I quattro membri che compongono i Late Night
Union arrivano da Huntington Beach, California, e, come si legge in calce al
loro sito, hanno l'ambizione di suonare una musica che "Make You Move,
Make You Think, Make You Feel". Quel che è certo, a prescindere da tutti i
buoni propositi, è che questi ragazzi, con una visione del rock decisamente
retrò, ci sanno fare dannatamente bene e danno un'interpretazione niente
affatto banale di un genere altrimenti abbastanza risaputo. Intanto sanno
suonare: Chris Augustine alla batteria e Ryan Reno al basso, danno vita a una
sezione ritmica martellante ma niente affatto grezza, Steve Ray (nomen
omen) inventa dei guitar licks di tutto rispetto alla sei corde e Christian
Erik, dotato di una voce potente e incline a umori soul e blues, regala ottime
performance dal sapore antico. Alle capacità tecniche si abbina anche la
peculiarità di un suono che si sveste di ogni orpello e paludamento, e risulta
scarno, essenziale, quasi lo-fi, pur riuscendo a vestirsi di abiti
(in)credibilmente classici. Mantenendo per tutta la
scaletta un'unitarietà di sound, la band riesce, però, a spaziare fra
vari generi e stili (con citazioni e ammiccamenti a iosa) senza mai perdere la
coerenza di fondo che fa da collante fra le canzoni. In tal senso, il gruppo si
presenta con il medley iniziale fra Mountain Pt.1 e Mountain Pt.2, due
brani molto diversi fra loro, eppure sintetizzati con equilibrio: un blues
dal passo pesante e chitarra in acido che ricorda da
vicino Artificial Red dei Mad Season, il primo, un arrembante hard rock,
il secondo, che pur somigliando, forse un po’ troppo, a Black Country dei
Black Country Communion, si trova però nel posto giusto al momento
giusto. Beautiful Eyes, invece, è un ballatone soul molto classico in
cui la voce di Erik si muove nel suo habitat naturale, mentre Doin' Summertime,
pur citando esplicitamente Summertime di Janis Joplin, fonde mirabilmente
funky, blues, rock e un cantato dal vago sentore reggae. Altri episodi degni di
nota sono il ruvido rock blues di Whiskey, The Train, morbida ballata dal
sapore molto americano, la sfuggente Drinking, imprecisa nei rimandi e per
questo estremamente suggestiva e Down And Out, che apre le porte al funky, per
quattro minuti e mezzo in odore di Red Hot Chili Peppers, quando i
RHCP erano ancora in grado di essere così convincenti. Connections è,
dunque, un disco molto interessante per i suoni a bassa definizione e gli
arrangiamenti asciutti ed estremamente volitivo e vario in una
proposta che risulta valida per tutta la durata dell'album. Non tutto è
degno di nota, certo, e, talvolta, spunta qualche deja vù di troppo: ma alla
resa dei conti il bilancio è più che sufficiente.
VOTO: 6,5
Blackswan, venerdì 11/08/2016
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