Anche quest’anno è
arrivato, finalmente, il tanto agognato periodo feriale: dieci giorni sotto l’ombrellone
a recuperare le energie, ad ascoltare tanta nuova musica e a leggere a più non
posso, senza l’assillo dell’orologio e dei tanti, sempre troppo incombenti, impegni.
Torneremo a pubblicare, a Dio piacendo, dopo il 6 agosto. A tutti i lettori e a
tutti gli amici blogger, auguriamo vacanze ricche di divertimento, relax ed
emozioni.
Abbiamo recensito, non più
tardi di due settimane fa il nuovo disco di Sara Watkins. Oggi, invece, tocca suo
fratello Sean, cantante e chitarrista che con Sara e Chris Thile fa parte del progetto Nickel Creek, nota
band statunitense di progressive bluegrass. Tuttavia, come raccontavamo a
proposito del disco della sorella, lontano dalla casa madre, anche Sean viaggia
su binari diversi. Niente roots, dunque, né il moderno indie folk, screziato di
pop e rock di Sara. Sean, invece, imbocca la strada di un’Americana acustica
che, in più di un’occasione, rimanda a certe delicatezze riconducibili alla
scrittura di Elliott Smith. In What To Fear, Watkins usa infatti i colori tenui
del pastello, crea melodie sospese, modula i brani sull’interplay fra chitarra
acustica e pianoforte, apre a soundscapes agrodolci e malinconici. Suona, più o
meno, tutta così la scaletta del disco, le cui dieci canzoni, per circa
quaranta minuti di durata, raccontano l’America nell’anno delle lezioni (la title
track è chiarissima nel prendere posizione) e le paure del nostro incerto
futuro, esplorando quella sottile linea di confine che separa il politico dalla
riflessione personale. Se il disco suonasse tutto come le prime cinque canzoni,
staremmo parlando di uno degli album di americana più belli dell’anno: da What
To Fear a Everything ci troviamo di fronte, infatti, a un cantautorato
ispiratissimo, le cui brillanti melodie ci catturano a ripetuti ascolti e i cui
testi, politicamente impegnati, spingono l’ascoltatore a più di una riflessione.
La seconda parte, invece, sembra perdere un po’ il tocco magico che anima la
prima metà, e pur mantenendo, comunque, piacevolissimo l’ascolto, cerca altre
forme espressive che minano l’unitarietà della scaletta: il fingerpicking folk
di Where You Were Living, il bluegrass di Local Honey, la cupa marcia per chitarra elettrica di
Tribulations, l’arrangiamento d’archi di Too Little Too Late, una ballata bella
ma risaputa. La vetta del disco si intitola Everything e racconta di un viaggio
immaginario intrapreso a piedi da Watkins attraverso l’America: da Seattle,
dove il songwriter ha concluso il suo tour, fino all’amata Los Angeles, città
in cui l’artista vive. Una canzone splendida, una delle migliori ascoltate
quest’anno, ed esempio di scrittura sopraffina, la cui languida melodia (il
rimando a Elliott Smith qui è evidentissimo) nasce dall’intreccio di più
chitarre acustiche e da un leggero tappeto d’archi a sostegno. Ad accompagnare
Watkins, per tutta la durata del disco, ci sono Matt Chamberlain alla batteria
(ha suonato più o meno con tutti, dai Pearl Jam a Brad Mehldau), Mike Elizondo
al basso (bassista noto nel circuito hip hop per aver suonato con Eminem e Dr.
Dree) e la band acustica californiana di Bee Eaters.
Al Scorch è un ragazzone
dal fisico massiccio, il sorriso aperto e un marcato accento del Midwest. E’ nato
e cresciuto a Chicago, compone canzoni dai contenuti, spesso e volentieri,
socio-politici, e suona la chitarra e il banjo. Anzi, quest’ultimo strumento lo
suona così bene che su di lui, negli States, si stanno spendendo fiumi di
parole d’elogio. L’Huffington
Post, ad esempio, lo definisce “…the finest country-punk-folk-bluegrass banjo
player in the country”. Parole grosse, insomma, ma non spese a casaccio.
Scorch, infatti, è un fenomeno di banjoista, forse non ancora ai livelli del
leggendario Earl Scruggs, tanto per citare uno dei virtuosi dello strumento, ma
vista la giovane età, ha davanti a sè ancora notevoli margini di miglioramento. Circle Round The Signs è il suo secondo album ed esce per la Bloodshot
Records, la prestigiosa casa discografica, che ha sotto contratto il meglio
della gioventù a stelle e strisce (tra cui The Yawpers, Banditos e Andrew Bird).
