Chris
Hillman non è solo un grande artista, ma è soprattutto un pezzo di
storia del rock a stelle e strisce. La militanza nei Byrds e nei Flying
Burrito Brothers, poi quella a capo della Desert Rose Band e i dischi
suonati con gli amici di sempre, Roger Mc Guinn e Gene Clark, sono tutte
pagine imprescindibili per coloro che vogliono comprendere, o
semplicemente amano, la musica americana. Una carriera straordinaria,
continuata anche in solitaria, con album centellinati nel tempo, magari
non tutti bellissimi, ma comunque sempre degni nota. Erano dodici anni,
esattamente da The Other Side (2005), che Chris non entrava in studio
per registrare un nuovo full lenght, e l’attesa era tantissima,
soprattutto per capire quale fosse lo stato di forma e cosa avesse
ancora da dire un veterano, ormai arrivato alla veneranda età di
settantadue primavere. Coloro che, comprensibilmente, coltivavano
qualche dubbio sulla vitalità di Chris, troveranno modo di ricredersi
fin dal primo ascolto: Hillman sta bene, anzi benissimo, tanto che
Bidin’ My Time può essere considerato il suo miglior disco di sempre. La
voce, prima di tutto, è di una freschezza inaspettata, come se il tempo
si fosse dimenticato che quelle corde vocali sono gravate da più di
mezzo secolo di usura. E poi il suono, che è proprio quel suono,
byrdsiano fino al midollo, limpido, cristallino, solare. Anche perché,
Chris ha voluto al suo fianco i sodali dei giorni di gloria, Roger
McGuinn e David Crosby, che hanno costituito il nocciolo pensante di
quel jingle jangle reso immortale da dischi come Fifth Dimension (1966) e
Younger Than Yesterday (1967). C’è un altro aspetto, però, che fa di
questo disco una sorta di instant classic, qualcosa di cui ci
ricorderemo con nostalgia anche negli anni a venire: a produrre c’è Tom
Petty (e in studio anche gli Heartbreakers: Mike Campbell, Benmont Tench
e Steve Ferrone), che nelle dodici canzoni in scaletta ha lasciato una
delle ultime tracce del suo passaggio su questa terra, chiudendo così il
cerchio di una carriera che proprio il suono dei Byrds aveva
contribuito a ispirare. Fatte queste premesse, che sono poi anche la
sostanza della musica contenuta in Bidin’ My Time, veniamo alle canzoni,
che Hillman ha scelto con cura, evitando ogni ovvietà, e che la backing
band, di cui abbiamo appena raccontato, suona con artigianale maestria.
Brividi, quando il disco si apre con Bells Of Rhymney di Pete
Seeger, già reinterpretata dai Byrds su Mr Tambourine Man (1965), e qui
riproposta in una versione che non fa rimpiangere quella di
cinquant’anni fa (ottimo lavoro di Benmont Tench al pianoforte); e
brividi, quando il disco si chiude con Wildflowers, capolavoro
di Tom Petty, che Hillman rilegge meravigliosamente in chiave bluegrass,
accentuandone l’anima acustica e il mood bucolico. In mezzo a questi
due splendidi brani, un filotto di gioiellini, tra cui spiccano per
intensità il country della title track (a firma Hillman e Hill), una versione magistrale di She Don’t Care About Time dell’amico Gene Clark (gli echi byrdsiani si sprecano) e Restless,
nostalgico country rock, in cui sono Benmont Tench e Mike Campbell a
mettersi in bella evidenza. Un disco intenso ed emozionante, dunque, che
segna un insperato ritorno a livelli altissimi per Chris Hillman e che,
purtroppo, costituisce anche il malinconico commiato di Tom Petty. Che
la sua Wildflowers, poi, sia stata inconsapevolmente posta a
fine scaletta, suona proprio come un commosso addio, che sigilla un
grande disco e, forse, la fine di un’intera epopea.
VOTO: 8
blackswan, martedì 07/11/2017
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