Quando
nel 2013 uscì Wild Child, album d’esordio del chitarrista texano, in
molti, a proposito di Tyler Bryant, usarono l’appellativo di enfant prodige
della scena rock blues americana, e si sperticarono in elogi e paragoni
ingombranti con fuoriclasse della sei corde, che avevano già scritto
pagine importanti del genere. Il ragazzo, d’altra parte, aveva avuto
modo di condividere il palco con pezzi da novanta quali Eric Clapton,
B.B. King e Jeff Beck; e poi, c’era quel disco, primo sulla lunga
distanza, dopo un Ep pubblicato nel 2011, che deponeva a favore di un
radioso futuro. Wild Child, infatti, pur citando l’opera omnia che
costituiva il retroterra formativo del ragazzo (Aereosmith, Lynyrd
Skynyrd, Guns n’ Roses, Ac/Dc), assemblava un lotto di canzoni impetuoso
e brillante, suonato col ringhio sudato dei vent’anni. Tuttavia, a
parte l’inevitabile passatismo e qualche concessione al mainstream, in
alcune canzoni, oltre a un corposo bagaglio tecnico, si intravvedevano
doti compositive molto interessanti. Tanto che, veniva da pensare, il
ragazzo si farà, è solo questione di tempo. Oggi, di tempo ne è passato
parecchio, e dopo quattro anni, intervallati da un Ep uscito nel 2015
(The Wayside), Bryant si ripresenta nel medesimo punto in cui l’avevamo
lasciato. Questo sophomore, che porta il nome del chitarrista e della
band che lo accompagna (tra le cui fila milita Graham Whitford, figlio
di Brad, chitarrista degli Aerosmith), è, infatti, l’esatta fotocopia
del suo predecessore e ne replica pedissequamente i pregi e i difetti.
Da un lato, la band pare rodatissima e la chitarra di Tyler fa il suo
dovere, evitando di eccedere in virtuosismi; l’entusiasmo della
gioventù, poi, lo si coglie nella potenza di un suono diretto,
primordiale e senza fronzoli. Tuttavia, a livello compositivo, non c’è
proprio nulla che non si sia già sentito centinaia di volte: blues
elettrico, vampate hard, ammiccamenti al southern, qualche luccichio
sleaze e glam e, talvolta, una strizzatina d’occhio a quel sound
radiofonico, che è il combustibile indispensabile per viaggiare verso i
piani alti delle charts. Insomma, al disco manca quel briciolo di
originalità che consentirebbe a una band, altrimenti grintosa e
preparata, di fare il vero salto di qualità. In realtà, non c’è nulla
che non vada negli undici brani in scaletta, e alcuni episodi, come la
ballata psych rock di Magnetic Field o l’omaggio ai Guns contenuto in Weak And Weepin
sono numeri di grande effetto. Bryant, però, non è ancora riuscito a
crearsi uno stile, a innescare una visione, ad azzardare quello scarto
laterale che gli consentirebbe di smarcarsi dagli stereotipi di genere.
Il risultato è, quindi, un disco piacevole, senza infamia e senza lode.
Il ragazzo è giovane, però, e, forse, si farà.
VOTO: 6
Blackswan, giovedì 23/11/2017
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