Si
intitola “Lush” ed è l’album di esordio degli Snail Mail in uscita per
Matador Records il prossimo 8 giugno. Al centro del progetto Snail Mail
c’è Lindsey Jordan, una ragazza di 17 anni di Ellicott City, Maryland,
che con il suo songwriting di matrice indie-rock conferma che si può
iniziare ad essere validi artisti già dalle scuole superiori. “Lush” è
stato anticipato dal singolo “Pristine”, una scarna e graffiante ballata
di alternative rock ricca di pennate di chitarra nervose che racconta
di noia suburbana alternata ad amori non corrisposti. Il nuovo pezzo e
l’originale video che lo accompagna lasciano a intendere che l’album in
arrivo non passerà inosservato o, meglio, inascoltato.
Dopo tre anni di silenzio (il suo ultimo lavoro, Heavy Blues,
è datato 2015), Randy Bachman (The Guess Who, Brave Belt,
Bachman-Turner Overdrive) torna con un nuovo album. E stupisce, ma forse
nemmeno tantissimo, che si tratti di un disco tributo dedicato
all’amico George Harrison, che come il vecchio leone canadese,
quest’anno avrebbe compiuto settantacinque primavere.
L’amore
di Bachman per i Beatles è cosa nota e risale addirittura ai tempi
della British Invasion, quando, giovanissimo, il rocker canadese
assistette al passaggio dei Fab Four negli studi dell’Ed Sullivan Show.
Nel tempo, il quartetto di Liverpool è sempre stata fonte di
ispirazione, oggetto di un culto personale che Bachman ha coltivato
cimentandosi in svariate cover e suonando in Ringo Starr and His Third All Starr Band, Volume 1, terzo album dal vivo a firma Ringo Starr, pubblicato nel 1997.
Accompagnato
da quel gruppo di musicisti che ormai da lungo tempo formano la sua
backup band (il batterista Marc LaFrance, il bassista e tastierista Mick
Dalla-Vee, e il chitarrista Brent Knudsen), Bachman ha deciso di
entrare in studio di registrazione e di dare una struttura organica alla
sua passione per i Beatles e, nello specifico, a quella per il songbook
di George Harrison, affrontando con gusto personale un filotto di
canzoni a dir poco leggendarie.
Operazione
commendevole, per carità, e in un certo senso anche molto coraggiosa,
dal momento che alcune delle canzoni in scaletta sono autentici
gioielli, a metter mano ai quali si rischia la classica figuraccia.
Bachman, che non è certo uno sprovveduto, evita operazioni di copia –
incolla, e veste canzoni note con un abito del tutto nuovo, confezionato
dalla prestigiosa sartoria della casa, che prevede chitarre rombanti e
un approccio decisamente più rock rispetto agli originali.
Se
la mentalità con cui Randy, ancora grintosissimo nonostante la
veneranda età, affronta la leggenda di canzoni immortali è sicuramente
da apprezzare, lo è un po' meno il risultato finale. Think For Yourself (da Rubber Soul), irruvidita da un suono decisamente peso, ne esce dignitosamente, al pari di Handle With Care (The Traveling Wilburys), forse la più fedele all’originale, mentre la versione quasi hard rock di Don’t Bother Me (da With The Beatles) e quella grintosa di I Need You (da Help!) sono le cover più azzeccate del lotto.
Il resto, però, lascia molto a desiderare. While My Guitar Gently Weeps
è stravolta in chiave heavy blues, perdendo tutto il suo afflato
malinconico e salvandosi solo per un grandissimo assolo di Walter Trout,
ospite nel brano. Bachman, però, è riuscito a fare anche di peggio.
Ascoltare Here Come The Sun, letteralmente sfregiata da una
reinterpretazione in chiave reggae, è un colpo al cuore anche per il più
comprensivo e tollerante fra gli ascoltatori; e lo stesso dicasi per Something, privata di quella leggiadria melodica che l’ha resa uno dei gioielli più luminosi del songwriting harrisoniano.
