Quando ci si approccia ad un nuovo lavoro di Mark
Lanegan le aspettative sono sempre altissime. Personaggio di primissimo piano
del Rock d’autore degli ultimi decenni ha creato un vero e proprio culto intorno
alla sua figura. Anticipatore del Grunge nella seconda metà degli ‘80 con gli
Screaming Trees, gli album in solitaria negli anni 90 (tutti imperdibili), le
collaborazioni con il gotha del Alt/Rock negli anni zero (membro aggiunto nei
QOTSA per l’epocale Songs For The Deaf)
infine, l’attività più recente, dallo splendido Bubblegum (2004) in poi, accolta con giudizi altalenanti da critica
e pubblico. Le accuse più frequenti a proposito delle innumerevoli incursioni
in lavori altrui, una voce inimitabile, quasi un brand da offrire volta per
volta ad amici se non al miglior acquirente. D'altronde, chi non vorrebbe Mark
Lanegan tra le guest di un proprio album? Un po’ come Tom Waits ebbe a dire su
Chuck E. Weiss: uno capace di venderti il
culo di un topo come anello di fidanzamento. Quindi le ultime prove
solistiche, Blues Funeral (2012) e
sopratutto Phantom Radio (2014), malriuscita
giravolta stilistica, atta a modernizzare una discografia, un sound, una
sensibilità consolidate, della quale non si avvertiva granché bisogno.
Decisamente un brutto album: come se Nick Cave volesse trastullarsi col
peggiore Synth/Pop dei ‘90, come se i tipi del Jack Daniel’s si buttassero
sugli analcolici per incontrare il gusto degli astemi. Un passo falso che
comunque gli abbiamo già ampiamente perdonato (facile, basta mettere su The Winding Sheet o I’ll Take Care Of You e tutto torna a posto) e che può starci nella
sua lunga carriera in cui figurano più capolavori che incidenti di percorso.
Gargoyle,
14esimo full-lenght del rocker di Seattle (compresi gli album composti a
quattro mani con Isobel Campbell e Duke Garwood), ci ripropone un Lanegan in
buona forma, seppure irrisoluto nelle scelte. Sembra di assistere al lavoro di
transizione di un artista pieno di dubbi indeciso se trarre ispirazione dal
vecchio repertorio oppure insistere con i suoni sintetici delle produzioni più
recenti. Le dieci canzoni, nate con l’apporto alla scrittura del chitarrista Rob
Marshall degli Exit Calm e del polistrumentista Alain Johannes, consueto compagno
d’avventure nella Mark Lanegan Band, compongono tuttavia una scaletta agile e
di piacevole ascolto. Le sinuosità Electro/Dark di Death's Head Tattoo in apertura, il groove contemporaneo ed
irresistibile del singolo Beehive il
divertissement Cowpunk di Emperor (perfetta
per le prossime, se mai ci saranno, Desert
Sessions) reggono il confronto coi pezzi pregiati dei suoi album dal taglio
meno intimistico mentre, in Sister, Goodbye To Beauty e First Day Of Winte, il Nostro torna ad indossare i panni che più
gli si addicono del crooner maledetto dalle timbriche scure e profonde. Collaborano
in varie parti del disco Greg Dulli, Josh Homme, Shelley Brien e Duke Garwood. Come
dire, vecchi amici e debiti di riconoscenza.
VOTO: 7
Porter Stout, venerdì 05/05/2017
1 commento:
Non sono un fan assoluto di Mark Lanegan, però questo suo ultimo album continuo a suonarlo che è un piacere. Alcuni brani sono davvero notevoli.
Anche per me pollice all'insù!
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