Dal grande e confuso calderone denominato nu metal
(per i neofiti, una sorta di crossover fra rap, funky e metal), tra
la prima metà degli anni '90 e l'inizio del nuovo millennio, uscirono
alcune band che incisero profondamente sulla storia del movimento. Vengono in
mente i Korn e il loro esordio datato 1994 (Korn), vero manifesto del
genere, i Rage Against The Machine e il loro rapcore militante e barricadero, i
System Of A Down e il loro metal speziato di folk armeno, e poi, i Deftones,
bizzarra enclave di Sacramento, in cui convivevano le istanze metal più dure e
i giovanili ascolti new wave del cantante Chino Moreno. I Deftones, a
differenza di Rage Against The Machine e System Of A Down, nonostante svariate
traversie (tra cui la morte del bassista Chi Cheng, avvenuta nel 2013, dopo
quattro anni di coma) sono riusciti a trasportare il marchio di fabbrica
fino ai giorni d'oggi; e, a voler spulciare le rispettive discografie,
sono riusciti a invecchiare con una dignità e una qualità compositiva che ai
Korn, anch'essi padri putativi del genere, è invece venuta a mancare, a
voler essere buoni, fin dall'inizio del nuovo millennio. Certo, vertici
assoluti come Adrenaline (1995), Around The Fur (1997) e il superbo White
Pony (2000) restano e resteranno irraggiungibili. Eppure, nonostante qualche
episodio prescindibile (Saturday Night Wrist del 2006 e Diamond Eyes del 2010),
i Deftones riconfermano oggi il confortante stato di forma già palesato
con il tenebroso Koi No Yokan, penultima prova in studio, risalente al 2012.
Gore, non c'è che dire, è un buon disco, di una tacca abbondante superiore al
suo predecessore. Registrato fra la fine del 2014 e l'agosto del 2015, questo
ultimo full lenght, con qualche differenza rispetto a Koi No Yokan, rappresenta
come di consueto la sintesi delle tante differenti anime che compongono la
band: le stratificazioni di chitarre e i riff pesissimi di Stephen
Carpenter fanno così da contraltare alle aperture melodiche congeniali a
Moreno e agli evocativi soundscapes strumentali figli della libertà
espressiva di Delgado. La band appare coesa e volitiva, la voce di Moreno è
come sempre duttile e in grado di cambiare più registri (dallo screaming al
melodico anche nella stessa canzone), il basso a sei corde di Sergio Vega
pompa che è una meraviglia, le chitarre di Carpenter rombano e affondano
il colpo, Delgado si cimenta nel consueto lavoro di cucitura e Abe
Cunningham si conferma una dei migliori batteristi in circolazione. Il
saliscendi è continuo, graffi feroci si alternano a momenti melodici in
classico stile Deftones, come avviene nell'iniziale e
paradigmatica Players/Triangles, primo arioso singolo estratto dall'album,
che mi ha ricordato alcuni momenti emo alla Dredg. Ci sono anche alcuni episodi
non particolarmente riusciti (Pittura Infamante, Xenon), ma il disco regge alla
grande con episodi che, pur non apportando sostanziali novità, palesano una
buona dose d'ispirazione: le spire claustrofobiche di Acid Hologram, lo
spiazzante controtempo della nervosa Geometric Headdres, le melodie di
Phantom Bride, impreziosita dall'assolo di Jerry Cantrell (Alice In Chains) e
la conslusiva Rubicon, che chiosa la scaletta esprimendo al meglio il
Deftones-pensiero. Insomma, un disco davvero niente male per una band che, seppur in
circolazione da vent'anni, sembra aver mantenuto la lucidità necessaria per
continuare a tenersi stretta quella fama meritatamente acquistata a inizio
millennio.
VOTO: 7
Blackswan, martedì 19/04/2016
2 commenti:
White Pony è un bellissimo album. poi li ho persi di vista.
@ Andrea: questo disco è l'occasione buona per riprendere l'ascolto :)
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