Un
disco, dunque, non granché centrato, che piacerà poco ai fans di
Bachman e ancor meno a quelli dei Beatles. Non so se George avrebbe
apprezzato, ma francamente dubito. Di sicuro gli sarebbe piaciuta
l’unica canzone originale scritta da Randy, che apre e chiude il disco. Between Two Mountains, attraversata dallo stesso mood pacifista di My Sweet Lord,
riscrive in bella calligrafia i punti salienti dell’Harrison pensiero:
sitar, chitarra languidissima e una melodia irresistibile. Un po' poco
per aggiudicarsi la sufficienza.
Lo straordinario
momento di forma e di creatività che sta vivendo, verrà celebrato da
Beth Hart con un album dal vivo, intitolato Front And Center. Il disco
propone 15 brani (nella versione in dvd ci saranno anche tre bonus track
acustiche), registrati live la sera del 7 marzo 2017, presso l’Iridium
Jazz Club di New York. La scaletta dell’album, la cui uscita è prevista,
via Provogue Records/Mascot Label Group, per il 13 di aprile, conterrà
molte canzoni tratte dall’ultimo album in studio Fire On The Floor e
alcuni classici estrapolati dalla corposa discografia della cantante
losangelina.
A
volte, bisogna aver il coraggio di cambiare, di uscire da logiche
predeterminate, di sovvertire il corso degli eventi seguendo il proprio
istinto. Se non fosse così, Nathaniel Rateliff sarebbe ancora nel limbo
di quei musicisti, magari anche bravi, ma costretti al semi-anonimato di
una nicchia di fedeli appassionati.
Perché,
molte volte, non basta seguire, sic et simpliciter, le proprie
inclinazioni: il talento dev'essere indirizzato, occorre trovare il modo
per poterlo esprimere al meglio. Ratecliff è in attività dal 2007 e
agli albori della sua carriera aveva pubblicato tre dischi, muovendosi,
senza infamia e senza lode, nel circuito nu-folk. Era la sua passione e
evidentemente pensava di avere le carte in regola per sfondare. E
invece, picche.
Accortosi
che non avrebbe mai cavato un ragno dal buco, Nathaniel mette in piedi
una band di sette elementi, i Night Sweats, bussa alla porta della Stax e
propone un repertorio nuovo di zecca, soul e r'n'b che più vintage non
si può. L’esordio sotto questa nuova veste, Nathaniel Rateliff & The
Night Sweats (2015) si dimostra una vera sciccheria, e il pubblico si
accorge finalmente del songwriter di Saint Louis, grazie anche a un
singolo bomba, intitolato S.O.B. (Son Of a Bitch), che intasa i
passaggi radiofonici di mezzo mondo. Poi, un Ep, per battere il ferro
finché è ancora caldo, e un travolgente disco dal vivo, Live At Red
Rocks, pubblicato lo scorso anno, a coronamento di un successo che porta
il soul singer sulle copertine di quasi tutte le riviste specializzate.
Rateliff
torna adesso con il suo secondo album in studio, che, come si sa, è il
momento della verità, quello che dimostra se l’artista ha le capacità
per potersi riconfermare ad alti livelli, oppure è stato solo un fuoco
di paglia di cui, in breve tempo, nessuno si ricorderà più. Confermata
la produzione di Richard Swift e rimessi in pista i suoi Night Sweats,
band straordinaria nel cucire un abito sonoro perfetto intorno alla
verve compositiva del nostro eroe, Nathaniel sfodera nuovamente un lotto
di canzoni suntuoso, ispirate da quella black music targata Stax, forse
risaputa, ma capace, se adeguatamente manipolata, di produrre autentico
e spensierato divertimento.
Se
il fulcro dell’ispirazione di Rateliff è ancora una volta Otis Redding,
rispetto al primo disco, Tearing At The Seams introduce qualche leggera
differenza. A fronte di una maggior omogeneità compositiva, manca,
infatti, il singolo canaglia capace di aggredire da solo le charts (la
bella You Worry Me, per quanto ruffianella, ha un tiro
decisamente inferiore a quello di S.O.B.); il disco, poi, presenta
arrangiamenti più moderni e maturi, che stemperano l’approccio festaiolo
e ruspante degli esordi, che riaffiora a tratti solo in alcuni episodi,
peraltro riuscitissimi (Intro, Be There).
