I Wild Ponies, duo di stanza a Nashville, composto
dai coniugi Doug e Telisha Williams, hanno annunciato l’uscita del loro
nuovo disco. L’album, che sarà nei negozi il 25 agosto, si intitolerà
Galax, esattamente come la cittadina della
Virginia in cui i due sono cresciuti e dove possiedono una fattoria con
un piccolo studio di registrazione. Il duo ha appena pubblicato il
video di Hearts And Bones, primo singolo tratto dall’album. Il video è
stato girato in una calda serata estiva proprio
nella fattoria di famiglia. La canzone, morbidissima, è stata l’ultima
ad essere inserita in Galax ed è nata nel contesto intimo di una serata
illanguidita da vino, candele e un cielo incredibilmente stellato.
All’album hanno collaborato molti musicisti tra
cui Neilson Hubbard, Fats Kaplin, Will Kimbrough and Audrey Spillman.
Finita quella
che solitamente viene definita l’era Gabriel, i Genesis ripartono
ridimensionati nell’organico e con la barra del timone saldamente in mano a
Phil Collins. Il batterista, con la fuoriuscita dal gruppo della prima donna di
Bath, che gli imponeva regole ferree anche su come suonare la batteria, può
finalmente dar sfogo alle proprie velleità di cantante (già sperimentate in
rari episodi del passato: ad esempio in More Fool Me da Selling England By The
Pound) e, più avanti, di compositore, oltre che sbrigliare lo stile pirotecnico
che da quel momento contraddistinguerà il suo drumming all’interno del gruppo.
Se all’esordio del nuovo ciclo i Genesis non sembrano risentire della mancanza
del leader, pubblicando l’ottimo A Trick Of A Tail (1976), disco che equilibra
l’affabulante romanticismo del passato (Ripples, Entangled, Mad Man Moon) con
il piglio più marcatamente rock che aveva contraddistinto il precedente The
Lamb Lies Down On Broadway (Squonk, Robbery Assault & Battery), il
successivo Wind & Wuthering, uscito alla fine dello stesso anno, comincia a
mostrare i segni di un cedimento d’ispirazione. Attraversato, fin dalla bella
copertina di Colin Elgie, da un mood romantico e autunnale, il disco affianca
piccoli gioielli (Blood On The Rooftops, Afterglow), ad aperture decisamente
pop (Your Own Special Way) e a tentativi, per lo più frusti e privi di mordente
(One For The Wine, …In That Quiet Earth) di rinverdire i fasti di un rock
progressive ormai in balia della forza iconoclasta del nascente movimento punk.
Chiuse le registrazioni del disco, è Steve Hackett, stufo di avere un ruolo
marginale a livello compositivo, a mollare il colpo e a fare i bagagli. Esce così
un nuovo album dall’ironico titolo …And The There Were Three (…E alla fine
rimasero in tre), che vira decisamente verso il pop e una forma canzone più
convenzionale. Trainato da due singoli di successo (l’improbabile e stucchevole
calypso di Follow You, Follow Me e il romanticismo un po’ slavato della pur
dignitosa Many Too Many), l’album vende benissimo (soprattutto negli States) ma
segna un definitivo cambio di rotta della band, che comincia a intravvede il
successo planetario, ma anche una normalizzazione del songwriting, che si
allontana sempre più dalle asperità del lungo minutaggio e dalle strutture
complesse del progressive.
