Non è il titolo di
una canzone sanremese nè il sequel di "Io ti salverò". E' il lieto
fine dell'episodio di un melodramma senza fine tra il rubizzo Silvietto e il
barbuto Matteo. Si sa, l'amore non è bello se non è litigarello: i due
piccioni, dopo una breve separazione, si sono riabbracciati in quel di Trieste
e vivono felici e (s)contenti. Berlusconi, almeno per il momento, ritorna in
singolar tenzone da combattente valoroso e irriducibile. Da Trieste in giù,
Matteone prepara il ritorno da figliol prodigo in sella alla bicicletta. Dopo
un giro in piazza nella sua Firenze, la "base" gli avrebbe suggerito
di non cedere alle lusinghe di un accordo con i grillini. Le notti insonni
hanno portato consiglio al Magnifico che, unto dal Signore, convoca
un'assemblea che deciderà le sorti dell'Italia. Intanto, in casa 5 Stelle, il
fornaio Di Maio, dopo avere chiuso bottega alla Lega, ora sforna michette per
il PD: è la primavera, e così come germogliano i primi fiori, sbocciano anche i
timidi ardori. Il giovin Luigi si invaghisce di Martina, ma il suo cuore è
impegnato. Matteo, il suo amato, è in esilio ma presto ritornerà. Gli sconfitti
prima o poi trionferanno e i vincitori saranno battuti. Così, Berlusconi e
Renzi, usciti dalla porta, rientrano impavidamente dalla finestra e sarà di
nuovo gloria nei secoli dei secoli.
Da
anni mi aspetto che i Black Stone Cherry facciano un definitivo salto
di qualità e, invece, a ogni nuova uscita resto (parzialmente) deluso.
Figli nerboruti dell’hard rock anni ’70, scorticato però dai coltellacci
southern dei rangers del Kentuky, Chris Robertson e soci hanno infatti
sempre diluito la propria energica proposta facendo largo uso di ganci
melodici, più consoni a passaggi radiofonici in FM che a un raduno di
veterani appassionati di rock sudista.
I
precedenti cinque album alternavano, così, momenti derivativi, ma tutto
sommato riusciti, ad altri impastoiati dalle logiche di un appeal buono
per le radio ma spesso privo di genuinità. Insomma, hard rock spiccio e
muscolare, sentore di salsa barbecue, piede pigiato sull’acceleratore e
riffoni pesi usati come specchietto per le allodole di un suono che, in
realtà, disperdeva i kilowatt in ritornelli troppo catchy per rendere
il risultato finale credibile.
Con Family Tree,
sesto disco di una carriera iniziata dodici anni fa, qualcosa però è
cambiato. Non è certo l’originalità il fiore all’occhiello del combo del
Kentucky, ma almeno questo nuovo disco è solido, compatto, martellante,
di facile presa, certo, ma senza artifici melodici che diluiscono un
potenziale energetico immenso. I tredici pezzi in scaletta, quindi,
suonano più grezzi e ruspanti del solito e vanno dritti al centro del
bersaglio, in una cavalcata rumorosa per oltre cinquanta minuti di hard
rock sudista che spesso sconfina in territori heavy metal.
Il riff claptoniano e la morsa d’acciaio di basso e batteria aprono velocissimi le danze con Bad Habit, i cui concetti vengono ribaditi nell’incedere pesante e quadrato di Burnin’.
L’albero genealogico sudista e la consanguineità, in questo caso
soprattutto, coi Black Crowes vengono sfoggiati nelle pimpanti Carry Me On Down The Road e My Last Breath,
entrambe risultato di una sour mash fermentation in botti di rovere.
Finalmente, retrogusto bourbon e un Sud più verace, meno da cartolina.
L’album trova il suo vertice esattamente a metà, con l’hard rock blues di Dancin’ In The Rain,
che vede alla voce e alla chitarra miagolante niente meno che Warren
Haynes (Gov’t Mule), e prosegue, poi, fino alla fine che un buon filotto
di canzoni, che scorrono rapide tra riff e assoli, regalandoci almeno
altri due momenti di grande impatto, quali James Brown, groove funky vestito di corazza metallica, e la title track,
la più melodica del lotto, ma attraversata anche dall’assolo di una
chitarra che suona come un’aspirapolvere atomica, risucchiando note e
pathos.
Family Tree
è, dunque, un disco riuscito, che pur muovendosi su coordinate risapute
e ribadendo concetti arcinoti, regala la miglior performance di sempre
dei Black Stone Cherry, grazie una potenza finalmente dispiegata senza
troppi filtri. A volume esagerato, l’effetto bomba è garantito.