Una
scaletta, dunque, più ragionata, meno ad effetto (e meno ingenua), a
cui tuttavia non difettano grandi canzoni, a testimonianza che Rateliff è
cresciuto molto anche come songwriter. La ballata dagli echi dylaniani Hey Mama, il r’n’b quadrato dell’iniziale Shoe Boot, che scivola in una calda coda strumentale, gli echi clamorosamente sixties di Baby I Lost My Way o il beat pianistico di I’ll Be Damned,
tanto lineare quanto efficace, sono alcune degli episodi più riusciti
della carriera di Rateliff. Che si conferma, da un lato, musicista
verace, dall’altro, interprete capace di rivitalizzare un genere con
crescente consapevolezza e maturità.
Con l'accordo tra
Movimento 5 Stelle e centrodestra per l'elezione dei presidenti della Camera
(Roberto Fico) e del Senato (Maria Elisabetta Alberti Casellati), è andato in
scena il primo atto de " Il Grillusconi". Duole dirlo, ma le
malignità che aleggiano in casa del Pd non sono poi così infondate. "Tocca
a loro", ripete come un disco rotto Matteone, fresco di debutto a
Palazzo Madama. E loro, i pentastellati in primis, non se lo sono fatto
ripetere. Dismessi i panni dei puristi a oltranza e di quelli che "mai un
asse con Salvini", alla fine hanno dato prova di quanto non siano
"lontanissimi dal suo becero populismo" (Roberto Fico). Dunque, via
libera da Di Maio e soci alla candidatura di centrodestra di Maria
Elisabetta Alberti Casellati, dopo febbrili trattative notturne. Tutto è bene
quel che finisce bene e una fedelissima di Silvio si è aggiudicata la seconda
carica dello stato. Una vittoria "rosa" per i benpensanti, ma per
conto mio, una versione femminile di Paolo Romani senza condanna per peculato.
Ora, ci si interroga su chi abbia vinto e chi abbia perso questa prima
(obbrobriosa) tornata. Se Luigi Di Maio ha mostrato un profilo che più di
sistema di così non si può, i piccoli Salvini crescono. Matteo delle Felpe si
muove impettito con sicumera nei palazzi del potere. Si atteggia a Premier,
rovescia il tavolo delle trattative, sgambetta gli alleati, cannibalizza
Silvietto e quel che ancora resta di Forza Italia. Scaltro come una volpe,
l'azzardo di rompere (apparentemente) con l'ex Cavaliere gli frutta il ruolo di
assoluto protagonista di questo primo round post elettorale. Quanto a
Berlusconi, Lazzaro, a confronto, è un dilettante allo sbaraglio. Dopo la
spallata di Salvini, l'allarme rosso è rientrato in Forza Italia: al Senato
siede una dei "berluscones" e la luce fu. Per il Pd è l'ora più buia:
condannato all'irrilevanza politica, pare compiacersi dell'esilio con appagato
distacco. Fatti loro, il tempo è galantuomo. Resta da capire come giocherà
d'ora in avanti Luigi Di Maio. Se il buongiorno si vede dal mattino, cominciamo
ad aprire l'ombrello.
Cleopatra, lunedì 26/03/2018
P.S. Il Meglio del
Peggio va in vacanza. Appuntamento a presto
Si
intitolerà The Tree Of Forgiveness, la nuova fatica di John Prine, la
cui uscita è prevista per il 13 di aprile, via Oh Boy Records. Il disco è
stato registrato presso gli RCA Studios di Nashville e vedrà in cabina
di regia la presenza del Re Mida della canzone americana, Dave Cobb. Si
tratta della prima raccolta di inediti di Prine dai tempi di Fair &
Square, datato 2005. Come ospiti in studio, si segnala la presenza di
Brandi Carlile e Jason Isblell, mentre alcuni brani della scaletta sono
stati scritti dal songwriter dell’Illinois a quattro mani con Dan
Auerbach, Pat McLaughlin, Keith Sykes e Phil Spector. Il primo singolo
tratto dal nuovo lavoro si intitola Summer’s End, una struggente ballata
in perfetto stile Prine, che circola in rete già da qualche settimana.