Dicevamo prima delle notevoli doti tecniche di Scorch, che in questo disco sono
immediatamente rilevabili, fin dal primo brano: una velocità d’esecuzione, in
molti casi, adrenalinica e ciò nonostante un tocco pulitissimo (provare l’ascolto
in cuffia). Ma non sono solo i virtuosismi a rendere appetibile l’ascolto. Il
nostro, infatti, imbastisce una scaletta varia e divertente, nella quale riesce
a fondere, con inusuale equilibrio, diversi elementi all’apparenza lontanissimi
fra loro: il bluegrass (Lost At Sea), il jazz (Everybody Out), l’americana più
tradizionale (Lonesome Low) e il punk. Si, avete letto bene: punk.
Non ci vuole
molto, infatti, per capire che la conclusiva Love After Death, ad esempio, paga
un debito altissimo agli irlandesi Pogues, così come certe accelerazioni, presenti
in tutto il disco (il sali e scendi di Insomnia, l’iniziale Pennsylvania Turnpike,
la fulminante Want One, un minuto e mezzo di divertimento puro) sono, per
indole, più vicine ai Black Flag che a sonorità roots. Ma che Scorch abbia
inclinazioni punk lo si comprende anche dalla durata della canzoni, mediamente
sui due minuti, per una scaletta che fulmina l’ascoltatore con una mezz’ora di
ottima musica. Merito anche della The Country Soul Ensemble, band che fa da
spalla al musicista chicagoano, bravissima ad assecondare i repentini cambi di
tempo e di umore, e ad adattarsi allo spirito ondivago delle diverse canzoni
(la militanza politica declamata nella struggente Poverty Draft, e resa
toccante dallo splendido assolo di corno francese di Justin Almosch, e il
divertissement bluegrass di Slipknot, in cui la band incornicia fra armonica e
violini il rapidissimo fingerpicking di Scorch). Un disco interamente acustico,
suonato con gli strumenti della tradizione, ma il cui risultato finale ci
suggerisce l’energia, la forza e la passione di una rock’n’roll band. Così possiamo
dire, senza timore di essere smentiti, che la variegata e interessante scena musicale di
Chicago ha trovato un altro eroe.
Car Seat Headrest è la sigla (a dir
poco stramba: poggiatesta del seggiolino dell’auto) dietro la quale si cela Will
Toledo, One Man Band originario diWilliamsburg
in Virginia, oggi ventitreenne, diventato popolare negli ambienti Indie per
l’enorme mole di materiale autoprodotto diffuso in rete dalla piattaforma
Bandcamp. La sua fama cresce ulteriormente nel 2015 quando in seguito all’interessamento
della Matador esordisce in forme più tradizionali con l’album della svolta, Teens Of Style: ottima l’accoglienza di
critica e pubblico che contribuisce a fare del nome di Toledo uno dei più caldi
tra le nuove proposte del Rock americano. Ora, per Teen Of Denial, Car Seat Headrest assume una nuova fisionomia e, con
l’ingresso in pianta stabile del polistrumentista Ethan Ives, di Seth Dalby al
basso e di Andrew Katz alla batteria, assistiamo alla nascita di una band vera
e propria. Determinante in sala regia l’apporto dell’esperto Steve Fisk
produttore storico nella Seattle del Grunge (Beat Happening e Screaming Trees,
collaborazioni con Nirvana e Soundgarden).
E’ un album torrenziale Teen Of Denial (doppio nella versione in
vinile), 70 minuti in cui si dà seguito alle esperienze surreali e ai pensieri
bislacchi di Jack (alter-ego di Toledo), adolescente problematico, a suo modo
geniale. Un flusso emotivo attraversa i 12 brani come fossero i capitoli del romanzo
di formazione di un giovane slacker, perennemente sotto l'effetto disostanze alcoliche e psicotrope,
nel quale i ritratti di Van Gogh sono
utili nelle terapie antidepressive, la morte suona uno xilofono fatto di
costole umane e gli ubriachi guidano sulle interstatali in cerca di orche
assassine! Un “delirio” poetico/letterario che correda un album dal grande impatto
sonoro a testimonianza dell’avvenuta maturità, un salto di qualità che fa di
questo lavoro il migliore della discografia di Toledo e tra i più interessanti
dell’annata in corso. In Teen Of Denial si
cita, si ruba e si mescola: fonte primaria il Rock alternativo degli ultimi decenni.
Anche troppo se è vero che a Rick Ocasek il giochino non è piaciuto affatto e ha
negato il permesso per l’utilizzo del riff e del testo di Just What I Needed impedendo l’uscita imminente del disco e
costringendo Toledo a riscrive il pezzo senza nessun riferimento alla hit dei
Cars. Altissimo quindi il rischio di implodere sul proprio citazionismo, che
Toledo supera agevolmente, con la personalità del veterano e un’intelligenza compositiva
fuori dal comune.
