C’erano una volta due band
di death doom metal che, nel mezzo di cammin di loro vita, hanno abbracciato
scelte artistiche diametralmente opposte, giungendo su lidi musicali
inizialmente imprevedibili. I prini si chiamano Anathema, arrivano da Liverpool
e hanno all’attivo, conteggiando quest’ultima fatica, Distant Satellites, la
bellezza di dieci album. A inizio anni ’90 si dividevano la scena Doom con band
del calibro di Paradise Lost e My Dying Bride, poi a metà del decennio (la
svolta arriva con Eternity del 1996) si sono progressivamente “radioheadizzati”,
proponendo una musica più complessa, dalle atmosfere malinconiche e votata alla
creazione di soundscapes imparentati in qualche modo al gothic rock e al
progressive. Distant Satellites, ultima fatica uscita nei negozi qualche mese
fa, sancisce in modo compiuto questo percorso che, lungi dall’essersi
cristallizzato, suggerisce ulteriori possibili evoluzioni (You’re Not Alone
rappresenta una sorta di abbrivio verso un’ulteriore svolta). Il disco, diviso
in due parti separate dalla splendida Anathema (una sorta di riassunto della
storia della band), si sviluppa in una prima parte più consona ai canoni
espressivi del gruppo, e in una seconda, invece, in cui i fratelli Cavenagh
provano diverse soluzioni (i massicci beat e synth della favolosa title track).
Distant Satellites è in definitiva l’opera di una band che sta vivendo uno
straordinario momento di creatività ma che appare ben lontana da essere
arrivata al traguardo del proprio percorso artistico.
Altro discorso per gli
Opeth, combo svedese, coevo agli Anathema e, come la band inglese, protagonista
agli esordi della locale scena death metal. Un suono, questo, progressivamente
abbandonato, grazie anche all’amicizia e alla collaborazione con Steven Wilson
(Porcupine Tree), che ha facilitato e accompagnato la svolta verso sonorità più
decisamente progressive. Pale Communion è in tal senso il capitolo definitivo
del loro nuovo percorso stilistico: qui siamo alla replicazione, in chiave
metal 2.0, di quelle sonorità tanto in voga negli anni ’70. Yes, Genesis, ELP,
Camel, King Crimson, vengono citati tutti, dal primo all’ultimo. Il risultato,
però, è convincente solo a metà: ottimo, quando la lunghezza dei brani viene
asciugata (bellissima Goblin, esplicito omaggio alla band italiana di Profondo Rosso),
autoreferenziale e verboso, quando si sceglie la via della maratona sonora (i
dieci minuti e passa di Moon Above, Sun Below inducono a più di uno sbadiglio).
Un lavoro, quindi riuscito a metà, che anche nelle sue parti migliori (il
convincente incipit di Eternal Rain Will Come) risulterà interessante solo per
gli amanti del progressive. Per tutti gli altri, la noia è dietro l’angolo.
VOTO:
Anathema – Distant Satellites 7,5
Opeth – Pale Communion 6
Blackswan, sabato 04/10/2014
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