Tra
dischi live, registrazioni in studio, bootleg ufficiali, compilation e
box set, la discografia postuma di Jimi Hendrix sembra non avere mai
fine. Both Sides Of The Sky è, infatti, l’ennesima pubblicazione (terza raccolta di materiale in studio in otto anni, dopo Valleys Of Neptune del 2010 e People, Hell and Angels
del 2013) curata dalla sorellastra del chitarrista Janie, a
dimostrazione che gli archivi del compianto musicista riservano (e
riserveranno?) ancora molte sorprese.
Le
domande che sorgono spontanee di fronte a operazioni di questo tipo,
sono sempre le stesse: questo materiale valeva la pena di essere
pubblicato? Vengono rispettate l’immagine e l’integrità artistica del
chitarrista? Si offre al pubblico un prodotto di un qualche interesse o
siamo di fronte solo al mero sfruttamento di un marchio?
A
onore del vero, bisogna dire che anche le precedenti uscite curate
dalla Experience Hendrix contenevano un repertorio di buona qualità, che
testimoniava, lungi dallo sciacallaggio fine a se stesso, l’incredibile
talento e la creatività di una delle figure rock più decisive e
influenti del secolo scorso.
Lo stesso di può dire per il nuovo Both Sides Of The Sky,
una raccolta che, se da un lato, non aggiunge nulla di nuovo a quanto
conosciamo sul massimo sistema hendrixiano, ha comunque il merito di
proporre alcune curiosità e di regalare qualche ottima canzone.
Il
disco contiene incisioni effettuate tra il gennaio del 1968 e il
febbraio del 1970, e registrate quasi interamente ai Record Plant di New
York, con il contributo dell’Experience (Noel Rending e Mitch Mitchell)
o della Band Of Gypsys (Billy Cox e Buddy Miles), e in qualche
occasione, con la partecipazione occasionale di amici di Hendrix, ben
disposti a duettare con l’estroso chitarrista e dar fuoco alla miccia
dell’improvvisazione.
Tra questi, Stephen Stills, che suona l’organo e canta su $20 Fine e su Woodstock,
leggendario pezzo di Joni Mitchell, ripreso anche dai CSN&Y, qui
riproposto in una versione suntuosa, un Johnny Winter in formissima, che
incrocia la propria sei corde con quella di Hendrix nel classico blues The Things That I Used To Do di Guitar Slim, e soprattutto il cantante e sassofonista Lonnie Youngblood che dà vita a un torrida versione di Georgia Blues, probabilmente il momento migliore della raccolta. Ottima la versione di Mannish Boy, curiosa la performance di Hendrix al sitar elettrico nelle nebbie psichedeliche di Cherokee Mist, interessante la riproposizione di Lover Man
(era già presente in Valleys Of Netptune), qui spedita come un treno in
corsa, grazie anche alla notevole prova di Billy Cox e Buddy Miles, che
assecondano, senza risparmiarsi, la velocità adrenalinica di Jimi.
Questo
il meglio di una raccolta che coglie Hendrix libero di provare,
sperimentare e divertirsi con gli amici, in un filotto di registrazioni
non certo decisive, ma comunque interessanti per delineare l’evoluzione
di un suono che, nonostante tutti i tentavi di emulazione, resta a
tutt’oggi incredibilmente unico. Se non siete particolarmente
interessati all’artista, questo disco non aggiungerà nulla a ciò che di
Hendrix è doveroso conoscere, mentre per tutti gli appassionati e i
completisti, Both Sides Of The Sky, vista la qualità della proposta,
rapresenta l’ennesimo tassello imperdibile di un puzzle sonoro che non
vorremmo avesse mai fine.
Se
siete puristi della musica dei The Cure questa notizia non fa per voi.
Se siete invece onnivori e acritici su tutto ciò che esce dalla
creatività di Robert Smth sarete lieti di sapere che la band degli ormai
ex ragazzi immaginari ha annunciato la ristampa in vinile di “Mixed
Up”, il doppio album uscito nel 1990 che, per alcune versioni sacrileghe
di brani considerati intoccabili contenute, ha avuto nel corso degli
anni più di un detrattore. In realtà, visto con gli occhi del 2018,
“Mixed Up” è un disco più che divertente e consente di ascoltare i The
Cure da un punto di vista inusuale. La
nuova release uscirà in occasione del Record Store Day 2018 e sarà
accompagnata da “Torn Down (Mixed Up Extra)”, una ulteriore compilation
di 16 nuovi remix di brani tratti dal loro repertorio. Entrambe le nuove
uscite saranno disponibili nei negozi di dischi che aderiscono all’iniziativa il prossimo 21 aprile.
