Certi
 dischi sono una splendida fregatura: li metti sul piatto e ciaone a 
tutti gli arretrati che devono essere necessariamente ascoltati prima 
che finisca l’anno solare. E così, Young, Sick Camellia, terza 
prova in studio dei St. Paul & The Broken Bones, ha creato un 
ingorgo pazzesco fra tutti i miei ascolti, ma è così bello che faccio 
davvero fatica a toglierlo dalla heavy rotation. Occorre, prima di ogni 
altra considerazione, fare le dovute presentazioni, visto che questa 
band, per il momento, è un godimento riservato a pochi eletti amanti 
dell’immenso patrimonio musicale proveniente dagli Stati Uniti.
Birmingham,
 Alabama, profondo Sud. Qui, nel 2012, un contabile annoiato da una vita
 ordinaria, decide di rischiare tutto e di dare forma ai propri sogni 
musicali. Si chiama Paul Janeway, e insieme al bassista Jesse Phillips 
fonda i St. Paul & The Broken Bones, band di otto elementi uniti da 
una passionaccia per il soul, il funky e il r’n’b.
Il
 percorso musicale di Janeway, d’altra parte, si è sviluppato all’ombra 
del suono Stax e Motown: tantissimi dischi ascoltati da ragazzino, i 
primi passi mossi nel coro della chiesa, come nella miglior tradizione 
dei black singers, e le foto di Otis Redding e Sam Cooke tenute sul 
comodino del letto a indicare quotidianamente la strada.
La
 gavetta è quella consueta, fatta di prove in garage umidi, di concerti 
retribuiti poco e male, in piccoli locali della zona, di speranze 
alimentate solo dall’entusiasmo. La svolta, come detto, arriva nel 2012,
 quando gli appena costituiti St. Paul & The Broken Bones pubblicano
 un Ep autoprodotto (Greetings From St. Paul And The Broken Bones) che attira l’attenzione della Single Lock Records, casa discografica fondata da John Paul White (The Civil Wars) e da Ben Tanner (Alabama Shakes), il quale produce anche l’esordio della band, intitolato Half The City (2014).
L’impressione
 suscitata dall’ottetto è tale che, non solo il disco scala, con ottimi 
risultati, le impervie charts americane, ma i Roling Stones, in tour 
negli States, vogliono i St. Paul ad aprire due loro concerti. E’ 
l’inizio di una grande avventura che prosegue con Sea Of Noise, secondo full lenght, prodotto da Paul Butler, già dietro la consolle in Home Again,
 esordio di Michael Kiwanuka, datato 2012. La seconda prova in studio, 
se possibile, era ancora più convincente della precedente e la band 
dimostra nuovamente di avere tante frecce al proprio arco.
Ma è con questo ultimo Young Sick Camellia
 che il combo non solo conferma quanto di buono avevamo ascoltato nei 
dischi precedenti, ma fa un ulteriore passo avanti, sia nel suono che 
nella qualità del songwriting. Se è vero che le fonti d’ispirazione dei 
St. Paul emergono inevitabilmente da un glorioso passato (per i 
precedenti dischi, Sam Cooke, Otis Redding, Al Green, George Clinton, 
etc.), in Young Sick Camellia la macchina del tempo viaggia 
prevalentemente attraverso il funk e la dance degli anni ’70, ma con una
 rilettura modernissima, evitando così datati clichè e puntando, invece,
 su melodie di impatto immediato, che non disdegnano passaggi 
radiofonici ed entrano in testa dopo pochi ascolti, grazie anche a una 
veste, talvolta, disegnata da un atelier nu-soul.
Prodotto
 da Jack Splash (Kendrick Lamar, Mayer Hawthorne), il disco è 
attraversato dal fil rouge di brevi intermezzi strumentali e dal sapore 
vagamente jazzy, che collegano le nove canzoni che compongono il corpus 
dell’album. Si va dall’estetica dandy della progressione discendente di Convex, il cui groove è punteggiato da un brillante arrangiamento d’ottoni, alla sfacciataggine disco di Got It Bad, autentico riempipista vintage, agli echi Bee Gees, epoca Main Course, del singolo Apollo, al lento strappamutande di Concave, i cui archi suggeriscono un mood trasognato, e alla conclusiva Bruised Fruit,
 gonfia di umori malinconici, in cui Janeway si supera per intensità, 
usando la voce quasi fosse un sassofono e oscillando fra disperazione e 
dolcezza.  
Nonostante la coerenza d’intenti e l’omogeneità del suono, Young Sick Camellia
 è un disco estremamente vario, quasi a due facce, che stupisce con la 
semplicità di groove e melodie irresistibili e al contempo con 
arrangiamenti sfaccettati e mai prevedibili, dispensando emozioni per 
retromaniaci della black music e suggestioni per chi ama, invece, la 
visione più moderna del nu-soul. Caldamente consigliato.
VOTO: 8
Blackswan, venerdì 07/12/2018 

2 commenti:
una simpatica canzonetta
grandissimo disco, grandissimo gruppo....sono in adorazione :)
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