Genere: Pop, Baroque Pop,
Pop-Opera
Periodo d’attività : 1993
– ancora in attività
La carriera di Rufus
Wainwright è caratterizzata da una produzione di livello altissimo, tanto che per
connotare le opere che compongono la sua discografia spesso ricorre l’aggettivo
“capolavoro”. Eppure, l’artista newyorkese non ha mai ottenuto il successo
planetario che si meriterebbe, giungendo a un picco di notorietà solo con Release
The Stars (2007), con cui vinse un disco d’oro in Canada e in Inghilterra. Ciò
a dimostrazione del fatto che quando il pop è figlio di coerenza espressiva e
non si prostituisce alle charts, può assumere le sembianze e i contenuti dell’opera
d’arte, destinata a un pubblico adulto o quantomeno capace di comprenderne i
riferimenti colti, le sfumature e la complessità di certi passaggi compositivi.
Wainwright, nonostante una vena melodica quasi istintiva, resta un artista
difficile perché ha avuto una formazione culturale varia e stratificata, e ha
recepito nel proprio bagaglio culturale una ricchezza di generi che sono
confluiti nelle sue canzoni, ove convivono all’interno di una scrittura
intensa, audace e non convenzionale. Figlio di Loudon Wainwrigth III,
considerato uno dei padri della canzone d’autore americana, e della folksinger
Kate McGarrigle (una delle due metà delle McGarrigle Sisters), Rufus inizia
prestissimo a suonare il pianoforte, intraprende gli studi classici (poi
interrotti) e a tredici anni prova l’ebbrezza dei grandi palcoscenici, andando
in tour con la madre, la zia e la sorella Martha (anch’essa musicista), sotto
il nome di McGarrigle Sisters & Family. Nonostante il giovane Wainwright
respiri folk fin dalla più tenera età, le sue vere passioni sono altre : da un
lato la canzone classica americana (Cole Porter, George Gershwin, Irving Berlin), e
dall’altro l’opera lirica, con una particolare attenzione a Giacomo Puccini.
Nel 1997, Rufus ha già pronto il materiale per un primo album solista e inzia
così a far circolare i propri demos, come quasiasi altro giovane in cerca di
lavoro fa col proprio curriculum. Lo nota subito Lenny Waronker, dirigente della
DreamWorks, che in men che non si dica lo scrittura, affidandolo alle sapienti
cure di tre produttori, tra cui il geniale Van Dyke Parks (Beach Boys).
L’album
d’esordio, intitolato semplicemente Rufus Wainwright (1998, Voto: 10) è così bello che Rufus si affranca
immediatamente dallo scomodo appellativo di “figlio d’arte”. Sembra impossibile
che una scaletta di canzoni tutte memorabili esca dalla penna di un giovane,
poco più che venticinquenne. Wainwright attinge dalla musica classica, dal pop,
dal folk e soprattutto dalla grande canzone americana, e crea uno zibaldone
musicale in cui mette a nudo una personalità forte e strutturata che convive
con una sensibilità poetica, dai toni talvolta melodrammatici. Un inizio che
nessuno si sarebbe mai aspettato e che fa letteralmente impazzire la critica
specializzata. Rufus omaggia Verdi (Barcelona), commuove ricordando l’attore River
Phoenix (Matinee Idol), racconta l’amore per la madre (Beauty Mark) e tributa
il proprio affetto alle eroine del bel canto che gli hanno tenuto compagnia
negli anni della crescita (Damned Ladies). A quanti credono che si sia trattato
di un evento estemporaneo, di un album di una bellezza irripitebile, Rufus
risponde con un secondo disco, Poses (2001, Voto: 9) che mette tutti d’accordo
: è nata una stella. Registrato in sei mesi, durante la permanenza al mitico
Chelsea Hotel di New York, Poses è più scarno e sofferto del predecessore.
I
toni sono ombrosi, gli arrangiamenti meno barocchi, la tensione in crescita
esponenziale, l’eleganza fomale ineccepibile, e lo stile di Rufus, che trova
qui l’ennesima conferma, diviene definitivamente un marchio di fabbrica. Il
giovane artista vive un momento di forte dipendenza dalle droghe (Crystal Meth)
e di questa tossicità non fa mistero alcuno, ne parla senza filtri fin dall’iniziale,
orecchiabilissima, Cigarettes And Chocolate Milk, forse la sua canzone più nota e più
amata dai fans. Tra i tanti brani notevoli che compongono la scaletta dell’album,
questa volta Rufus omaggia il padre, dando nuova linfa vitale a One Man Guy, un
vecchio successo di Loudon (esecuzione da brividi, con la sorela Martha ai cori).
