Che la statura artistica
di Willie Nile sia fuori discussione è un dato di fatto. Eppure, il piccolo (da
un punto di vista fisico) rocker originario di Buffalo ha sempre avuto problemi
a farsi notare al grande pubblico e ha vissuto ai margini del successo anche i
momenti più brillanti della propria carriera, quando esordì con un paio d’album
riuscitissimi (Willie Nile e Golden Down, rispettivamente del 1980 e del 1981)
e quando, a metà degli anni ‘00, ci regalò quel capolavoro assoluto che porta
il nome di Streets Of New York. Di sicuro non l’ha aiutato aver prodotto due
soli album in vent’anni, tra il 1981 e 1999; né gli ha giovato, se vogliamo
proprio trovare un altro motivo di una carriera tanto defilata, l’ombra lunga
di Springsteen, uno che, nel bene e nel male, per un certo tipo di rock
stradaiolo e sanguigno, ha rubato la scena a tutti. Oggi il buon Willie va per
i settanta, essendo nato il 7 giugno del 1948, ma sta vivendo quella, che con
un immagine un po’ troppo abusata, potremmo definire una seconda giovinezza. Se
la prima parte della carriera artistica di Nile è stata caratterizzata da una
produzione al contagocce (cinque album in ventisei anni), con If I Was A River
siamo invece al quarto disco in poco più di un lustro. Ciò che colpisce,
tuttavia, non è solo la frequenza delle uscite discografiche degli ultimi tempi,
quanto invece la qualità di una rinnovata ispirazione. Se due anni fa, American
Ride ci aveva fatto godere come ricci, con questo nuovo full lenght, Nile torna
a stupirci. E lo fa, forse nel modo più inconsueto, con un album di ballate per
pianoforte e voce, arricchite da pochi e scarni arrangiamenti (Frankie Lee al
canto, David Mansfield al mandolino e violino e Steuart Smith alle chitarre e
tastiere). Un plot inconsueto, dicevamo, ma non certo una novità assoluta, dal momento
che sia in studio che dal vivo il nostro ha sempre amato ritagliarsi momenti
acustici di grande intensità (mi vengono in mente, di primo acchito, la mitica Streets
Of New York e da ultimo, The Crossing). If I Was A River è un album stringato
(dieci canzoni per trentacinque minuti), essenziale, ispiratissimo,
caratterizzato dal suono limpido e preciso dello stesso Steinway, che Nile si
era trovato a suonare la notte dell’8 dicembre del 1980, quando, a pochi passi
dal suo studio di registrazione, la
furia omicida di Mark Chapman ci privò per sempre del genio di John Lennon. A
parte un paio di episodi più briosi e meno riflessivi (Lullaby Loo, Goin To St
Luis), che, a parere di chi scrive, sono piacevolissimi ma non hanno la forza
evocativa del resto della scaletta, le altre otto tracce del disco possiedono
un sofferto mood malinconico e una semplicità melodica disarmante (Once in A
Lullaby e la conclusiva Let Me Be A River sono due colpi da k.o.), resa ancora
più intensa dalla scorbutica voce di Nile che, se da un lato non conosce una
gran varietà di sfumature, riesce comunque a essere sempre dannatamente
incisiva. In attesa che il rocker di Buffalo torni a imbracciare la sua sei
corde, questa sorta di “riposo del guerriero” rappresenta qualcosa che va ben
oltre la semplice curiosità discografica, offrendoci semmai una declinazione
con accento diverso della stessa arte. L’arte di un musicista che da sempre
crede nella passione e nella sincerità, disdegnando ogni compromesso. Willie
Nile sarà sempre così, qualsiasi cosa faccia: prendere o lasciare.
VOTO: 7
Blackswan, domenica 29/03/2015
1 commento:
sconosciuto ai più, Willie Nile rappresenta l'essenza del rock americano, senza compromessi, senza in realtà aver mai sgarrato un disco. Quanto vorrei venisse in Italia...
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