Senza dubbio una delle band più originali emerse, anche
se solo a livello di culto sotterraneo, nell’affollatissimo panorama inglese
dell’ultimo decennio, i Cubical hanno la caratteristica di eludere ogni comoda
definizione, semplificando: radici Blues e Garage/Punk, arricchimenti
stilistici che mutano di volta in volta, dal Soul al Funk, dal Country al Rock
d’autore. Formatisi a Liverpool sul finire degli anni zero, i Cubical
esordiscono nel 2009 con Come Sing These
Crippled Tunes poi, tra il 2011 e il 2012, danno alle stampe altri due
album, It Ain't Human e Arise Conglomerate: un pugno di album -
imperdibili per chi ama la mescolanza dei generi sopra elencati - con canzoni
potenti e super-abrasive ma anche capaci di richiamare atmosfere di sapore
epico grazie alla maestria nell’imbastire
riff memorabili e splendide melodie. Contaminazioni su più versanti quindi per
i Cubical e il loro ineffabile frontman, il cantante/chitarrista Dan Wilson, la
cui voce scartavetrata (da qualche parte tra Captain Beefheart e Tom Waits)
dona riconoscibilità immediata al gruppo.
Blood
Moon
colma un vuoto produttivo durato ben cinque anni (nel 2015 Wilson ha
approfittato della pausa per rilasciare il suo debutto solistico, All Love is Blind) riprendendo il filo
del discorso là dove s’era interrotto, il disco infatti si apre senza sorprese,
Blues sporchissimo e suggestioni assortite, come d’abitudine. Pensate ad una Murder Ballad di Nick Cave, mettetegli
intorno i Calexico di The Black Light,
ed ecco All Ain’t Well, pezzo carico
di umori sudisti così come chi è solito frequentare il deserto californiano piuttosto che gli attraversamenti pedonali di
Abbey Road.
Poi parte il singolo, I
Believe It When I Love You, una deflagrazione Garage/Funk da perdere la
testa, band a pieno regime supportata dai fiati degli specialisti Martin Smith
e Simon James (già all’opera con Gorky’s, Super Furry Animals e Coral), micidiale
il riff di Alex Gavaghan. Si prosegue con la title track, in cui sembra di
ascoltare le paranoie ritmiche che hanno reso grandi i Cake: chitarrine infiacchite
dall’arrivo del caldo estivo, refrain appiccicoso, Wilson che dà fondo al suo
campionario di asprezze vocali. In I Want
Money solo rimandi leggendari, Howlin’ Wolf, Tav Falco, Cramps, l’accolita
è chiamata a raccolta nel club più fuorimoda e sudicio della città, ideale
palcoscenico anche per presentare la prima ballata in scaletta, In Your
Eyes, pezzo dall’andamento indolente (la violoncellista Siofra Ward ci
mette del suo) che evoca l’eleganza imperfetta dei Tindersticks del First Album: completi sgualciti, fumo
dappertutto e fiumi di bourbon scadente. Siamo a metà disco e i brani ascoltati
valgono già l’acquisto, niente di nuovo con i Cubical, chi gli ha frequentati
in passato lo sa bene, con loro va sempre così, ogni album equivale ad un
greatest hits. La sesta attrazione del disco, Con Man 512, è un numero sixties-revival alla Fleshtones, inclusi i
coretti che incoraggiano il battimano di sostegno alla progressione ritmica di
Mark Perry (bt) e Craig Bell (bs), seguono il bluesaccio waitsiano In The Darkest Corners e l’altra ballata
del disco, Whilst Judas Sleeps: sette
minuti dall’incessante crescendo emozionale in cui la voce di Wilson assume
caratteristiche quasi umane in un tripudio di archi e finezze armoniche. Infine,
il Punk/Blues trascinante di Shipwrecked
737, chiusura full-band col botto, chi non ha ancora visto il fondo della
bottiglia può tentare di salire sui tavoli per unirsi alla standing ovation.
VOTO: 8,5
Porter Stout, venerdì 09/06/2017
1 commento:
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