Passano due anni, ma il talento del songwriter newyorkese non sembra avere un
minimo di cedimento. Want One (2003, Voto : 9) è l’ennesima prova che ci
troviamo di fronte al miglior talento pop della sua generazione. Pur mantenendo
il medesimo livello di ispirazione, Rufus cambia di nuovo : se Poses suonava
più essenziale, Want One è invece il suo disco più “barocco “, strutturato su
complessi e lussureggianti arrangiamenti in cui si sente come preponderante la
passione dell’artista per la musica classica (in Oh What A World cita
smaccatamente il Bolero di Ravel). Se da
un lato la forma musicale è complessa e richiede un bagaglio culturale non
indifferente per cogliere tutti i riferimenti citati, sottotraccia non manca
però quell’intimismo poetico che porta Rufus a raccontarsi senza pudori.
E’ il
caso, ad esempio, della dolente Dinner At Eight in cui il cantautore racconta
del difficile rapporto col padre Loudon. Nessuno degli album fin qui citati
raggiunge il successo commerciale e anzi il grande pubblico snobba
completamente Wainwright, troppo lontano per gusti e intensità dal pop danzereccio che fa
sfracelli nel circuito mainstream. Eppure la critica continua ad apprezzare,
tanto che qualcuno conia per la prima volta il termine di PopOpera. Want Two
(2004, Voto: 8) è il disco gemello del predecessore, il suo seguito ideale,
anche se la tensione si arresta su un gradino più basso e le composizioni si fanno
un poco più convenzionali. Rufus però inanella un filotto di canzoni splendide,
che cominciano ad avere anche un riscontro commerciale, e non smette di
raccontarsi, svelando la propria anima sensibile e fragile e mettendo questa
volta l’accento sulla propria omosessualità, come nella sarcastica Gay Messiah,
ove preconizza l’avvento di un Gesù omosessuale. In scaletta ci sono anche l’inno
pacifista Agnus Day, scritta contro la guerra in Iraq, una dedica a Mozart
(Little Sister), il commovente omaggio alla storia dell’Arte di The Art
Teacher, il ricordo dell’amico Jeff Buckley (Memphis Skyline), un duetto con Antony
(Old Whore’s Diet), e finalmente un brano che vende (The One You Love).
Il
successo commerciale, come già accennato, arriva finalmente con il disco
successivo, Release The Stars (2007, Voto: 7,5), che vince due dischi d’oro,
in Canada e in Inghilterra, dove peraltro si piazza al secondo posto in classifica.
Rufus è meno tormentato, ha un nuovo compagno e vive con serenità la propria
omosessualità. Ha smesso i vizi e le dipendenze dalle droghe, è passato da (scapestrato) enfant prodige della scena pop, ad autore maturo e riflessivo.
Release The Stars è un nuovo punto di partenza, il disco di un uomo che guarda
ai sentimenti attraverso il viaggio e i luoghi della sua vita. Una geografia
dell’anima che passa attraverso Berlino (Sanssouci e Tiergarten), ove l’album è
stato in gran parte registrato, Parigi (Leaving For Paris) e Hollywood (la
title track). Rufus non si dimentica però dell’impegno politico e sforna un singolo
come Going To A Town, in cui attacca frontalmente la presidenza di Bush. Non è
senso di onnipotenza, ma vero amore per i propri riferimenti musicali, quello
che porta Wainwright a relizzare un ambizioso e audacissimo progetto :
riprodurre in disco il leggendario concerto tenuto da Judy Garland alla
Carnegie Hall nell’aprile del 1961. Esce così Rufus Does Judy At Carnegie
Hall (2007, Voto: 7,5), in cui l’artista ripropone dal vivo l’esibizione
della Garland, canzone per canzone, battuta per battuta. Sorretto da un’orchestra
di 36 elementi diretta da Stephen Oremus, Wainwright se la cava egregiamente :
faccia tosta, eclettismo e sensibilità femminile sono armi portentose che l’artista
americano sa sfruttare a dovere anche in una situazione, come questa, ai limiti
del paradossale. Meno interessante e avvincente è Milkwaukee At Last !!!
(2009, Voto: 7), il live che
Wainwright pubblica due anni dopo l’uscita di Release The Stars e tratto dalla
tournèe successiva alla pubblicazione di quell’album. Dieci canzoni formalmente
impeccabili che dimostrano, se mai ce ne fosse bisogno, quale grande performer
sia l’artista newyorkese.
