Anche per il quarantaduenne John Dwyer il tempo passa
velocemente, giovane speranza nel 2003 con gli OCS, oggi è uno dei protagonisti
più influenti e rispettati del nuovo Rock americano. Frenetico, inesauribile, carismatico
cantante e polistrumentista (una decina le band fondate, almeno il doppio gli
album realizzati), compositore e produttore in proprio e per altri con la Castle
Face, l’etichetta discografica da lui fondata nel 2006 diventata negli anni un
riferimento per tutta la riemergente scena Garage californiana, in catalogo
nomi come Warm Soda, Kelley Stoltz e White Fence. Lo stesso Ty Segall deve i
suoi esordi al Dwyer produttore, da tempo si vocifera di una possibile
collaborazione tra i due, l’amicizia è di lunga data ed è oltremodo impossibile
perdere le loro tracce, visto e considerato che per entrambi il minimo
sindacale equivale alla realizzazione di almeno un paio di album all’anno. Staremo
a vedere.
I Thee Oh Sees sono in ogni caso il progetto più
rilevante per Dwyer e, dal 2008, anno del loro primo e magnifico album The Master's Bedroom Is Worth Spending a
Night In, non perdono un colpo, o meglio, non perdevano un colpo perché ora,
a distanza di pochi mesi dal deludente A
Weird Exits, raddoppiano con An Odd
Entrances, una sorta di Vol.2 che sottolinea, se ce n’è fosse bisogno, il
cambio di direzione musicale che nelle ultime uscite va sempre più delineandosi.
Ci riferiamo all’inesorabile allontanamento dalle sonorità urticanti e
ubriacanti del Garage/Punk che hanno fatto della band di San Francisco una
delle realtà più interessanti del nuovo millennio. Un’abiura bella e buona, probabilmente
utile ad assecondare un legittimo proposito di crescita artistica attraverso la
ricerca di una fantomatica pienezza psichedelica, che si concretizza, nei fatti,
in pasticciate, estenuanti, soporifere liturgie lisergiche: quanto di più
lontano dai Thee Oh Sees diretti e senza fronzoli di Castlemania o Putrifiers II.
Spiace dover affermare che si esce disorientati dall’ascolto del malriuscito concept Exits/Entrances, soprattutto
dall’ultimo dei due album, un’inutile e ridondante corollario Kraut/Prog
lontano anni luce dall’estetica punkettara dei Sees. Come spiegare altrimenti
pezzi davvero insostenibili come The Axis,
Nervous Tech (Nah John), oppure l’interminabile
Crawl Out From The Fall Out? Un po’ come è successo ad inizio anno
con i Black Mountain e in quello scorso con i Tame Impala (con questi ultimi condividono
lo stesso grafico: orribili le copertine), altra band entusiasmante agli esordi
e passibile di denuncie per la loro ultima impresa, il modaiolo e inascoltabile
Currents. Comunque, vogliamo troppo
bene alla band di John Dwyer per non accennare agli episodi da salvare, vedi le
belle Dead Man's Gun e Gelatinous Cube che rimandano a Nonagon Infinity dei compagni di
scuderia King Gizard & Lizard Wizard e l’eterea At the End, On the Stairs una perla Psych/Folk da preservare per un
prossimo Greatest Hits.
In conclusione, speriamo sia solo il passaggio a vuoto di
una band importante alla ricerca di nuove sensazioni musicali e stimoli
artistici. Dio non voglia che volessero invece ingraziarsi le frange, sempre
più fitte, di pubblico e addetti ai lavori pronti a sdilinquirsi ogni qualvolta
si faccia un solo riferimento al circo messo su da quei gruppi che nella prima
metà degli anni ’70, immemori della forza primigenia, selvaggia, rivoluzionaria
del Blues e del Rock’n’Roll, si resero ridicoli col dispendio di orchestre
sinfoniche, flauti, arpe, organi a canne, gnomi e compagnie (degli anelli)
cantando. Ci pensò il Punk a dar fuoco ai mantelli dei tastieristi impazziti e
i Thee Oh Sees questo lo sanno bene.
VOTO: 5,5 - 4
Porteer Stout, venerdì 25/11/2016
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