Ecco
un disco classico, che più classico non si può. Un po’ come quel vestito buono
che riponiamo con cura nell’armadio e che tiriamo fuori per le occasioni
importanti: puzzerà un po’ di naftalina e qualche risvolto sarà un po’ liso, ma
quando lo indosserete, nonostante la vostra e la sua età, continuerà a starvi
maledettamente bene. Suona proprio così Pierced Arrow, seconda prova in studio
dei The Rides: rock blues d’antan, che trae la sua forza dagli anni ’70 (Kick
Out Of It) e le sue origini da qualche fumoso locale della Chicago anni ’50 (la
cover di My Babe di Willie Dixon è messa lì, proprio a raccontarci il DNA).
Eppure, nonostante questo suono possa vantare un antico e nobile pedigree e
abbia sul groppone parecchi decenni di militanza, i The Rides hanno la capacità
di riproporlo fresco di bucato, esattamente come quel vestito buono che, se
tenuto bene, sembra appena uscito dalla tintoria. Chiusa, ormai definitivamente
(?), la gloriosa avventura con i CS&N, Stephen Stills pare aver trovato un
nuovo progetto in cui credere e, soprattutto, quell’immaginario blues che lo
suggestiona e lo anima fin dal leggendario Super Session (1968), infuocata jam,
nella quale, a solo ventitre anni, il biondo chitarrista di Dallas teneva testa
a Mike Bloomfield e Al Kooper, due che la storia l’avevano già scritta con
Dylan, solo qualche anno prima. Oggi, il mostro sacro è lui, ma in Stills non
c’è un briciolo di autoreferenzialità e anzi, sembra vivere una seconda
giovinezza, nella quale non sfoggia solo acume chitarristico in dosi massicce,
ma mostra anche i muscoli con rinnovata vigoria. Un merito da attribuire,
almeno in parte, a Kenny Wayne Shepherd, ex enfant prodige della sei corde, con
cui Stills vive una sintonia quasi simbiotica: uno, più misurato e ruvido,
l’altro, Kenny, esuberante e funambolico; insieme, perfetti come la granella di
nocciole con il cioccolato. Attenzione, però, a farsi rapire solo dall’oliato
interplay fra i due chitarristi. Il terzo incomodo, si fa per dire, è Barry
Goldberg, la cui carriera, per importanza e spessore, non è da meno di quella
di Stills. Questo ragazzo di settantatre anni, infatti, macina chilometri al
piano e all’hammond, intessendo con accuratezza artigianale i ricami del tappeto sui cui le chitarre danno libero
sfogo a centrati virtuosismi; salvo, poi, in qualche occasione, uscire
dall’ombra e dimostrare di che stoffa è fatto, prendendosi tutti i riflettori
del palcoscenico (l’assolo di piano sui My Babe è da abbecedario nelle scuole
di blues). Il successore di Can’t get Enough (2013) è, in definitiva, un disco
pimpante, divertente, suonato magistralmente, a cui non manca proprio nulla per
far bella mostra nella discografia di tanti appassionati. C’è tecnica, ma ci
sono anche belle canzoni: la stonesiana Riva Diva, il classicone blues alla
Muddy Waters di Game On, e la polvere che lentamente cade, in un giorno di
pioggia, attraverso i lampi della chitarra di Shepherd, che illuminano By My
Side. Quando, poi, parte, Virtual World, ballata tutta solitudine e bourbon, il
pensiero va agli anni belli dei CS&N. E il groppo in gola è assicurato.
VOTO: 7
Blackswan, domenica 05/06/2016
Nessun commento:
Posta un commento