E’ il 1978 e la band, nonostante un ottimo riscontro
di vendite, sembra aver imboccato definitivamente la strada del declino artistico:
i vecchi fans, che si sentono traditi dalla svolta presa da Collins (è lui
l’eterno colpevole), iniziano a darsela a gambe levate, e la critica,
influenzata anche dal nascente movimento new wave e da un nuovo modo di
concepire la musica, non lesina critiche feroci a un gruppo che, viste le
ultime prove, appare evidentemente in debito d’ossigeno. Quando il 28 marzo del
1980 esce il nuovo Duke, in pochi si sarebbe aspettati un disco migliore del
suo predecessore. E invece Collins, Rutherford e Banks piazzano il colpo di
coda che non ti aspetti, un disco gagliardo e ispirato, equidistante da tutti
le opere che lo hanno preceduto ma anche da quelle che gli succederanno. I tre,
insomma, tornano ad avere le idee chiare e a trovare quell’ispirazione che sembrava
perduta. Non a caso, Tony Banks e Mike Rutherford hanno da poco pubblicato i
loro primi, convincenti, album solisti (rispettivamente intitolati A Curious
Feeling e Smallcreep’s Day), mentre Collins è alle prese con il fallimento del
suo primo matrimonio, che lo spinge, potere artistico del dolore, a scrivere
alcune delle sue migliori canzoni di sempre. Duke è una sorta di concept album
che suona decisamente più rock (il singolo Turn It On Again è il biglietto da
visita del disco), spigoloso in alcuni brani nei quali si tenta di ripensare al
consunto canovaccio prog, modernizzandone le sembianze (l’iniziale suite
spezzettata in Behind The Lines, Duchess e Guide Vocal e quella finale
suddivisa in Duke’s Travels e Duke’s End), più ammiccante in alcuni episodi a
firma Collins (le belle Misunderstanding e Please Don’t Ask), che indossano le
vesti di un elegante adult pop, attraverso il quale il cantante riflette sui
propri tormenti d’amore.
Il mercato viene aggredito con la già citata Turn It
On Again, uno spiazzante riff in 13/8 che spinge i Genesis nella top ten delle
classifiche inglesi e li conferma ai vertici di quelle statunitensi, laddove,
durante il periodo Gabriel, non avevano mai nemmeno pensato di potersi
avvicinare. Se da un lato, sarebbe ingeneroso un paragone fra Duke e il periodo
d’oro della band, è però di tutta evidenza che questo è probabilmente l’ultimo
album dei Genesis a meritare attenzione artistica. In primo luogo, infatti, è
apprezzabile il tentativo di guardare al presente e di evolvere il suono
mutuando anche strumenti morfologicamente agli antipodi con la storia della
band (la drum machine in Duchess, ad esempio, è l’antipasto elettronico di
quello che si sentirà massicciamente nei successivi Abacab e Genesis); e
inoltre, non mancano certo buone canzoni in senso assoluto, come l’iniziale e
festosa Behind The Lines, arrotondata affermazione d’orgoglio di una band che
si sente viva e vegeta, o certi acquarelli pianistici di Banks (la sonnacchiosa
Heathaze, la breve e struggente Guide Vocal), nipotini rachitici della grandeur
malinconica di Firth Of Fifth. Per i fan della prima ora l’avventura dei
Genesis si conclude definitivamente qui. A prescindere, però, dai gusti
personali (da questo momento in poi il terzetto acquisirà stuoli di nuovi fans
e avrà un ritorno commerciale mai raggiunto prima), è fuori di dubbio che
l’influenza di Collins sarà determinante nel prosieguo della storia. Lanciato
in una clamorosa carriera solista (Face Value del 1981, Against All Odds del
1984 e, soprattutto, No Jacket Required del 1985), il cantante batterista
(l’ordine corretto ormai è questo) trasformerà i Genesis in una sorta di
personale side project, attraverso il quale testare in fotocopia le idee che lo
condurranno a vendere milioni di dischi. Da solo e con la band.
Quando nel 2013
uscì If You Wait, ricordo che per parecchio tempo non si fece altro che
parlare, in termini lusinghieri, dei London Grammar e del loro album d’esordio.
Tutti convinti, anche da un ritorno di vendite davvero importante, che la band
originaria di Nottigham avrebbe spaccato il mondo. Invece, niente. I tre
ragazzi sono spariti dalla circolazione, come se quell’improvviso successo
mediatico li riguardasse solo marginalmente. Sono passati quattro anni, in cui
probabilmente Hannah Reid e soci hanno cercato di capire cosa avrebbero voluto
fare da grandi, se continuare cioè sulla strada già intrapresa oppure giocare
un’altra mano al tavolo del successo con carte completamente diverse. Un
dilemma evidentemente non facile da risolvere, vista la lunga gestazione per
dare alle stampe il loro sophomore. Il nuovo Truth Is A Beautiful Thing, per
quanto frutto di un lungo ragionamento, non suona però molto diverso dal suo predecessore
e conferma pregi e difetti che avevano contraddistinto If You Wait. Inutile
girarci intorno: i Grammar London sono una band che si prende terribilmente sul
serio, incapace di tenere sotto controllo una congenita propensione al
melodramma e una mano un po’troppo ridondante quando si tratta di arrangiare.