Il noto compositore e musicista italiano Teho Teardo insieme aBlixa Bargeld
poliedrico cantante e chitarrista tedesco (Einstürzende Neubauten -
Nick Cave & The Bad Seeds) formano il duo più oscuro della musica
europea. Dopo l'uscita di The Fall, il nuovo EP rilasciato il 31 marzo da Specula Records, Teho e Blixa porteranno in Italia un nuovo spettacolo, che farà tappa
il 4 maggio al Druso di Bergamo, impreziosito dalla presenza di Laura
Bisceglia al violoncello, Gabriele Coen al clarino basso e un quartetto
d’archi a completare il quadro.
A partire dalla celebrazione di uno dei brani più belli della storia
della musica, "Hey Hey My My" di Neil Young, fino a tre nuovi brani
inediti, Fall (realizzato tra Roma e Berlino) arriva a due anni di distanza dal precedente disco Nerissimo, che ha portato il duo a esibirsi in tutto il mondo. Le date del Fall Tour 2018 toccheranno poi Udine (5/5), Torino (6/5).
Non
è questa la sede per raccontare Johnny Cash e quanto la sua figura sia
stata determinante nello sviluppo del roots americano. Cash, giusto per
ricordarlo ai più distratti, può essere considerato uno dei padri
fondatori del country moderno, il più grande e il più amato degli
outlaws, un artista che ci ha lasciato canzoni e dischi memorabili, e la
cui avventurosa storia, fatta anche di sprofondi umani e artistici, è
culminata, in limine vitae, in un filotto di album prodotti da Rick
Rubin (la serie American), che l’ha reso leggenda anche fra le
generazioni più giovani.
Cash,
era anche un grande paroliere, un narratore verace che, lontano anni
luce dagli zuccheri nashvilliani, creò un immaginario di prigioni, treni
e strade polverose, in cui protagonisti erano gli ultimi, i diseredati,
i condannati al patibolo. E raccontò anche quell’amore travolgente,
tema ricorrente della sua poetica, che lo legò intensamente a June
Carter fino a quando questa morì nel maggio di quindici anni fa.
Nel
2016, venne pubblicato Johnny Cash: The Unknow Poems, un libro che
raccoglieva poesie, lettere e altri scritti inediti di The Man In Black,
e da quel giorno, suo figlio, John Carter Cash, ha iniziato a lavorare a
un nuovo progetto, che vede la luce proprio in questi giorni.
Johnny
Cash: The Music Forever Words è un inusuale disco tributo, in cui non
ci sono cover, meglio precisarlo subito, ma attraverso il quale, alcuni
grandi artisti della scena americana (e non solo), hanno voluto
omaggiare Cash con canzoni originali ispirate proprio agli scritti
contenuti nel libro uscito due anni prima. Un lavoro lungo, che ha visto
coinvolti quei musicisti che verso il nostro pagano un debito artistico
o che semplicemente provano un’autentica venerazione (per dire, c’è
anche Goin Goin Gone un brano nu soul eseguito da Robert
Glasper). Una scaletta, quindi, in cui la lingua parlata è
prevalentemente il country, ma nella quale spuntano anche canzoni
lontane per stile e sostanza da quel genere di cui Cash era indiscusso
maestro.
L'antologia è benedetta da una breve intro (Forever/I Still Miss Someone)
che vede coinvolti Kris Kristofferson e Willie Nelson, due autentiche
leggende dell’outlaw country e più o meno coetanei di Cash. Sono solo
quarantasette secondi, che non aggiungono nulla a una raccolta
eterogenea ma bellissima. In The Music Forever Words, infatti, sfilano
tanti musicisti, ognuno con la propria sensibilità e il proprio stile.
Non pensiate, però, di trovarvi di fronte a un lotto di brani minori
assemblati per l’occasione, perché di grandi canzoni, qui, ce ne sono
parecchie, a partire da To June This Morning, suonata in punta
di plettro, chitarra acustica e banjo, da Kacey Musgraves e suo marito
Ruston Kelly: un pezzo dolcissimo che riflette tutta la delicatezza
dell’amore di Johnny verso l’adorata June.
Se la performance di Brad Paisley in Gold All Over The Ground, pur
dignitosa, è molto più vicina al country radiofonico di Nashville che
all’outlaw, altre canzoni sono, invece, degli autentici gioielli.
Impossibile citarle tutte, ma lo swampy rocking di Jellico Coal Man, eseguita da un efficacissimo T - Bone Burnett, il country rock acustico di Them Double Blues, armonica e voce del grande John Mellecamp, e il coloratissimo bluegrass di He Bore it All For Me a opera di Dailey & Vincent, sono numeri difficili da dimenticare.
