Il
talento di Margo Price non si discute. Il suo Midwest Farmer’s
Daughter, uscito lo scorso anno, non era solo un esordio straordinario,
ma soprattutto un disco in cui la giovane cantautrice proveniente
dall’Illinois riscriveva, con entusiasmo e sincerità, le coordinate del
genere country; tanto che quell’arioso meltin’ pop di roots, rock e soul
si avvicinava parecchio all’idea di cosmic american music di parsoniana
memoria. Anche Weakness, Ep uscito durante l’estate di quest’anno,
confermava l’ottima impressione del primo disco, pur non apportando al
repertorio nessuna sostanziale novità. Le premesse, dunque, che All
American Made fosse un ennesimo, importante, capitolo in una storia
musicale breve, ma intensa, c’erano tutte. Invece, quella che appariva
un’ascesa senza ostacoli ha, purtroppo, subito una brusca frenata.
Questo sophomore non è un brutto disco, intendiamoci; tuttavia, rispetto
al suo predecessore, paga debito in fatto di originalità e di
freschezza. E come se la Price avesse preferito tirare il freno a mano e
arrestarsi in una sorta di “comfort zone”, in cui è la tradizione a
farla da padrona e gli azzardi vengono pressoché azzerati. Non è un
caso, allora, che la stampa americana stia letteralmente impazzendo per
questo secondo full lenght, riproponendo i consueti paragoni (forse
eccessivi, ma senz’altro coerenti) con le grandi voci del passato, che
portano il nome di Loretta Lynn e Dolly Parton. Alle nostre orecchie
europee, di sicuro meno abituate all’ortodossia country, All American
Made, pur apprezzabile nei suoi intenti di analisi politica (è,
ovviamente, Trump la fonte di ispirazione al negativo), suona abbastanza
scontato e privo di quel mordente che ci saremmo aspettati. Tutto,
infatti, suona prevedibile e perfettamente in linea con i codici
estetici che regolano il genere: produzione classica, arrangiamenti
rigorosi, band tecnicamente inappuntabile e la voce di Margo, questa si,
davvero notevole, a evocare scenari che hanno lontanissime origini. Non
sfugge, però, la sensazione di essere di fronte ad un’artista che
vorrebbe uscire dagli steccati di genere ma che preferisce adattare il
suo songwiting, potenzialmente esplosivo, a un contesto dove prevale,
invece, la calligrafia. Così, ad esempio, Pay Gap, che riflette
con acume sulle differenze fra uomo e donna nella società odierna, è
una straordinaria fotocopia di quello che Patsy Cline cantava qualche
decennio fa: non c’è una sbavatura, la scrittura è pulitissima, ma manca
quel quid ruspante che ci fa battere il cuore per l’emozione. Anche Learning To Loose,
duetto con il grande Willie Nelson, pur essendo una gran bella canzone,
resta imbrigliata nel clichè stereotipato dell’interplay fra soprano e
baritono. Meglio, allora, la conclusiva title track, dolente
ballata di americana in purezza, in cui la Price riflette sulla deriva
etica del proprio paese, sovrapponendo la musica al campionamento delle
voci di alcuni dei protagonisti della scena politica americana (Nixon,
Trump, Clinton, etc). La miglior canzone di una scaletta dal suono
classicamente nashvilliano, coraggiosa nell’affrontare senza filtri
scottanti temi politici, ma priva nella sostanza di quegli high lights
che ci avevano fatto amare visceralmente Midwest Farmer’s Duaghter.
VOTO: 6,5
Blackswa, domenica 05/11/2017
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