C’è qualcosa
che non ha funzionato nella parabola artistica di Macy Gray, un’anomalia di
funzionamento in una macchina apparentemente rodata e pronta a far sfracelli.
Era il 1999, infatti, quando On How Life Is e i sette milioni di copie vendute
(trainate dal singolo I Try) facevano della Gray la stella nascente del
movimento nu-soul. Ma fu un unicum, un exploit estemporaneo che si afflosciò
fin dal successivo The Id (2001), nonostante l’album prevedesse la presenza di
ospitate importanti, da Erykha Badu a John Frusciante. Il successo della
cantante originaria dell’Ohio si rintuzzò così di disco in disco, malgrado una
proposta mainstream in bilico fra pop e soul, ma sempre di un livello qualitativo
superiore alla media. Oggi, Macy Gray imbocca una strada diversa, accantona
ogni tentativo di scalare le classifiche e di rinverdire il fasti di quindici
anni fa, e torna all’amore di sempre, quel jazz di cui ha spesso parlato come
elemento formativo della propria caratura professionale, citando, guarda caso,
Billie Holiday come modello da imitare. Questo nuovo full lenght nasce quindi
dall’esigenza di riappropriarsi di un’identità, se non proprio commerciale,
quanto meno artistica, come se la Gray volesse dimostrare che al di là del
cospicuo, ma effimero, successo degli esordi, ciò che conta davvero è l’estro
creativo, la capacità, cioè, di giocare con il pop e il soul, ma anche quella
di calarsi, poi, con efficacia, nei panni di raffinata musicista jazz. In tal
senso, Stripped centra il bersaglio, offrendoci una scaletta di livello, in cui
la cantante rivisita alcune hit del passato, ripropone canzoni altrui e si
misura con materiale originale scritto per l’occasione. Registrato in due
giorni all’interno di una chiesa sconsacrata di Broooklyn, il disco vede la
collaborazione di un quartetto jazz di tutto rispetto, che schiera Ari Hoening
alla batteria, Daryl Johns al basso, Russell Malone alla chitarra e Wallace
Roney alla tromba. Quattro musicisti, la cui performance vellutata, tutta
spazzole, punta di plettro, morbide rilegature pianistiche e sinuosi assoli,
asseconda meravigliosamente la voce della Gray, all’apparenza flebile e aspra,
ma ricca di misurato pathos. Piacciono, e molto, i nuovi brani (su tutti
l’iniziale Annabelle), ma di sicuro l’elemento di maggior interesse del disco è
la reinterpretazione jazzy di alcune canzoni del passato, come la celeberrima I
Try (che anche in questa veste si presenta bellissima) e la struggente The
First Time, forse la vetta qualitativa del disco. Non mancano, come si diceva,
anche delle cover: Redemption Song di Bob Marley, eseguita con il pilota
automatico, e l’inusuale Nothing Else Matters dei Metallica, già presente in
Covered del 2012 e oggetto di una rilettura che lascia piacevolmente stupiti.
Un ritorno alle radici della musica nera, dunque, per un disco intenso e
ottimamente suonato, che il pubblico ha voluto premiare, restituendo alla Gray
la vetta delle classifiche: non quelle pop di qualche anno fa, ma la terza
piazza della Billboard Jazz Albums. Un ottimo risultato che forse segna
l’abbrivio di un nuovo percorso artistico.
VOTO: 7
Blackswan, giovedì 08/12/2016
1 commento:
Posta un commento