La storia di
Mary Bragg è la storia di un’artista inquieta, di una donna che ha girato gli
States in lungo e in largo per trovare, finalmente, a Nashville, una casa dove
stabilizzare la propria creatività. Nata a Swainsboro (Georgia), nel profondo
Sud degli Stati Uniti, Mary è cresciuta in una famiglia numerosa (quattro fratelli
e ventun cugini, riportano le cronache), trovando poco spazio per dare voce
alle proprie velleità musicali. Un viaggio a New York, le ha cambiato la vita e
le prospettive, tanto che, finito il liceo, la giovane Bragg si è trasferita a
vivere nella Grande Mela, per fare un’esperienza di vita, quella che poi
confluirà nei testi delle canzoni di Lucky Strike, e per tentare di sfondare
nel mondo della musica, favorita dal rutilante panorama di una metropoli dalle mille
possibilità. New York, però, logora, soprattutto chi arriva dalla provincia:
così Mary, dopo aver registrato due dischi a Manatthan (Sugar del 2007 e Tatoos
& Bruises del 2011) ed aver tentato l’avventura californiana con The Edge
Of This Town (2015), è approdata a Nashville, città meno caotica ma comunque
fervida di suggestioni musicali. Qui, dove risiede dal 2014, è entrata subito
in sintonia con la comunità roots, conquistandosi la stima di molti musicisti
locali, che hanno dato poi un contributo decisivo alla stesura delle canzoni
che compongono questo nuovo full lenght. L’approccio di Mary al suo nuovo
lavoro è stato, a dir poco, minimal. Ha scelto un budget ridotto e uno studio
di registrazione di basso profilo, con impianti e microfoni vecchi, per rendere
più vero il suono, privandolo così di ogni inutile artificio. Si è fatta
affiancare alla consolle da Jim Reilly (membro fondatore dei New Dylans) e
scelto la strada, per quanto possibile, della presa diretta, registrando senza
filtri ed evitando invasivi rimaneggiamenti in fase di post produzione. Il
risultato sono dieci brani (scritte tutte in condominio con alcuni musicisti
della scena nashvilliana: Liz Longley, Becky Warren, etc,) che, come recita il
suo sito, “speaks to our common humanity with uncommon honesty”. Un pugno di
canzoni di americana in bilico fra rock e country, cantate col cuore in mano
dal limpido soprano della Bragg, capace di notevole estensione ma anche di
trasformarsi in un sussurrato refolo che scalda il cuore. Una musica, quella di
Mary, che gira dalle parti di Patty Griffin o, negli episodi più orecchiabili
(la title track è un gioiello di melodia), da quelle di Sheryl Crow:
accostamenti necessari a spiegare il mood, ma che non tolgono nulla a un
songwriting a tratti originale (la nebulosa southern dell’opener Bayou Lullaby)
e a un disco sincero e carico di emotività. Da provare.
VOTO: 7
Blackswan, sabato 27/05/2017
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