Wonderland si presenta come il seguito naturale del suo predecessore, un disco imparentato, per consanguineità, con i lavori degli H.E.A.T., solo per citare un altro nome della prolifica scena svedese, e che richiama, talvolta, alla mente anche capostipiti nordici come gli Europe.

Le dieci canzoni in scaletta, come accennato, hanno come baricentro ritmi sensuali e melodie gustosissime, ma a differenza del predecessore, Wonderland suona un po’ meno immediato e, grazie soprattutto all’apporto del secondo chitarrista, Gustav Linde, reclutato per l’occasione, il tiro è un leggermente più energico. Se è vero che le chitarre hanno un indubbio peso, il ruolo del tastierista Johan Älvsång, però, non è certo marginale, anzi definisce con gusto l’avvolgente cornice di queste dieci canzoni davvero ispirate.

Pur muovendosi in territori noti, i Seventh Crystal hanno dalla loro, se non proprio l’originalità, quanto meno l’intelligenza di tenersi lontano da formule trite e ritrite: gli arrangiamenti sono scintillanti, la struttura dei brani evita con accuratezza la prevedibilità, e anche quando la band si cimenta in brani più lenti, riesce a dosare con mestiere l’utilizzo del dolcificante.

Insomma, Wonderland è un ascolto facile ma non banale, e se è vero che manca una vera e propria hit, la scaletta scivola piacevole e sbarazzina, tra graffi rock (l’iniziale title track), fascinosi sali e scendi ("Higher Ground"), languide carezze pianistiche ("Imperfection" e "In The Mirror"), cori da stadio ("Next Generation"), che in mano altrui sarebbe clamorosamente pacchiani, e tentazioni epiche (la conclusiva, splendida, "Rodeo").

Wonderland non è certo un disco che vi cambierà la vita o entrerà nelle classifiche di fine anno. Tuttavia, bastano un paio di ascolti, perché si inneschi quello strano meccanismo di dipendenza che ti fa dire “non è niente di che, però non riesco a toglierlo dallo stereo”. In fin dei conti, un po’ di leggerezza non ha mai fatto male a nessuno, soprattutto se accompagnata da intelligenza e da quella qualità che si fa sempre più rara: suonare bene. Consigliato.

VOTO: 7

GENERE: AOR, Hard Rock Melodico

 


 

 

Blackswan, lunedì 22/05/2023