Il disco si apre con il Punk grezzo
e sferragliante di Fill The Blank, chitarre
a pieno volume e ritornello che ti si ficca immediatamente nel cervello. Pulsazioni
elettriche introducono l’assordante Space-Rock di Vincent con tanto di fiati e synth a rimarcarne il carattere ludico.
Il trittico iniziale si chiude con la fantastica Destroyed by Hippie Powers, attacco fulminante subito stemperato in
favore di un liquido fraseggio chitarristico di scuola Television e Sonic
Youth. (Joe Gets Kicked Out Of School For
Using) Drugs With Friends (But Says This Isn't A Problem) è incredibile fin
dal titolo: ballata sconnessa ed in egual modo schizzata nella quale si
racconta del cazziatone che Gesù impartisce a Jack/Toledo dopo una colossale
sbronza! Toni rallentati e post-alcolici anche in Drunk Drivers/Killer Whales, nessun
dubbio sulla resa dal vivo del coretto che caratterizza il brano: It doesn't have to be like this / Killer
whales, killer whales / It doesn't have to be like this. 1937
State Park è il
pezzo in cui si sente di più il tocco di Steve Fisk intriso com’è di Grunge granitico
e malumori cobainiani: Sto alla larga dai
cimiteri / sono cliché della mia generazione ossessionata dalla morte. La
seconda parte del disco graffia forse meno ma piazza ugualmente un paio di
colpi formidabili. The Ballad of the
Costa Concordia (in cui si irride alle gesta del Comandante Schettino:mi
è stata data una nave che non può governare se stessa) e la distorta Connect the Dots (The Saga of Frank Sinatra). Teen Of Denial, disco dai tanti rimandi, piacerà ai fan di
Pavement, Guided By Voices e Pixies ma anche ai ventenni di oggi che troveranno
in Will Toledo un credibile quanto beffardo cantore in cui rispecchiarsi.
La dipartita di Lemmy, avvenuta il 28 dicembre dello
scorso anno, è uno di quei rospi difficili, molto difficili, da ingoiare.
Con lui, infatti, se ne sono andati i ricordi e le passioni di più una
generazione di appassionati e si è attenuato, in modo pressoché irreversibile,
il ringhio più selvaggio del rock 'n' roll. Già, perchè Lemmy era selvaggio in
tutto: nelle canzoni che cantava, in quelle corde vocali attraversate da fiumi di catrame, negli atteggiamenti di una vita vissuta sempre fuori dagli
schemi della logica. Clean Your Clock, tredicesimo disco dal vivo nella
carriera della band, non toglie e non aggiunge nulla a una storia che già
conosciamo bene; eppure, in qualche modo, la perpetua, lenendo un pò il dolore
della grande perdita e rinfocolando le nostre speranze di trovarci per le mani,
in futuro, qualche ghiotta uscita postuma, che mantenga intatto il cordone
ombelicale con la band (di dischi nuovi, come appare ovvio, non ne usciranno
più). Registrata durante il tour europeo per i quarant’anni di carriera dei
Motorhead, la scaletta di Clean Your Clock contiene brani di due
performance tenutesi le notti del 20 e del 21 novembre 2015 al centro
culturale Zenith, situato nei pressi di Monaco di Baviera. Si tratta
dell'ultima registrazione live ufficiale della band (Lemmy morirà un mese circa
più tardi) e il disco è stato distribuito in diversi formati: cd singolo, cd +
dvd, Blue - Ray + cd, e in due ricchissimi (e costosissimi) box-set,
contenenti svariato materiale per esclusiva gioia dei fans (più abbienti). Le
canzoni suonate spaziano per tutto l'arco della carriera, e i compilatori della
raccolta hanno pescato sia dai dischi più recenti (When The Sky Comes
Looking For You presa, ad esempio, da Bad Magic) sia dai classici dei classici
(presenti le immancabili Bomber, Overkill, Ace Of Spades, etc). Il concerto è
senz'altro buono, anche se Lemmy, ormai in limine vitae, a tratti, sembra non
farcela più. Ma non è questo il punto e poco importa se non tutto suona alla
perfezione. Il senso di questo ascolto è solo quello di onorare una
leggenda che ha reso più belli i nostri giorni con la sua musica senza compromessi.
Un'ultima furiosa cavalcata insieme. E se le lacrime inumidiscono ancora un po’
gli occhi, è solo questione di un attimo: un paio di canzoni e tutto torna a essere
sudore e headbanging. Rock on forever, Mr. Kilmister !