La Casa Tonda è
un romanzo insolito, almeno per tutti coloro che non hanno mai affrontato la
prosa di Louise Erdrich. Insolito, in primo luogo, perché nonostante le
indicazioni fuorvianti della sinossi in quarta di copertina, siamo ben lontani
dal genere thriller, artatamente suggerito. La trama, semmai, parte da uno
spunto noir (la brutale aggressione subita dalla mamma del protagonista), che
serve a creare inquietudine, ma che in realtà svolge nello sviluppo del romanzo
un ruolo, tutto sommato, marginale. Insomma, mancano tutte quelle
caratteristiche che sono tipiche della narrazione gialla: ritmo incalzante,
colpi di scena, un’indagine da sviluppare e un assassino da scoprire. Insolito,
inoltre, perché l’azione si svolge in una riserva indiana del North Dakota e
vede per protagonista una comunità di nativi americani, caratteristica che
distingue quasi tutta la produzione letteraria della scrittrice originaria di
Little Falls e appartenente, per discendenza materna, alla tribù degli Ojibway.
E’ questo, quello che potremmo definire l’aspetto più suggestivo del romanzo,
dal momento che la Erdrich si abbandona a frequenti digressioni sulla cultura
indiana, le sue tradizioni, la sua mitologia e, soprattutto, sui complessi
rapporti fra la comunità autoctona e quella bianca, animata, nella maggior
parte dei casi, da un atavico razzismo. In questa cornice particolare, si
svolge la vicenda del tredicenne Joe, la cui vita familiare viene stravolta dalla
efferata violenza perpetrata nei confronti della madre: lo sgomento, il dolore
e la paura si fanno largo nel cuore dell’adolescente che, per la prima volta,
deve misurarsi col mondo degli adulti e con dinamiche finora sconosciute. In
tal senso, La Casa Tonda è soprattutto un romanzo di formazione, che sfiora per
contenuti e ambientazione (siamo nel cuore dell’America rurale) quella celebre
novella a firma Stephen King, dal titolo Il Corpo (poi, trasposta al cinema da
Rob Reiner col titolo di Stand By Me). Un percorso, quello intrapreso da Joe,
che lo porterà a riflettere sulla vita e la morte e sulla dicotomia fra bene e
male, due entità, queste, strettamente legate da un processo osmotico e
difficilmente scindibili. Un atto estremo e la mano crudele del fato segneranno
la conclusione di un viaggio (tanto fisico quanto interiore), il cui approdo
sarà una nuova dolente consapevolezza e la perdita dell’innocenza. Niente
thriller, dunque, ma un romanzo capace di carpire l’attenzione del lettore,
grazie a un intreccio sopraffino, a personaggi vividi (su tutti, la coppia di
zii, Whitey e Sonja) e a una prosa capace di sposare due diversi registri:
quello ironico e divertito che tratteggia la comunità di appartenenza di Joe, e
quello riflessivo e impietoso sulle incongruenze di un mondo che non trova pace
nemmeno in Dio.
Blackswan, martedì 21/03/2017
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