Nell’anno del signore
1996, i Kula Shaker erano sulla bocca di tutti. K, esordio da due milioni di
copie vendute e ben cinque singoli in classifica, aveva fatto letteralmente
impazzire pubblico pagante e critica, grazie a una miscela seducente di brit pop,
psichedelia anni 60 e musica tradizionale indiana (tabla, sitar e tambura erano
alcuni degli strumenti suonati dalla band). Non certo una novità assoluta
(fonte d’ispirazione era un signore chiamato George Harrison, che quel suono lo
maneggiò alla grande fin dai tempi dei Beatles); tuttavia, la proposta era così
ben raccontata, che tutti avrebbero scommesso grosse somme sul futuro di
Crispian Mills e soci. Invece le cose andarono diversamente, e il successivo
Peasants, Pigs And Astronauts (1999), prodotto da Bob Ezrim, nonostante qualche
buona canzone, si rivelò un clamoroso flop e portò al prematuro scioglimento del
gruppo. Ricompattate le fila della band nel 2004, Mills torna a sfornare dischi
(un Ep, nel 2006, dal titolo altisonante di Revenge Of A King, e due full
lenght, Strangefolk e Pilgrims Progress, rispettivamente nel 2007 e nel 2010),
che segnano anche un sensibile cambiamento di rotta verso sonorità folk bluesy,
senza tuttavia suscitare grande impressione a livello commerciale e creativo.
K2.0 (simpatico il gioco di parole che richiama alla mente la modernità e una
vetta leggendaria) era atteso come il disco della nuova consacrazione, una
sorta di prova del nove per verificare se le buone cose che si intravedevano
nel precedente lavoro potessero trovare compiuta realizzazione. L’impressione
che si ha ascoltando il disco è però che lo standard compositivo dei Kula
Shaker sia ormai consolidato su un livello di sufficienza abbondante, una sorta
di compitino ben fatto, ineccepibile nella forma, ma privo, nondimeno di quelle
intuizioni in grado di trasportare la band alle altezze ammiccate dal titolo.
Il disco regge fino alla fine, e ciò, nonostante manchi quell’unità di proposta
che caratterizzava l’esordio; eppure, anche dopo ripetuti ascolti, sono davvero poche, a mio avviso, le cose che
si lasciano ricordare. Le suggestioni indiane sono ancora presenti, ma sono
utilizzate come spezie e non più come piatto principale (ma questo l’avevamo
già intuito nel precedente lavoro): ed è un peccato, perché Infinite Sun e
Mountain Lifter, i brani orientaleggianti con cui si apre e si chiude il disco
(l’altro, Oh Mary, non mi pare memorabile) , sono tra i meglio riusciti del
lotto. In scaletta, prevale invece un mood decisamente più folk (morbido in 33 Crows,
più sferzante in Death Of Democracy, decisamente western in High Noon), alternato
a qualche canzone che pare fuori contesto, come l’insipido funky di Get Right
Get Ready o il rhythm & blues, questo invece decisamente riuscito, di Let
Love B (With You). A livello compositivo, la cosa più interessante è senz’altro
rappresentata da Here Comes My Demon, canzone a incastro che sintetizza
magistralmente pulsioni elettriche, psichedelia e ballata brit pop. Alla resa
dei conti, tuttavia, ci si trova ad ascoltare un disco piacevole ma prescindibile,
che ci regala qualche buona canzone ma ci suggerisce anche l’idea di una band
in bilico fra un passato che pesa e un futuro che stenta ad arrivare. Almeno fino
a quando i Kula Shaker non faranno chiarezza sulla propria definitiva identità.
VOTO: 6,5
Blackswan, sabato 05/03/2016
3 commenti:
Ti dirò che in Peasants, Pigs And Astronauts nel complesso mi era piaciuto più di K (tolta la splendida Govinda).
Questo lo sto ascoltando volentieri. Condivido il tuo giudizio.
Mi sto riscoltando Govinda :D
@ Lucien: Il disco si ascolta volentieri,hai ragione. Per me K resta inarrivabile. Forse Peasants è un pochino troppo pretenzioso per i miei gusti, ma è sicuramente meno peggio di come lo descrive la critica.
@ Sally: bè, come si dice in questi casi: tanta rrobba ! :)
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