Undici dischi in undici
anni di carriera (tra album in studio e live), rappresentano il cospicuo
patrimonio che Drew Holcomb ha accumulato nel tempo. Un patrimonio di stima da
parte di più famosi colleghi (Ryan Adams, Susan Tedeschi, Lo Lobos), con cui il
songwriter originario di Memphis ha spesso condiviso il palco, ma soprattutto
un patrimonio di crescenti attenzioni da parte della stampa e del pubblico
americano. Una crescita costante, dunque, in termini di vendite e di recensioni
positive, che ha portato il suo Medicine, penultimo disco rilasciato nel 2015,
a scalare le charts statunitensi, aggiudicandosi la quarantasettesima piazza di
Billboard 200. Forte di una consolidata notorietà e di uno stile che nel corso
degli anni si è affinato sempre più, Holcomb si ripresenta sulle scene con
Souvenir, seguito ideale di Medicine, di cui perfeziona le sonorità,
aggiungendo un ulteriore tassello qualitativo a una discografia senza
sbavature. Voce profonda ed estremamente duttile, Drew Holcomb e i suoi
Neighbors (con il consueto aiuto di Joe Pisapia in fase di produzione e missaggio),
sfornano undici canzoni di americana dal retrogusto deliziosamente pop,
confezionando irresistibili melodie nell'elegante filigrana di arrangiamenti
che fanno di una misurata modernità il loro fiore all’occhiello. In scaletta
troverete tutti i riferimenti di genere, un’inclinazione naturale verso il
folk, qualche estemporanea incursione nel rock e un’attenzione artigianale al
cesello. Canzoni di facile ascolto, certo, ma la cui orecchiabilità risiede
nella purezza della melodia e non in artifici stilistici che strizzano l’occhio
al mainstream. Libero di muoversi seguendo solo le proprie intuizioni, Holcomb
sfodera un songwriting umorale, che gioca sui binomi appassionato e delicato,
dolce e amaro, intimista e estroverso, e che guarda al roots classico, senza
però sentire il desiderio di imitarlo. Non c’è un solo punto debole in
scaletta, bensì una varietà di ganci emozionali che non lasciano scampo: dal
fingerpicking meditabondo di Rowdy Heart, Broken Wing, al classicissimo opener
di The Morning Song, che non sfigurerebbe fra le cose migliori di Ryan Adams,
dal rock radiofonico di California, agli echi beatlesiani delle pianistiche
Sometimes e Black And Blue, fino al divertissement in punta di plettro di Mama’s
Sunshine, Daddy’s Rain, al retrogusto eighties della colloquiale New Year e al
delicato romanticismo di Postcards Memories. Chiude la semplice perfezione di
Wild World, pianoforte e chitarra acustica a racchiudere un messaggio d’amore e
di tolleranza, che guarda all’America odierna e agli effetti sociali del
trumpismo (Try a little tenderness, maybe
some benefit of the doubt, Another person point of view, try to listen and not
to shout). Parole di speranza, che chiosano con positività l’affascinante
viaggio nella poetica di Holcomb e che riportiamo a casa come un Souvenir da
regalare agli amici.
VOTO: 7,5
Blackswan, martedì 09/05/2017
1 commento:
finalmente una bella canzone
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