Suonano Rock e Hard-Blues dal 2008 e
non sembrano avere l’intenzione di smettere, anzi alla luce di questo recentissimo
lavoro danno l’impressione di voler accelerare il tiro, offrendoci nove canzoni nuove di zecca di straordinaria
intensità e compattezza. Molti tra coloro che ritengono il genere morto e
sepolto già da qualche decennio si faranno in quattro per sostenere, puntando
il dito sul sound dalla band mutuato da quelle storiche dei ’60 e dei ’70
(Cream, Zeppelin, Steppenwolf), che i Rival Sons ripropongono formule musicali derivative
e antiquate. Niente di più giusto, niente di più sbagliato: a convincere, oltre
al feeling innegabile con quegli anni, sono soprattutto la personalità, le capacità
compositive e la carica interpretativa fuori dal comune, che la band
californiana profonde generosamente ad ogni nuova uscita.
A questo proposito, ritengo che
gruppi come i Rival Sons siano oggi necessari più che mai proprio perché, oltre a coltivare
quel brutto vizio chiamato memoria, gettando un ponte ideale tra il periodo
aureo del Rock e la contemporaneità, intervengono ad alzare un argine atto a
contenere la tendenza attuale che vede la sostanziale dittatura del mainstream
con il benestare spesso entusiastico della maggior parte della critica ubriaca
di hype, facili sensazionalismi dal fiato corto e micidiali crossover dove il
peggio va allegramente a braccetto con il ridicolo.
Dopo questa premessa verrebbe da
dare un 9 di pura simpatia a Jay Buchanan e compagni (stando a sentire gli addetti
ai lavori di cui sopra, anacronistici panda in via d’estinzione) prescindendo
dall’ascolto del nuovo disco! Anche perché basterebbero i tre full-lenght
precedenti e pezzi come Play the Fool,
Until the Sun Comes o Good Things per annoverare la band di
Los Angeles tra le più eccitanti degli anni ’10. Naturalmente non c’è bisogno
di tanta vicinanza e propensione per caldeggiare le qualità dei Rival Sons: Hollow Bones è un album vitalissimo, potente
ed elettrico, trascinante nei brani più irruenti (Hollow Bones pt.1, Thundering
Voices, Pretty Faces, Black Coffee) ed evocativo in quelli più
rilassati (Tied Up, Fade Out, All That I Want ), da ascoltare e riascoltare con la stessa “urgenza”
di 40 e passa anni fa quando il mondo andava in tutt’altra direzione e dischi
del genere erano normale prassi da opporre alle mostruosità che anche all’epoca
non mancavano.
La formazione è tra le più classiche
quando c’è da sudare sugli strumenti: una sezione ritmica instancabile con Dave
Beste al basso e Mike Miley alla batteria, la chitarra tuttofare di Scott
Holiday, e la voce ipnotica, benedetta dagli Dei del Rock, del già citato Jay
Buchanan che dona alla band una riconoscibilità istantanea. Dirige, nei suoi
studi di Nashville, Dave Cobb amico di lunga data e geniale produttore di
alcuni capolavori di Rock e Americana degli ultimi anni (Sturgill Simpson,
Anderson East, Bonnie Bishop, giusto per fare qualche nome). Tra le altre
prerogative della band californiana l’intensissima attività live in proprio e
come supporto per mostri sacri quali Aerosmith, Deep Purple, Alice Cooper e
Black Sabbath (saranno con loro nel tour d’addio partito da poco). Infine,
una curiosità: incidono fin dagli esordi con la Earache Records, una delle
etichette simbolo del Metal estremo. La bizzarra collaborazione (davvero
difficile immaginare i Rival Sons in un contesto Grindcore), sembra comunque funzionare
molto bene considerando che la visibilità della band e i risultati commerciali sono
in continua ascesa. Non rimane che augurare lunga vita ai derivativi e antiquati Rival
Sons e buon ascolto a chi non ne può più di respirare unicamente l’aria che
tira.
Voto: 8
Porter Stout, giovedì 23/06/2016
1 commento:
Sono bravi, molto bravi questi quattro.
Zeppeliniani senza dubbio (a proposito, è ufficiale che Stairway to Heaven non è un plagio) ma non scopiazzatori.
Ed avendoli visti come spalla al concerto di Slash posso dire che la voce di Buchanan dal vivo è anche neglio che in studio.
Keep on rockin'!
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