Quando meno te lo aspetti, arriva l’ennesimo
capolavoro. Inaspettato perché all’opposto di tutto quello che Wainwright ha
scritto fino ad oggi. Esce
infatti un disco anomalo, difficilissimo, ombroso e intenso dal titolo All Days Are Nights: Songs For Lulu (2010,
Voto: 10), le cui note di pianoforte potrebbero risalire nel tempo fino
agli inizi del secolo scorso o rappresentare il manifesto di una corrente
neoclassica che nascerà fra qualche centinaio d’anni quando una palingenesi
musicale avrà sepolto per sempre il nostro modo di produrre e ascoltare musica.
Queste dodici canzoni (uso impropriamente il termine “canzone”), costruite
eslusivamente sull'interplay fra pianoforte e voce, rappresentano il confine
estremo a cui Wainwright porta la propria concezione di musica. Abbandonata
ogni sensazione pop e la consueta complessità degli arrangiamenti, Rufus con
All Days Are Night rilascia un disco apparentemente scarno, eppure di sostanza,
concepito come un monologo teatrale, notturno e cupo, di certo più melodrammatico
che malinconico, riuscendo a fondere con naturalezza elementi intellettuali (la
rilettura di tre sonetti di Shakespeare, il risalto di un pianoforte suonato
con la fisicità e la tecnica dei grandi) agli struggimenti e al disagio per la
perdita recente della madre, palpabile in tutti, gli intensi, passaggi vocali.
Un lavoro di difficilissima assimilazione, che richiede una predisposizione
anche fisica all’ascolto, e che produce nell’ascoltatore un lento ma
progressivo coinvolgimento: si passa dall’incomprensione iniziale, allo stupore
per melodie che si fanno magicamente sempre più liquide, per giungere infine alla
consapevolezza di essere testimoni di un‘opera sofferta, priva di compromessi e
traboccante di spiritualità. Così lirica, nella propria voluptas dolendi e nel
proprio abbacinante respiro vitale, da rapirci, anima e corpo, in un’esperienza
sonora che ci apparirà (quasi) definitiva. Difficile quindi pensare che un
artista abbia in serbo ancora molto, dopo una carriera che non ha avuto il
minimo cedimento. Invece, Rufus sorprende tutti di nuovo, si fa produrre dal giovane
mago della consolle Mark Ronson e torna al pop con un disco semplice e
immediato dal titolo Out Of The Games
(2012, Voto: 8). Un disco leggero, ma di grandissima classe, che la
produzione di Ronson accende di colori. E’ l’album della rinascita
esistenziale, del lutto che viene rielaborato e riposto nel cassetto dei
ricordi struggenti (la madre è ricordata nella meravigliosa Candles che chiude
il disco e rappresenta uno dei vertici compositivi della carriera di Wainwright),
della gioia per la paternità (Rufus ha avuto un figlio da Lorca, la figlia di
Leonard Cohen) e della serenità raggiunta dopo un lungo e tormentato percorso.
Gli anni ’70 nelle orecchie, Bacharach e Elton John nel cuore, e un pugno di
canzoni ricche di pathos e poesia.
DISCOGRAFIA
ESSENZIALE :
RUFUS
WAINWRIGHT (1998)
POSES (2001)
WANT ONE (2003)
ALL DAYS ARE NIGHTS : SONGS FOR LULU (2010)
Blackswan, sabato 23/11/2013
5 commenti:
mi hai fatto venire voglia di recuperarmi alcuni dischi che era da un po' che non ascoltavo.
la sua canzone che preferisco comunque resta going to a town, sebbene non sia tratta dal suo album migliore...
Me lo ero completamente dimenticato e pensare che mi piaceva tanto , ma proprio tanto..
Ahhh se mi mancassi tu caro Blackswan...ora tornerò a sentire tutta la sua intima, delicata, sofferta discografia..
Grazie, un bacio!
@ Marco : la qualità di scrittura di Wainwright è tale che ogni album è comunque un ottimo album. Io sono legato a Poses e a Cigarettes And Chocolate Milk un disco che mi ricorda una bellissima estate.
@ Nella : mi fa piacere sapere che per qualche ora sarai in ottima compagnia :)
Questo tipo di musica pop è uno dei motivi che ti fa stare bene su questa terra.
@ Harmonica :condivido completamente.
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