A proposito di Ben Poole,
hanno speso parole d’elogio sia Gary Moore, poco prima di morire, che Jeff Beck.
Viene, dunque, la curiosità di capire
cosa, le due grandi icone della sei corde, abbiano intravisto in questo ragazzo
inglese, il cui nome ha iniziato a girare con insistenza, da qualche anno, nei
circuiti del rock blues britannico. Basta dare un’occhiata ai numerosi filmati
che si trovano in rete, per capire che il ragazzo ha tecnica da vendere e un
grande gusto: insomma, dal vivo spacca, anche quando si cimenta con grandi
classici del passato. Tuttavia, chi pensa di trovarsi di fronte a una sorta di
Joe Bonamassa o Kenny Wayne Shepherd anglosassone, probabilmente resterà deluso.
Poole, infatti, arrivato al suo terzo
album, il secondo in studio, visto che il precedente, Live At Royal Albert Hall
del 2014, era dal vivo, se da un lato dimostra di saperci fare, e bene, con lo
strumento, per converso si tiene abbastanza lontano dalle grintose, e più
classiche, sonorità dei due colleghi citati poc’anzi. Il songwriting del
ragazzo inglese, che firma quasi tutti i pezzi dell’album, vira semmai verso
certe cose già conosciute con Jonny Lang e John Mayer, e cioè un crossover
dagli accenti bluesy, ma decisamente indirizzato verso il soul e il pop. Non è
un caso che solo l’iniziale Lying To Me suoni aggressiva, lambendo i confini di
un certo hard rock blues (abbastanza di maniera). In quasi tutti gli altri episodi,
Ben Poole preferisce muoversi nei territori della ballata o attraverso dei
mid-tempo eleganti, sorretti da ottimi assoli e da una voce educata, ma non
particolarmente incisiva. Insomma, la scrittura non è certo la dote migliore
del nostro: non c’è nulla che dispiaccia, ma nemmeno nulla che faccia venire
voglia di applaudire, nonostante, qui e là, si intravvedano ampi margini di
miglioramento (The Question Why, I Think I Love You Too Much, Stay At Mine, Time
Might Never Come). Tuttavia, è necessario dare a Cesare ciò che è di Cesare: in
Time Has Gone non ci saranno grandi canzoni, ma di sicuro c’è uno che la
chitarra la sa suonare bene (ascoltare la performance Gilmour addicted sulla
lunga Time Might Never Come, il miglior brano del disco, e ve ne renderete
conto). Poole, e questo mi piace molto, non sbrodola mai, ha tocco elegante e i
tempi giusti per l’assolo, preferisce togliere che aggiungere, esplicita tutti
i riferimenti ai grandi del passato (Robben Ford, David Gilmour, Jeff Beck), ma
in definitiva possiede uno stile già personalissimo. Insomma, se adesso è in tour con Beth Hart, una che si è ricostruita la carriera a fianco del grande Joe Bonamassa, qualche motivo ci sarà. In
attesa di sviluppi compositivi di livello superiore, Ben Poole è comunque un
chitarrista da tenere d’occhio, soprattutto se dovesse venire a suonare dalle
nostre parti.
VOTO: 6,5
Blackswan, giovedì 02/06/2016
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