Mi chiedevo da tempo quale
fosse il problema di Chris Cornell, come fosse possibile che l’inarrivabile
voce di Hunger Strike e Black Hole Sun potesse essersi ridotto a vivacchiare
tra comparsate in colonne sonore e mortificanti episodi solistici (Scream), al
solo ricordo dei quali rischio il conato di vomito. Poi, riguardando la
discografia dell’ex ragazzo di Seattle, mi sono reso conto che, al netto della
militanza Audioslave (buono il primo, un po’ meno gli altri due), l’unico disco
decente partorito da Cornell è Songbook (2011), convincente live acustico che
ripescava a piene mani dal glorioso passato. Ecco, forse il problema è proprio il
passato. Perché è chiaro ormai che “The Voice” non riesce a vivere il presente,
a stare al passo coi tempi, ma ha bisogno, perché la sua creatività abbia un
senso, di guardarsi allo specchio e ritrovare l’ugola meravigliosa dei lontani fasti
grunge. Non è un caso che Higher Truth esca proprio dopo la recente (e
rivitalizzante) reunion dei Soundgarden, che a produrre il disco sia Brendan O’brien,
padre putativo della produzione anni ’90 e già al mixaggio sulle vette di
Superunknown (1994), e che in un paio di pezzi compaia, dietro ai tamburi, Matt
Chamberlain che, guarda caso, ha fatto qualche comparsata anche nel Giardino
del Suono. Così, in Higher Truth, Cornell convoglia i propri ricordi e una scrittura
che affonda le radici in quegli anni ’90
che furono per lui tanto gloriosi. A rigenerare il suono ci pensa O’Brien, impeccabile
dietro la consolle e abile a modernizzare canzoni che potrebbero essere state
scritte vent’anni fa. Il risultato è un disco di post grunge elettro acustico, privo
di ruvidezze hard e percorso semmai da una vena cantautoriale pop folk, capace
di guardare alle classifiche ma anche di suggestionare in chiave nostalgica la
generazione che visse in prima persona l’avventura Soundgarden. Non siamo di
fronte a un gran disco, sia bene inteso, ma è senz’altro il miglior parto dai
tempi di Euphoria Morning (1999): Higher Truth è, in definitiva, un lavoro onestissimo,
credibile, maturo e sincero, che ci regala un pugno di canzoni niente affatto
prescindibili (Nearly Forgot My Broken Heart, Before We Disappear, Let Your Eyes
Wonder). Stona solo il finale di Our Time In The Universe, un pop dozzinale ed
elettronico, messo lì a ricordarci che Cornell non ha perso il vizio di
pasticciare il presente. A dimostrazione che, nel suo caso, il passatismo non è
un vizio di forma ma concreta ispirazione.
VOTO: 6,5
Blackswan, domenica 27/09/2015
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