Dietro
il progetto musicale White Buffalo si cela l’irsuto Jake Smith,
songwriter originario dell’Oregon e uno fra i più interessanti artisti
della sua generazione. Il nome del gruppo, che rimanda al bisonte
bianco, animale sacro per i nativi americani, esplicita in modo chiaro
che la musica di Smith trova radici profonde nel tipico suono americano,
rivisitato attraverso una sapiente mescolanza di country, blues e rock.
In circolazione dal 2002, tre Ep e cinque album in studio già
all’attivo, i White Buffalo hanno acquisito in patria una certa
notorietà, non solo per gli innumerevoli concerti che li hanno portati
in ogni angolo degli Stati Uniti, ma anche perché alcuni loro brani sono
finiti nella colonna sonora della seguitissima serie televisiva, Sons
Of Anarchy. Giunto nel pieno della maturità artistica, Smith ha ormai
perfezionato un suono e un linguaggio, in cui la ruggine americana che
ossida le sue storie di vite ai margini, di amori finiti, di perdizione e
riscatto, trova forza espressiva in un mood altalenante fra barbagli di
speranza e crepuscolari malinconie, tra sciabolate elettriche ed
evocative ballate col cuore in mano. Se Shadows, Greys And Evil Ways
(2013) si muoveva attraverso le cupe trame di un concept sul ritorno a
casa di un reduce di guerra e il successivo Love And The Death Of
Damnation (2015) suonava più vario ed equilibrato nell’alternarsi fra
chiaro e scuri, questo nuovo Darkest Dark, Lightest Light trova il punto
di fusione fra i due dischi citati, consolidando una scrittura senza
cedimenti e ribadendo quella sincerità di fondo che da sempre
contraddistingue i dischi del barbuto chitarrista. La cui voce, è questo
un altro elemento distintivo dei White Buffalo, possiede un timbro
profondo e “vedderiano”, che emerge soprattutto nelle splendide
ballate che punteggiano la scaletta. Momenti appassionati, acustici,
riflessivi che ricordano le grandi ballads portate al successo dai Pearl
Jam: il soliloquio bucolico di The Observatory, l’epica della
sconfitta, sussurrata in If I Lost My Eyes, la dolcezza sfumata negli
archi e nell’arpeggio di I Am The Moon sono esempi di una scrittura che
sa toccare le corde del cuore, mantenendo, però, dritta la barra delle
emozioni. A questi episodi, figli di un romanticismo dimesso e arreso,
fanno da contraltare canzoni sanguigne e potenti, che navigano fra le
limacciose acque del blues (Robbery), che viaggiano su decapottabili nel
cuore della notte, citando Tom Petty con retro gusto eighties (The
Heart And The Soul Of The Night), che vibrano sul filo dell’alta
tensione di un cow punk dal ghigno mefistofelico. Un disco dagli umori
altalenanti, convincente sia quanto pompa decibel e alza il livello di
drammaticità, sia quando si comprime nella distanza che separa la voce
di Smith dal suo cuore. Ispirato e coinvolgente.
VOTO: 7,5
Blackswan, venerdì 24/11/2017
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