Quella
di Karen Lee Batten è la classica storia di chi ha saputo sfruttare al
meglio tutte le occasioni che gli si sono presentate. Canadese,
originaria della British Columbia, la Batten ha partecipato nel 2003
alla prima stagione di Canadian Idol, reality show nazionale, ispirato
al britannico Pop Idol, piazzandosi nella top 11 del programma e
riscuotendo un discreto successo con la sua cover di Come Away With Me di Norah Jones. Una visibilità mediatica che le ha consentito di pubblicare due dischi (Every Moments del 2005 e Cause A Scene
del 2014), di piazzare in classifica un pugno di singoli e,
soprattutto, di aggiudicarsi quattro volte (2004, 2005, 2006, 2014) il British Columbia Country Music Association Awards, come miglior vocalist femminile dell’anno.
A
prescindere da ogni valutazione di merito sui precedenti lavori,
occorre precisare che quello della Batten è stato fino ad ora un
repertorio country di facile presa, che ha sempre strizzato l’occhio
alla melodia nashvilliana e a sonorità molto radio frendly. Stupisce,
dunque, questo Under The Covers In Muscle Shoals, che
rappresenta un significativo cambio di rotta e che possiede tutti i
crismi di quella che potremmo definire una raggiunta maturità artistica.
Un’opera ambiziosa e (apparentemente) rischiosa, che vede la songwriter
canadese alle prese con un repertorio di cover di brani che hanno avuto
la propria genesi proprio a Muscle Shoals (Alabama), un luogo in cui si
respira musica, non aria.
Prodotto
da Mitch Merrett e Michael Pyle e suonato con il contributo della band
di casa (chiamata affettuosamente The Swampers) il disco è stato
registrato per intero presso i Fame Studios, una sala di registrazione
in cui si respira la Storia con la S maiuscola, visto che da queste
parti sono passati personaggi del calibro di Aretha Franklin, Etta
James, Bob Dylan, Lynyrd Skynyrd e Otis Redding, solo per citare i primi
che vengono in mente. Non era, quindi, facile per l’ultima arrivata,
entrare in un vero e proprio mausoleo musicale e rileggere undici grandi
canzoni, restituendo all’ascolto quel suono unico, che tutti gli amanti
del rock a stelle e strisce hanno imparato ad amare ormai da tantissimo
tempo.
Se
la backup band (basso, batteria, piano, organo, chitarra e sezione
fiati) risulta affiatatissima e riproduce alla perfezione quella miscela
di rock, r’n’b, country, soul e gospel, che rappresenta il classico
sound Muscle Shoals, la Batten, da parte sua, ci mette straordinaria
umiltà, devozione filologica e, soprattutto, l’esuberante entusiasmo di
chi è riuscita finalmente a toccare con mano il mito di una vita. Era
rischioso, infatti, approcciarsi a un repertorio di canzoni che sono
entrate nella leggenda, evitando scivoloni e banali e prudenti
copia-incolla. Invece, Karen Lee, grazie anche a una voce duttilissima,
capace di accarezzare il cuore e di sfoderare, al contempo, tonnellate
di grinta, riesce nell’intento di vestire con la propria personalità
brani arcinoti, di cui, francamente, nessuno sentiva il bisogno
dell’ennesima rilettura. Un quid in più, che fa la differenza.
