Se
siete stufi dell’indie modaiolo, di quei singer-songwriter dallo
sguardo tormentato e dalla lacrima facile, se non ne potete più di
sofismi e arzigogoli intellettualoidi che piacciono tanto a quelle
riviste che “se non è strano non vale niente”, Sweet Bunch, opera prima di Andy Jenkins, musicista americano proveniente da Richmond, Virginia, è il disco che fa per voi.
Un
disco che suona indie, ma che nella sostanza indie non è, perché usa un
linguaggio comprensibile a tutti ed evita ammiccamenti e pose,
proponendo una scaletta di canzoni lineari, che sanno esattamente da
dove partono e dove devono arrivare, senza deviare dalla strada
principale, quella, cioè, che porta dritta al cuore dell’ascoltatore.
In
Sweet Bunch, infatti, ciò che conta davvero sono le melodie,
cristalline e solari, melodie che entrano in testa fin da subito, che ti
inchiodano a ripetuti ascolti e che ti ritrovi a canticchiare, con
naturalezza, prima ancora di renderti conto di quanto belle siano le
canzoni che le contengono (Hazel Woods, per chi scrive, è la migliore canzone pop ascoltata quest'anno).
E’
una musica semplice, quella di Andy Jenkins, che non ha bisogno di
artifici per cogliere nel segno. Eppure, nonostante l’album sia stato
registrato in soli in tre giorni e in presa diretta, il suono è
tutt’altro che scarno. Niente lo-fi, dunque, ma arrangiamenti essenziali
ed equilibrati (la produzione è di Matthew E. White, patron della
Spacebomb Records), che riempiono l’ordito delle canzoni con l’uso
sapiente di controcanti femminili, con l’interplay tra pianoforte e
chitarra e con linee strumentali pulite e brillanti.
Nove
canzoni che declinano un pop luminoso e di facile presa, nascondendo
però sottotraccia un’equilibrata elettricità rock (la chitarra distorta
che scortica la melodia ciondolante di Get Together è un colpo di genio) e un’inclinazione verso sonorità contigue al soul e al blues (la title track).
Una musica, quindi, che si propone come melange coloratissimo in cui
confluiscono modernità, atemporalità e retrogusto vintage, in cui si
percepiscono radiose armonie alla Big Star o il cromatismo espressivo di
George Harrison, e in cui è piacevole riconoscere intuizioni che
portano lontano nel tempo e richiamano alla memoria Lloyd Cole (Ascendant Hog) e perché no, i Microdisney (Curve Of Love).
Citazioni,
più o meno volontarie, che nulla tolgono, però, a una scrittura
originale, il cui contagioso entusiasmo testimonia una disarmante
sincerità e ci trasmette tutta la gioia, quasi fisica, palpabile, con
cui Jenkins colma ogni nota di queste nove, deliziose canzoni. Per cui,
mettete Sweet Bunch nel lettore, aprite le finestre, fate
entrare il sole e la primavera, e sentitevi più leggeri dell’aria.
Questo disco vi farà volare.
VOTO: 8
Blackswan, mercoledì 13/06/2018
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