Meritano una citazione a parte altre tre canzoni, che rappresentano il meglio di questo tributo: Body On Body
eseguita con tangibile pathos da una straordinaria Jewel, che dà vita a
una prova vocale da struggimenti seriali, la dichiarazione d’amore per
June di I’ll Still Love You, monumentale performance di Elvis Costello, voce da crooner e arrangiamenti alla Bacharach, e la superba You Never Knew My Mind, una delle ultime registrazioni di Chris Cornell prima di morire, postuma restitutio in integrum della magnifica Rusty Cage, con cui Cash in Unchained del 1996 aveva omaggiato i Soundgarden.
Un’ora
di musica vera, percorsa da un autentico sentimento di riconoscenza
verso il grande songwriter e da tanta, tantissima passione. Per i fan di
The Man In Black e non solo.
La data è ormai certa:
Amanda Shires pubblicherà il suo nuovo album in studio, il quinto per la
precisione, il 5 di agosto. Il disco, che si intitolerà To The Sunset ed è
prodotto da “prezzemolino” Dave Cobb è stato registrato presso il mitico RCA Studio
A di Nashville e vedrà il contributo di Jason Isbell, marito della Shires, alla
chitarra, Peter Levin alle tastiere, Jerry Pentecost alla
batteria, mentre lo stesso Cobb darà una mano con le linee di basso.
Che
il 2018 sia un anno particolarmente interessante per quanto riguarda le
uscite discografiche italiane, soprattutto se guardiamo lontano dal
circuito mainstream, è un dato di fatto che viene avvalorato, mese dopo
mese, dalla pubblicazione di dischi di grande qualità. Ulteriore
conferma dell’assunto di cui sopra è l’uscita di Tieni Accesa La Luce, album d’esordio delle Ginger Bender, duo al femminile composto da Alessandra Toma e Jeanne Hadley.
Un
debutto sulla lunga distanza, questo, che fin dal primo ascolto cattura
l’attenzione per la coloratissima gamma di canoni espressivi
utilizzati, per la freschezza delle soluzioni melodiche e per le
indubbia capacità tecniche di queste due ragazze dal pedigree
nobilissimo. Alessandra e Jeanne, infatti, si sono conosciute durante i
loro studi jazz all’Accademia Internazionale Della Musica di Milano,
hanno studiato percussioni africane presso il Maestro Lorenzo Gasperoni
(produttore artistico del progetto) e hanno coltivano la comune passione
per l’arte di strada, viaggiando in lungo e in largo per l’Europa
(Grecia, Spagna, Finlandia), dove hanno esplorato nuove sonorità e si
sono esibite con numerosi musicisti locali.
Tutte esperienze che sono confluite in Tieni Accesa La Luce,
un caleidoscopio sonoro ricco e variegato che amalgama con originalità
jazz, blues, funky, afro beat e quella tradizione musicale italiana anni
’30 e ’40, legata al cosi detto periodo dei “telefoni bianchi”.
Un melange sfacciatamente vivace, che le Ginger Bender interpretano
senza dare punti di riferimento, ma attraversando i generi guidate
solamente dal gusto per l’improvvisazione e dall’istinto che
contraddistingue i musicisti di razza (uno sguardo ai video postati su
youtube dà la dimensione di quanto possano essere coinvolgenti le loro
performance live).
Ritmiche
complesse e mai lineari innescano l’interplay fra due splendide voci,
mentre le chitarre “black addicted” sciorinano riff uncinanti in
equilibrio fra funk e blues. Questo il mood prevalente delle otto
canzoni in scaletta, levigate dalla sapiente produzione di Paolo Mei,
che si ascoltano tutte d’un fiato, per mezz’ora di musica che soddisfa i
palati degli ascoltatori più esigenti, quelli, cioè, che preferiscono
deviare dalla main street, per cercare percorsi alternativi, meno
battuti, ma decisamente più ricchi di suggestioni.
Non c’è un solo filler in Tieni Accesa La Luce, e tutte gli otto brani che lo compongono, se lo spazio lo consentisse, meriterebbero una citazione, a partire dall’iniziale Cumbia Negra,
singolo che apre il disco sfoggiando una variopinta veste sudamericana
sotto la quale si nascondono efficaci liriche dai connotati
antimilitaristi.
Difficile, però, non menzionare almeno Che Mi Importa, libera reinterpretazione di quella Che Mi Importa Del Mondo
scritta da Luis Bacalov e portata al successo da Rita Pavone nel 1964,
le spezie reggae che insaporiscono la dolce melodia mediterranea di Mentre Dormivo e la strepitosa This Song,
autentico gioiello che riscrive in quattro eccitanti minuti un piccolo
abbecedario di black music, in cui vengono magistralmente sintetizzati
funky, jazz, gospel e tecnica scat. Una canzone maiuscola che sigilla un
disco inusuale e divertente, in cui ogni singola nota rifugge le
consuete logiche, per mettersi al servizio di una brillante libertà
espressiva. Fidatevi: ve ne innamorerete, come me ne sono innamorato io.