Bobby Hecksher, deus ex machina degli
Warlocks, nasce in Florida e prestissimo si stabilisce con la famiglia a Los
Angeles dove viene su a pane e R’n’R (nonno proprietario di una radio e mamma DJ).
Oggi, passata la quarantina, è uno dei musicisti più stimati della sua
generazione e, stando al pressbook che accompagna l’uscita di questo nuovo
album, ha i cassetti di casa strapieni di roba inedita: Songs From The Pale Eclipse raccoglie 10 di queste canzoni
ritrovate. Vecchie demo, scarti, minutaglia per completisti? Non è dato sapere.
Può essere, visto che la storia del Rock è piena di dischi del genere; tuttavia, l’operazione va
comunque salutata con interesse e con tutto il rispetto che merita un musicista
minuzioso che ha fatto della coerenza il suo credo artistico. Altri al suo
posto, superati i tre lustri di attività e in mancanza di nuovo materiale,
sarebbero usciti con un Greatest Hits oppure un Live che probabilmente avrebbero
garantito dei numeri migliori in prospettiva commerciale. Ma, per sua stessa
ammissione, Hecksher è un uomo semplice dallo stile di vita che si può
soddisfare senza grandi ricchezze: caffè, belle ragazze, chitarre, corse di
cavalli, sigarette, junk food, buona musica e brutti film. Piccole manie che
delineano il carattere di un personaggio umanissimo e fuori dai cliché
dell’industria musicale dominante.
La vicenda artistica di Bobby
Hecksher prende il via negli anni ’90 quando fonda un paio di band, i Charles
Brown Superstar e i Magic Pacer, con le quali incide una manciata di album. Nel
frattempo, intraprende collaborazioni di prestigio con Beck (Stereopathetic Soulmanure) e i Brian Jonestown Massacre
dell’amico Anton Newcombe, uno spirito affine che verrà più volte in suo aiuto
negli anni a venire. Alla fine del decennio, la svolta: assembla un combo di
otto elementi (quattro dei quali solo alle chitarre!) e vara la comune Warlocks
(stesso monicker delle prime incarnazioni di Velvet Underground e Grateful
Dead). Shoegaze e Psych gli ingredienti principali, Garage Rock q. b., una ricetta
intrigante che ha visto cimentarsi decina di nuove band in quel periodo (vedi
soprattutto i newyorchesi Black Rebel Motorcycle Club) e che gli Warlocks ripropongono
con trame sonore straordinariamente fascinose e avvolgenti. E’ Greg Shaw,
l’indimenticato boss della Bomp Records, a produrre nel 2000 l’omonimo Ep di
debutto ma il botto vero lo fanno con Rise
And Fall (2001) e The Phoenix Album
(2002), due opere imprescindibili del primo decennio del nuovo secolo per
chiunque abbia in gran conto gli album di My Bloody Valentine, Loop e Jesus
& Mary Chain nella propria collezione. Dentro
troverete pezzi strepitosi di rara tensione creativa come Cocaine Blues, Whips Of Mercy,
Shake The Dope Out, The Dope Feels Good, Baby Blue.
Sequenza abbacinante da mandare a
memoria e che solo una grande band può mettere insieme. Da allora, tra continui
cambi di formazione e di etichetta discografica (circostanze che non gli hanno
certo aiutati a scalare le classifiche), gli Warlocks si sono ritagliati un
posto importante tra le cult-band degne di tale nome. Surgery esce nel 2005 e segna la fine di quel periodo esaltante, un
lavoro interessante a cui mancano però le vette toccate nei due dischi
precedenti. La successiva trilogia contraddistingue gli anni della maturità
artistica e un sostanziale cambio di registro. Heavy Deady Skull Lover (2007), The
Mirror Explodes (2009) e Skull
Workship (2013), sono album divisivi: la critica più colta ed esigente
esulta, i fan della prima ora mica tanto. Le innumerevoli litanie lisergiche e
qualche ombra Prog, che s’allunga con il ripetersi degli esperimenti Kraut e
Space, inficiano l’appeal, quasi Pop, degli esordi. Brillantissima routine, non
c’è dubbio, una Jam-Band con i controcazzi, però qualcosa non funziona più. Insomma,
s’è capito, la solita vecchia storia se sia meglio un disco suonato alla grande
o un disco pieno di grandi canzoni.
Songs From The Pale
Eclipse arriva oggi
alla fine di questo percorso e, spiace dirlo, non aggiunge molto all’epopea
degli Warlocks. E’ un disco frammentario a tratti monocorde e stancante per
quanto impreziosito da ottimi episodi come le ipnotiche Lonesome Bulldog e We Took
All The Acid, ma va archiviato nella cartelletta dei dischi interlocutori
(si dice così quando un disco di una delle nostre band preferite ci piace di
meno?) con la speranza che Hecksher e compagnia cangiante (5,6,7 chitarristi,
fai tu Bobby!) tornino presto con un nuovo lavoro che possa mettere d’accordo
testa e cuore dei tanti dediti al culto degli Stregoni di Los Angeles.
Voto: 6.5
Porter Stout, venerdì 09/09/2016
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