Basterebbe ascoltare la splendida cover di Sweet Home Alabama,
che da quelle parti suona come una sorta di inno nazionale, per
rendersi conto che, un arrangiamento inusuale e un’interpretazione
caldissima, possono dare un diverso volto, altrettanto affascinante, a
una canzone tanto famosa che la potrebbero cantare anche i sassi. Non è
però l’unico momento vincente di un disco che fila via dall’inizio alla
fine senza un benché minimo cedimento. Sono a dir poco spumeggianti,
infatti, le versioni di Land Of 1000 Dances, classicone reso celebre da Wilson Pickett, e di Hard To Handle, presa dal repertorio di Otis Redding, mentre le due cover di I’d Rather Go Blind di Etta James e I Never Loved A Man di Aretha Franklin tengono testa agli originali in virtù di una coinvolgente e appassionata interpretazione.
Tra i migliori momenti in scaletta, anche una suntuosa reinterpretazione di Let It Rain di Amanda Marshall (da brividi la performance vocale della Batten) e una travolgente Gotta Serve Somebody,
pescata da Slow Train Coming di Bob Dylan, a suggello di un disco che,
vista la materia trattata, poteva rivelarsi un clamoroso passo falso e
che, invece, suona pimpante come una scommessa vinta. Dedicato a Rick
Hall, produttore e proprietario dei Fame Studios, che ci ha lasciato lo
scorso 2 gennaio.
Uscirà
il prossimo 4 maggio “Music For Installations”, un’imponente raccolta
di brani di Brian Eno contenente diverse composizioni realizzate
dall’eclettico musicista britannico come sonorizzazione di mostre e
installazioni artistiche. Le tracce di cui si compone l’opera risultano
inedite o rare e sono state utilizzate dal 1986 ad oggi in location
quali la Biennale di Venezia, il Palazzo di Marmo di San Pietroburgo e
il Teatro dell’Opera di Sydney.
La
raccolta uscirà in tre versioni: un set standard, composto da 6 CD, e
una versione super-deluxe sia in CD che in vinile (composta da nove
ellepì). Tutti e tre i cofanetti comprenderanno un booklet di 64 pagine
con le fotografie delle opere di arte visiva presenti nelle mostre
originali, di cui la musica di Brian Eno ha costituito la colonna
sonora.
Marty
O’Reilly e la sua Old Soul Orchestra sono talmente bravi e questo disco
è talmente bello, che bisognerebbe decretarne l’ascolto per legge, urbi
et orbi. Invece, ci troviamo di fronte al classico artista di nicchia,
da noi, peraltro, praticamente sconosciuto, che in patria si sta
conquistando lentamente l’attenzione della critica, grazie alla qualità
della sua proposta.
La
verità è che Stereoscope (secondo disco in carriera, dopo l’ottimo
Preach ‘Em Now del 2015), è un disco tutt’altro che facile, che richiede
numerosi ascolti per riuscire ad assimilarlo in tutte le sue sfumature,
che sono poi quelle che, nello specifico, fanno la differenza. Il punto
di partenza è il roots, in un’accezione più propriamente folk. Chi
pensa, però, di trovarsi di fronte al classico disco dal suono
americano, rimarrà sconcertato fin dal primo ascolto.
In
tal senso, O’Reilly è forse più un artista dalla sensibilità europea, e
al linguaggio diretto e ruspante di tanti colleghi che si cimentano con
la stessa materia, preferisce eludere o suggestionare l’ascoltatore,
blandirlo attraverso trame musicali complesse e ardite, in cui nulla è
dato per scontato.
Stereoscope,
se mi si concede una metafora pittorica, è un grande trompe l’oil, che
trae l’orecchio in inganno, convincendo l’ascoltatore di trovarsi di
fronte a ben definite trame armoniche che, poi, dopo poco, evaporano,
confluendo in qualcosa di completamente diverso. Approcciarsi a questa
scaletta è, quindi, come addentrarsi in una selva lussureggiante, il cui
intrico è dato da imprevedibili arrangiamenti e da uno straniante
meltin’ pop di generi in cui confluiscono folk, blues, psichedelia, rock
e jazz in un’unica conturbante forza espressiva, che gli anglosassoni
chiamerebbero soulfulness.
Il
tutto è reso ancor più spiazzante dalla voce di O’Reilly, ora morbida,
ora arrochita e grintosa, e da un timbro che ricorda un Jeff Buckley che
preferisce volare radente il terreno invece che puntare dritto alle
stelle.
