Poche
band sono più affidabili degli Horse Feathers, combo proveniente da
Portland, Oregon. In dodici anni, la ragione sociale capitanata dal
cantante e chitarrista Justin Ringle, ha rilasciato sei album, compreso
il precedente (che è anche il quinto con la Kill Rock Stars), uno più
bello dell’altro.
Una
coerenza qualitativa ancor più degna di nota, se si pensa che il gruppo
ha vissuto una carriera artistica in continuo mutamento, passando
attraverso importanti cambi di line up (prima quattro membri, poi undici
e, quindi, cinque), e plasmando nel tempo un suono che, da un’iniziale
ortodossia roots, è passato a qualcosa che si inserisce organicamente
all’interno della scena folk rock, avvicinando maggiormente gli Horse
Feathers ai Decemberists, per fare un nome noto, e allontanandoli
progressivamente dagli Avett Brothers, band con cui fin dagli esordi
avevano più di un punto di contatto.
Questo Appreciation
non smentisce i connotati di una band incapace di cristallizzare la
propria musica entro stilemi prevedibili e reiterati, tanto da apparire
solo parente alla lontana degli altrettanto buoni Thistled Spring(2010) o Cynic's New Year (2012).
Se i tratti distintivi della voce del frontman, Justin Ringle, e del
violino di Nathan Crockett, continuano a essere l’anello di congiunzione
fra passato e presente, questo nuovo lavoro si distingue, però, per un
ruolo più centrale della sezione ritmica, per i cori di Joslyn Hampton e
Chris Dennison che danno più ampio respiro alle composizioni, per i
drive pianistici che colorano alcuni passaggi del disco (Born In Love) e, soprattutto, per un retrogusto seventies che anima alcune delle più riuscite canzoni del lotto, come Without Applause e Best To Leave.
Non
è un caso che la copertina del disco, un primo piano non filtrato del
volto di Ringle, presumibilmente sul palco, con un riflettore dietro di
lui, evochi alcuni LP degli anni '70: il genere di copertina, la
buttiamo lì, che piaceva tanto a gente come Jim Croce, John Denver o
Eric Clapton.
Non
manca il consueto gusto per le melodie e quel suono che spesso fa
pensare a una band alle prese con una performance live e non invece
chiusa all’interno di una sala di registrazione. Il disco, tuttavia, è
davvero qualcosa di diverso da ciò che avevamo ascoltato prima, e
rappresenta un’ulteriore tappa in un percorso mai lineare, eppure
caratterizzato da un livello compositivo senza cedimenti. Tanto che, la
vera notizia, a questo punto, non è certo l’ennesima nuova formula
musicale, quanto il fatto che, per quanto cambino continuamente
registro, gli Horse Feathers continuino a non sbagliare un disco.
VOTO: 7
Blackswan, sabato 09/06/2018
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