Una diffusa vulgata ritiene
che gli anni ’80 siano stati, sotto il profilo musicale, anni pessimi. Questa convinzione, condivisa da molti apoditticamente,
contiene indubbiamente una parte di verità (gli eighties sono il decennio in
cui maggiormente la cifra estetica e quella musicale sono apparse, per certi
versi, indistinguibili), ma sottende anche, e spero ne conveniate, una
riflessione poco approfondita e di grana grossa. In realtà quel momento
storico, pervaso da un’estetica esasperata (e disperata), ha prodotto, come
ogni decennio (che vogliamo dire, ad esempio, di certo progressive
autoreferenziale degli anni ’70?) ciofeche inarrivabili e autentici capolavori.
Se da un lato, synth pop, testiere di plastica e acconciature improbabili
infestavano le classifiche di mezzo mondo, dall’altro, un sottobosco indie partoriva
gruppi fenomenali come i The Gang Of Four, i Gun Club, i B52’s, i Pixies, i
Bauhaus, solo per citarne alcuni, mentre a livello più decisamente mainstream, vivevano
il loro periodo migliore band come gli U2, i Big Country e i Cure. E a ben
vedere, permettetemi di vestire i panni dell’avvocato del diavolo, anche fra le
miriadi di gruppi da classifica, possiamo estrarre da quel magma indicibile,
band che il tempo ha poi rivalutato: cito per tutti i Talk Talk, che nel
decennio successivo vestiranno i panni di padri del post rock, oppure i Tears
For Fears, capaci di rinverdire i fasti beatlesiani con una scrittura brillante
e molto meno banale di quanto generalmente si pensi, o ancora gli Housemartins,
chitarre spiegate a favore di vento e northern soul nel sangue. E poi, ci sono
loro, i Bronski Beat, terzetto di Brixton, che visse una sola stagione sull’onda
del successo planetario di Smalltown Boy (il leader, Jimmy Sommerville, se ne
andrà dopo il primo disco a formare i Communards). E sono proprio i grandi
singoli estratti da Age Of Consent (oltre Smalltown Boy, anche Why? schizzerà in cima alle classifiche),
a distogliere l’attenzione da un album la cui caratura artistica meriterebbe
attenzione anche a prescindere dalle due hit citate.
Age Of Consent è in primo
luogo un album barricadero e appassionato: in un’epoca in cui si utilizzava
molto il termine combat rock per descrivere i fermenti provenienti dal nord
della Gran Bretagna (si pensi agli Alarm, agli Aslan, ai Big Country e ai primi
U2), per l’esordio dei Bronski Beat si potrebbe utilizzare il termine speculare
di combat pop. Inseritisi nella scia della
canzone militante, a cui aveva dato voce, qualche anno prima, la Tom Robinson
Band, con il successo di Glad To Be Gay (magia del rock: un intero paese, etero
compresi, nel 1978, si è messo a cantare
all’unisono “Felice di essere gay”), Jimmi Sommerville e soci imbastiscono un
album che, in piena era thatcheriana, tutta tea and tories, afferma senza mezzi
termini i pari diritti per quelle che oggi chiamiamo “unioni civili”. Se sullo
stesso terreno lottano, praticamente in contemporanea, gli Smiths di Morrissey,
l’approccio dei Bronski Beat è però sostanzialmente diverso. Da un lato, le
chitarre byrdsiane, un’iconografia dandy e decadente, e un messaggio filtrato
attraverso riferimenti colti e letterari; dall’altro, invece, un linguaggio più
diretto e, per certi versi più efficace, e un pop che, senza esibizioni
caricaturali, guarda a certi modelli disco music degli anni ’70 (la cover di I
Fell Love di Donna Summer non è un caso),
innestandoli però in un suono plasmato sull’elettronica più crepuscolare
della nuova onda. Espliciti, in tal senso, sono la copertina e il titolo dell’album.