C’è
da dire che avere alle spalle un band come i The Old Soul Orchestra,
farebbe la differenza anche con un repertorio di canzoncine pop. Ad
accompagnare Marty (che oltre a cantare si cimenta con le chitarre:
resofonica, acustica, elettrica), ci sono, infatti, tre musicisti di
straordinaria caratura tecnica: Chris Lynch, che trafigge i brani con il
suo violino lancinante, Ben Berry, il cui contrabbasso crea
architetture puntute e penetranti, e soprattutto Matt Goff, batterista
dall’evidente dna jazz, che attraversa la scaletta con il suo drumming
sincopato e in controtempo, aprendo vertigini percussive da capogiro.
Se
la cifra estetica del disco è di qualità altissima, e l’inclinazione
naturale della band è quella di spingere verso l’improvvisazione
jammistica, non sono da meno le canzoni, tutte di ottima fattura, tutte
attraversate da uno stordente pathos. Non c’è un solo filler o un
momento che non valga la pena di essere ricordato, tanto che scegliere
un brano al posto di un altro, è come far torto a un’opera la cui forza
sta proprio nella sua visione olistica.
Tuttavia, per invogliare ulteriormente all’ascolto, si potrebbe citare l’iniziale Firmament,
la cui melodia scivola, come le dita di Marty sul manico della
chitarra, verso una coda strumentale funambolica, o i deragliamenti
strumentali dell’intricata e bellissima Hard Time Killing Floor, o, infine, Fish In A Rut,
saliscendi emozionale fra una trama ritmica ossuta e improvvise
esplosioni innescate dai tamburi in controtempo di Goff, mentre la voce
di Marty e una dolente melodia riportano in vita le suggestioni di
Grace.
E
potrei continuare per tutte le restanti otto canzoni, una più bella
dell’altra, ma mi fermo qui. Perché, come dicevo, il valore del disco
vive nella sua unitarietà, e l’ascolto non può essere in alcun modo
frazionato. Qualora, dunque, vi decideste all’acquisto dell’album,
mettetevi comodi e ascoltate Stereoscope dall’inizio alla fine, più
volte, fino a quando ogni singola nota avrà svelato lo splendore di
questa musica che è tutto e il suo contrario, che è free e post, e che,
sostanzialmente, risulta inafferrabile, almeno fino a quando non farà
parte di voi.
Courtney Barnett ha pubblicato due giorni fa
“Need A Little Time”, il secondo singolo tratto dall’atteso nuovo album Tell Me How You Really Feel. “Need A Little Time”
è sicuramente uno dei brani più belli di
Courtney Barnett, caratterizzato da strutture maestose e dinamiche.
Il punk rock del
primo singolo “Nameless, Faceless” può essere considerato un
avvertimento. Il brano più esplicitamente politico della Barnett
ribolliva di indignazione e rabbia, ma ha mostrato solo un pizzico
di ciò che sarà questo secondo full length album.
“Need A Little Time”
è una dichiarazione di tipo diverso. La sua bellezza straordinaria
giace nella tenerezza e vulnerabilità della voce di Courtney, la quale
cresce
di intensità fino a prendere il volo, diventando leggera mentre fluttua
sui ritornelli vivaci ed esuberanti.
Ancora una volta, la Barnett
si dimostra un’abile paroliere. Ogni verso poetico sembra esaltare il
bisogno di spazio nelle relazioni personali, ma può essere facilmente
letto attraverso metafore più
ampie, come “Everybody wants to have their say, forever waiting for some car crash, I need a little time out”
e “Shave your head to see how it feels, Emotionally it’s not that different, but to the hand it’s beautiful”…
“Need A Little Time” è accompagnata da uno splendido video girato dal collaboratore di Barnett, Danny Cohen.
Cohen ha affermato, “Need
A Little Time è permeata da questa atmosfera fluttuante e crescente.
Decisi di giocare sui significati della canzone, quindi Courtney che ha
bisogno di tempo lontano
da se stessa e dagli altri. Non volevo mostrare Courtney abbandonare i
suoi amici, la sua famiglia o i fan, doveva essere più metaforico.
Courtney fluttua nel tempo e nello spazio, si ritrova in una parte
isolata dell’universo. Finalmente ha trovato del tempo
per sé, solo lei e la sua chitarra, cantando nello spazio senza alcuna
preoccupazione.”