Ed è altrettanto evidente, anche a un orecchio non particolarmente allenato,
che certe melodie sono figlie di deja vù riadattati per l’occasione (Big
Picture sembra la cover in chiave ambient pop di Where The Streets Have
No Name degli U2). A parte, però, queste considerazioni da addetti ai
lavori, è indubbio che Truth Is A Beautiful Thing, pur non avendo singoli
spacca-classifica, funzioni bene dalla prima all’ultima canzone. Non certo una
musica per allegroni, quella proposta dai London Grammar, ma un pop soul che
punta dritto al crepuscolo, attraverso le movenze quasi cinematografiche di
canzoni strutturate sull’emozionante voce da contralto, questa si
straordinaria, della leader Hannah Reid. Così, è davvero difficile restare
indifferenti a piccoli gioielli come Oh Woman Oh Man, Non Believer
e Rooting For You, tutte canzoni che un cuore votato alla malinconia
farà fatica a rimuovere dal proprio iPod. Niente di nuovo sul fronte
occidentale, dunque, ma un disco ben calibrato, che non svende l’intelligenza
compositiva a esigenze di classifica e che conferma i London Grammar come una
band che, pur non rischiando nulla, sa maneggiare la materia pop con
invidiabile classe.
La suggestione
è di quelle che non può lasciare indifferenti: due sorelle, gemelle, bionde e
bellissime, che imbracciano la chitarra elettrica e si dedicano anima e corpo
al sacro verbo del southern rock. Roba da perderci il sonno. Le due ragazze in
questione arrivano da Atlanta, Georgia, e, pur essendo del tutto simili da un
punto di vista fisico, hanno avuto un approccio del tutto diverso al mondo
della musica. Haley, che delle due è la cantante, fin da ragazzina è stata
travolta dalla grande passione per il rock, che la spinta a prendere lezioni di
canto, a partecipare alle selezioni per American Idol e a esibirsi ovunque ve
ne fosse la possibilità. Alexis, che invece suona la chitarra, ha iniziato a
suonare più tardi, dopo essersi dedicata allo sport agonistico (pallavolo e
basket). Alla fine, ha deciso di mollare tutto, seguendo le orme della sorella
e fondando la loro attuale band che vede nella line up Chris Love alla
batteria, Tom Waite alla chitarra e Dennis Stevenson al basso. All In, prodotto
da Lee Davis e Mama “Jan” Smith, è l’esordio sulla lunga distanza (nel 2014 era
uscito un Ep con cinque brani) con cui le due sorelle si sono già fatte notare
dalla stampa locale (Jezebel Magazine, quest’anno, le ha indicate come il
meglio in circolazione in città). Il disco, a essere sinceri, è molto meno rock
di quanto ci si aspettasse: le undici canzoni in scaletta, infatti, pur
mettendo in evidenza una buona grinta e utilizzando arrangiamenti che pongono
le chitarre in primo piano, hanno un appeal decisamente radiofonico e virano
spesso e volentieri verso melodie di facilissima presa. Il risultato è buono
solo a metà: il materiale è ovvio e un po’ consunto e talvolta il songwriting è
al minimo sindacale di creatività (I’ll Find You e It Hurts, ad esempio, sono
risapute e fin troppo stucchevoli nello scontato impianto melodico). Le cose,
invece, funzionano molto bene nella tripletta iniziale (Heartbeat, Kisses Never
Lie e Firestorm) e nella conclusiva Rain (You Won’t Get To Me) nelle quali un
mix equilibrato fra rock e pop, fra chitarre elettriche e melodia, mette in
luce le buone potenzialità delle due sorelle che, pur muovendosi a una certa distanza
dalle proprie radici sudiste, dimostrano di saper maneggiare egregiamente
sonorità più mainstream.