Age Of Consent fa riferimento senza mezzi termini all’età del consenso per le
relazioni omosessuali (21 anni, rispetto a quella più bassa richiesta per le
relazioni etero) e il triangolo rosa in campo nero, posto al centro della
cover, è il simbolo utilizzato dal movimento per la liberazione degli
omosessuali. Understatement zero, e il disco va subito al nocciolo della questione,
senza tentennamenti. Così, l’incipit trascinante di Why?, raro esempio di dance
music che accosta ballo e riflessione, diviene una pacifica chiamata alle armi
contro ogni violenza omofoba. Ballare e riflettere, prendere coscienza,
attraverso un testo (“All My Feelings
Denied, Blood On Your First”) che si ricollega inevitabilmente alla citata
canzone di Tom Robinson e a quell’incipit folgorante (“La polizia inglese è la migliore del mondo…hanno scelto gente a caso e
li hanno spinti a terra hanno perquisito le loro case, chiamandoli froci”)
ed
esprime tutto l’orgoglio della propria diversità ("Me and you togheter, fighting for our love"). Il tema ritorna, ancora, in Smalltown Boy, ballata
elettronica in grado di coagulare in cinque minuti tutte le malinconie del
mondo.
Rispetto a Why?, icastica nel veicolare un messaggio attraverso slogan,
la prima hit dei Bronski Beat utilizza, invece, il racconto e il video per esplicitare
il messaggio: la piccola provincia british, l’intolleranza, l’impossibilità di
far comprendere, la solitudine interiore (And
as hard as they would try, they’d hurt to make you cry, but you never cry to
them, just to your soul), la vittima di abusi che diviene automaticamente
il colpevole delle proprie diverse pulsioni sessuali. Non sono solo i
contenuti, però, a rendere Age Of Consent uno dei migliori dischi partoriti nei
tanto vituperati anni ’80. Se il marchio di fabbrica restano i due citati singoli
(le uniche due canzoni di cui forse i posteri hanno memoria) e il falsetto soul
di Jimmi Sommerville (un grande cantante, quando tiene a freno gli eccessi da
consumato teatrante), nelle pieghe meno conosciute dell’album si nascondono
autentici gioielli, costruiti con i piedi fortemente piantati nel presente (di
allora), ma capaci di maneggiare con intelligenza soul, blues e, come detto, le
ritmiche disco del precedente decennio. Imbastire una cover credibile di uno
dei capisaldi dell’elettronica dance come I Feel Love (Donna Summer alla voce e
Moroder al genio) non era facile, ma Sommerville ci riesce alla grande (anche
grazie allo zampino di Mark Almond). Così come il notturno jazzy di Ain’t Necessarily
So (altra cover da Porgy & Bess, a firma Ira and George Gerswing) è un
colpo ben assestato alla tradizione, Junk rende ballabili le inquietudini post
punk di derivazione mancuniana (il mood ossianico e la ritmica marziale si ispirano
evidentemente ai Joy Division). Il capolavoro, però, è Screaming, terza traccia
dell’album, e sublime compendio di elettronica, malinconie al neon e gospel, su
cui impazza la voce di Sommerville, capace di portare il lamento degli schiavi
neri americani nel cuore di Brixton. Un disco d’oro, due di platino e Smalltown
Boy in cima a tutte le classifiche europee, sono l’effimero successo di una
band che, dopo l’uscita del leader, non sarà in grado di ripetersi e che oggi
vive solo negli ascolti e nei ricordi di qualche nostalgico degli anni ’80. Il
quale, magari, non sa, o non rammenta, quanto fosse bello questo disco. Anche a
prescindere di Smalltown Boy.
Blackswan, sabato 20/02/2016
2 commenti:
Gran bel disco, condivido il discorso secondo il quale ogni decennio musicale porti con sé opere valide e non. Il lavoro di ricerca che ho compiuto, per questioni anagrafiche, decenni dopo è stato soddisfacente, naturalmente tra le cose che apprezzo non posso che annoverare questo disco. Che dire poi del video di "Smalltown Boy"? È letteralmente impossibile che non generi una riflessione sulla tematica, lo definirei uno "scacciaomofobia", impossibile non compatire la tristezza del protagonista/cantante.
Se poi si continua ad essere omofobi anche dopo una visione, e ascolto, del genere si è semplicemente privi di sentimenti. ;)
@ Salvatore: temo che l'omofobia sia un male incurabile, soprattutto nel nostro paese,in cui le superstizioni e una visione medioevale della vita suggerita dalla Chiesa continuano a mietere vittime. Certo, la musica può dare una mano, perchè è diretta e arriva soprattutto ai giovani, e in tal senso Age Of Consent fu un disco importante, che riuscì a smuovere più di una coscienza.
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