Ci
sono band che non cambiano mai, facendo della coerenza il loro punto di
forza, e altre, invece, in continua evoluzione, come se la creatività e
l’ispirazione dipendessero esclusivamente dalla ricerca del proprio io,
esibito hic et nunc. Arrivati al loro sesto album, dopo tredici anni di
carriera, gli Editors sono ancora alla ricerca di una definitiva
identità, in un percorso che, anno dopo anno, ha prodotto piccoli, o più
grandi, spostamenti da quella ricetta inziale che aveva portato alla
pubblicazione di The Back Room, album d’esordio del 2005.
Un
disco, quello, che pagava un debito altissimo alle sonorità post punk
(Joy Division, Echo & The Bunnymen, etc.) e che seguiva la scia di
malinconie al neon tracciata dalle chitarre revival dei colleghi
Interpol, ma che, nonostante tutto, riusciva a suonare sincero e
appassionato. An End Has A Start (2007) era quasi la logica
continuazione di quel primo disco, come se la band, spogliatasi dalle
ingenuità iniziali, avesse preso consapevolezza della propria forza e
della capacità di sviluppare con personalità idee risapute. Ne conseguì
un’opera più matura, che alternava alle consuete atmosfere crepuscolari
momenti di forte comunicativa pop.
Poi, la svolta synth di In This Light And On This Evening (2009), che sfumava ulteriormente il mood dark-wave dei primi due album, il successivo The Weight Of Your Love (2013) che sceglieva la strada mainstream del rock da stadio, e l’ultimo, in ordine di tempo, In Dream (2015), capace, in chiave elettronica, di rinsaldare nuovamente il legame con certe atmosfere ossianiche dei primi due lavori.
Il nuovo Violence
rappresenta un ulteriore spostamento di traiettoria, una nuova sterzata
sulla strada di una carriera che, certo, lineare non è. Se era chiaro,
ormai, che l’elettronica rappresentava un punto di non ritorno rispetto
al più lontano passato, è altrettanto vero che mai come in questo disco
la band ne faccia cifra estetica unica, in un micro cosmo sonoro, in cui
i graffi chitarristici e gli umori noir vengono prevalentemente
accantonati in favore di un pop più solare e pompato.
La
continuità è rappresentata dal timbro vocale unico di Tom Smith,
monumentale nei suoi sprofondi baritonali, anche nei momenti in cui
tutto intorno a lui appare falso come una banconota da settanta euro.
Già, perché nonostante tutta la buona volontà di chi, come il
sottoscritto, ha voluto bene agli Editors fin dagli albori, qui si
fatica ad ascoltare qualcosa che funzioni veramente. La produzione, in
condominio con Leo Abrahams, è laccata e modernissima, ma gonfia a
dismisura idee che paiono risicate all’osso.
Una
scaletta uniforme, questo si, che attinge a piene mani dagli anni ’80
(anche se in questo caso vengono in mente i Simple Minds meno ispirati),
e in cui tutto sembra indirizzato alla ricerca del ritornello che
funzioni in radio o al beat che riempia il dance floor. E’ la logica
dello strike a pose a tutti i costi, della vanagloriosa forma
che sovrasta la sostanza, di un appeal esibizionista che cerca
l’eleganza e la modernità, e che finisce, spesso, per trovare solo
momenti di involontaria tamarraggine (la terrificante Hallelujah (So Slow)).
Mancano
soprattutto le canzoni, e non credo sia solo un problema di
iper-produzione: si fatica a trovare intuizioni di cui ci ricorderemo
fra qualche mese, e anche i migliori episodi in scaletta, la ballata
pianistica No Sound But The Wind, con una magistrale performance interpretativa di Smith, e la carezzevole melodia di Belong,
suonano come sgranati e prevedibili deja vù. Se gli Editors, in virtù
della loro irrequietezza stilistica, erano riusciti, in passato, a
creare una frattura tra fan della prima ora e nuovi adepti al verbo del
synth, con Violence metteranno probabilmente d’accordo tutti: questo è
il disco più debole e deludente dell’intera carriera.