Dal blues al blues,
passando attraverso la leggenda L’ultimo, probabile, capitolo della vita
artistica degli Stones è un ritorno alle origini, a quei primi anni ’60, quando
Mick Jagger, Keith Richards e Brian Jones, nemmeno ventenni, se la godevano a
Chelsea, tra sbronze, parties e ascolti decisivi, senza nemmeno immaginare cosa
sarebbe stato il futuro. Il cerchio si chiude, non solo perché gli Stones
tornano là dove tutto ebbe inizio; Blue & Lonesome è anche una sorta di
restitutio ad integrum, un ritorno alla madre terra, come se, dopo
cinquant’anni di gloria avessero bisogno di ricondurre il rock che li ha resi
leggenda nell’alveo blues che lo generò e che ne è il legittimo proprietario.
Una cerimonia che li vede per l’ultima volta protagonisti, il cui climax, reso
ancora più enfatico dai gesti rituali di una chitarra slide e di un’armonica, è
la riconsegna di un suono a coloro che ne sono stati i padri putativi. Un suono
che il tempo non ha sbiadito né annacquato, ma che è stato invece metabolizzato
al punto che, se non ci fosse una linea di sangue ben precisa a marcare la
discendenza, ora si potrebbe trattare gli Stones alla stregua di padri
costituenti. Perché questo suono, che arriva da lontano e che aveva le sue
radici a Chicago o nel profondo Sud, oggi ha trovato la sua immanenza in Blue &
Lonesome: è ora, è per sempre, è qui per restare, come pietra miliare per tutte
quelle future generazioni che cercheranno ispirazione per dare un futuro alle
dodici battute. Le pietre hanno smesso di rotolare e si sono fermate, ergendo
un monumento al genere: non un mausoleo di sepoltura, ma una Mecca verso cui
girare lo sguardo, per riscoprire spiritualità, passione e radici. La band che
tutti, anche il fans più viscerale, davano bollita da tempo e tenuta in piedi
solo dal rituale magniloquente di concerti che, in limine vitae, apparivano
tutti imperdibili, torna con un canto del cigno che avrebbe fatto invidia a
Checov: gli Stones nel ruolo che fu di Svetlovidov, Willie Dixon, Howlin’ Wolf,
Little Walter, Otis Rush e Magic Sam a recitare la parte che fu di Nikita
Ivanyč. Non c’è però nostalgia né rimpianto: ci sono quattro “ragazzi” che non
subiscono le angherie del tempo che passa, ma lo dominano, facendo
dell’esperienza virtù e di un’antica passione energia vitale. Basta ascoltare
una volta sola Blue & Lonesome per rendersi conto di cosa sta andando in
scena: l’interplay fra le chitarre di Keith Richards e Ron Wood, i cui graffi
lasciano cicatrici indelebili, la voce potente di Jagger e la sua armonica
bollente e insaziabile, le rullate simbolo di un ineffabile Charlie Watts, il
cameo di Sua Maestà Eric Clapton, che in Everybody Knows About My Good Thing
viene a rendere omaggio agli dei e a certificare più di cinquant’anni di
storia. E’ il passato che diventa presente, e che delinea coordinate precise
per il futuro. Godetevi, allora, senza pregiudizi, queste dodici cover che arrivano
direttamente da quel periodo lontano in cui Jagger e Richards erano solo dei
ragazzi affamati di vita e ancora non sapevano che a quei dischi, ascoltati
durante i pomeriggi oziosi nel loro appartamento di Chelsea, avrebbero dovuto
tutto. Oggi, possiamo dire che queste canzoni sono diventate, a buon diritto,
canzoni degli Stones. Non è solo una questione di usucapione, per quanto
legittima, ma è un vincolo che ha a che vedere col sangue. Blue & Lonesome,
dunque, è un disco straordinariamente bello, perché inaspettato e definitivo.
E’ il blues che ritorna al blues, attraverso la leggenda. Attraverso il sangue.
E’ la fine di un’epoca e un nuovo inizio.
VOTO: 9
Blackswan, sabato 10/11/2016
1 commento:
caro Nick, condivido ogni singola parola della tua perfetta recensione. Come quando avevo 18 anni, ho atteso il 2 dicembre e sono corso al negozio di dischi per avere la mia copia, perchè agli Stones devo molto, ho tutta la discografia, sono capace di risuonare a memoria "Exile on Main Street" e mi hanno ritirato su in un momento complicato della mia vita. A 17 anni presi un treno all'insaputa dei miei genitori per andare a vederli (la lavata di capo successiva è ancora indelebile oggi). A parte questa premessa, questo disco è stupendo musicalmente e concettualmente. Non avrei potuto chiedere di più, se non avere tra le mani un disco degli Stones in cui riprendono il materiale dal quale sono partiti e che li ha ispirati. Inoltre, da musicista ho i brividi a pensare che hanno registrato tutto con i microfoni accesi, senza nessun overdub, e si sente, si sentono i riverberi delle chitarre, anche qualche godibilissimo errore, se me lo permetti. Sono uscite cose carine nel 2016, ma questa si aggiudica il Nobel Prize di un anno in cui, finalmente, il Nobel Prize per la letteratura è andato ad un menestrello. Ti abbraccio
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