Erik Paulson (voce, chitarra) spiega: “Two Bux
parla del raggiungimento della maggiore età, del conflitto morale e
della colpa. A un certo punto della vita, molte persone decidono che
vorrebbero provare alcune cose che il libretto di istruzioni
dell’infanzia non ha permesso. Queste esperienze hanno il potere di
essere piacevoli ma anche di confondere. Più spesso, è una combinazione
di piacere e confusione. The Grind,
invece, parla delle tensioni che nascono in una band ed è scritta nello
stile di una canzone d’amore. Creare musica, viaggiare ed esibirsi
sono, nella loro essenza, attività identiche alle cose che rendono così
impattanti le relazioni romantiche, famigliari e platoniche. Queste
esperienze sono anche le stesse che rendono così difficili queste
relazioni. Mi è sembrato naturale e catartico legare insieme queste idee
per mezzo di una canzone.”
I fratelli Erik e Steven Paulson hanno girato il mondo sull’onda del successo del Greatest Hits del 2017 e dell’EP Pop Music
del 2018. Tutto il tempo trascorso lungo le strade ha regalato loro
infinite opportunità di pensare a quanto fossero arrivati lontani come
band in così poco tempo – e pianificare il futuro. Il risultato è Natural, Everyday Degradation dove i due fratelli creano un indie-rock assai più robusto.
Prodotto
da Joe Reinhart (Modern Baseball, Hop Along) e missato da Peter Katis
(The National, Interpol), l’album mette in luce i veri punti di forza
della band. I testi di Erik sono emozionalmente risonanti e
universalmente riconoscibili, tuttavia risultano più diretti e precisi
che in passato.
“Non
ci sono canzoni selvagge come in passato,” afferma Erik, sottolineando
che il titolo dell’album è in parte ispirato all’iconico dipinto di
Salvador Dalí “The Persistence Of Memory”. Sarà anche vero, ma Natural, Everyday Degradation è la colonna sonora ideale per viaggiare attraverso le grandi domande della vita.
Non
credo si possa parlare costruttivamente di questo disco, senza fare
immediatamente una premessa: Billie Eilish ha solo diciassette anni. E
spero ne conveniate, se hai solo diciassette anni, devi possedere un
notevole talento per pubblicare quello che, non solo è uno dei dischi
più chiacchierati dell’anno, nonostante siano passate poche settimane
dalla sua uscita, ma che anche, il giorno stesso della sua uscita, ha
realizzato su Spotify la bellezza di 55 milioni di ascolti. In un giorno
solo.
Ha
talento, Billie, su questo non ci piove, e ha al suo fianco il fratello
Finneas O’Connell, coautore dei brani e produttore, che dimostra di
avere un tocco paragonabile a quello di Re Mida. Tutto ciò che ruota
intorno al fenomeno Billie Eilish, infatti, è qualcosa di realmente
straordinario, frutto di una costruzione a tavolino assolutamente
perfetta.
Eppure, questo When We All Fall Asleep, Where Do We Go?,
non è solo un prodotto commerciale preconfezionato ed efficacissimo,
perché in realtà possiede anche un’anima e una sua bellezza. Certo,
Billie è indubbiamente furba. Ha costruito in poco tempo un hype
incredibile, facendo crescere esponenzialmente l’attesa, singolo dopo
singolo, concerto dopo concerto.
Ha
intercettato le istanze del suo pubblico, creando un personaggio che
riassume in sé l’affabulante influencer, la rockstar sfrontata e
trasgressiva e una sorta di dark lady adolescente, un po' Lolita e un
po’ maschiaccio. E ha forgiato il suo pop, perché di pop si tratta,
imbellettandolo di malinconia emo e plasmandolo attraverso sonorità
modernissime, tra elettronica, echi trap e dubstep. Insomma, ha
riproposto, ritoccandolo con arguzia, tutto il repertorio che già aveva
fatto schizzare alle stelle le quotazioni di altre giovani songwriter
quali Lykke Li, Lorde e Lana Del Rey.
Ciò
nonostante, Billie, pur non inventandosi nulla di nuovo, non si è
nemmeno sputtanata, vendendo plastica un tot al chilo. Furba, si, ma non
spudorata. When We All Fall Asleep, Where Do We Go? è,
infatti, un buon disco, ricco di idee e di ottime canzoni, e lo è a
prescindere dall’età dell’ascoltatore, sia esso un adolescente o uno
scafato appassionato di musica.
Billie
sa alternare beat ansiogeni e ritmiche dance a momenti decisamente più
raccolti, arrangiamenti complessi e stratificazioni sonore a episodi di
malinconico e scarno intimismo. Un songwriting non certo innovativo, ma
senz’altro efficace, soprattutto quando si dipana attraverso ballate
come la rarefatta Listen Before I Go o la struggente I Love You, due fra gli episodi più riusciti di un ottimo disco che, in tutta evidenza, certifica la nascita di una giovane stella.
Se saprà brillare con costanza, lo scopriremo solo a partire dal prossimo album, anche se questo When We All Fall Asleep, Where Do We Go?
depone a favore di un futuro luminoso. Perché, non dimentichiamolo,
Billie Eilish ha solo diciassette anni e talento da vendere.
MARK LANEGAN annuncia il suo undicesimo album solista Somebody's Knocking, in uscita il 18 ottobre su Heavenly Recordings [PIAS].
L’artista statuinitense condivide il primo singolo “Stitch It Up”
accompagnato da un divertente video con la partecipazione dell’attore
Donal Logue nelle vesti del leggendario personaggio di MTV degli anni
90’ Jimmy the Cab Driver.
Quasi alla fine dell’ultimo brano di Somebody’s Knocking, c’è un verso che rimane impresso nella memoria dell’ascoltatore:
“I felt its sound/down to my darkest, deepest root”
Somebody’s Knocking
è un album composto da qualcuno profondamente ossessionato da come la
musica riesca veramente a penetrare nell’anima con tutti i suoi poteri
spirituali e curativi. Di conseguenza, la musica è gioiosa, come se
fosse stata creata da una vasta gamma di ispirazioni prese dal negozio
di dischi di Dio. Alcune influenze sono trasversali, altre dirette e
rispettose. In un certo senso, questo mostrare le proprie ispirazioni
serve a cambiare la percezione che abbiamo del Lanegan artista:
quest’album non è la storia di un veterano meditabondo del rock’n’roll ,
bensì il racconto di qualcuno consumato dall'eterno amore per le parole
e i suoni fusi assieme.
Come i migliori lavori di Lanegan,
l’album racconta le sue storie, tesse le meraviglie evocando febbrili
visioni allucinogene accompagnate da un rock ruvido e da un elettronica
brillante e luminosa, per poi penetrare nelle nostre radici più profonde
e più oscure.
Da maggio Mark Lanegan sarà in
tour negli Stati Uniti. Alla fine di ottobre invece, Lanegan partirà
per un tour europeo che lo porterà in italia per un’unica imperdibile
data il 27 NOVEMBRE 2019 @ FABRIQUE – MILANO (info: www.livenation.it) Per la lista completa delle date, visita: www.marklanegan.com
Se
sei stato uno sbirro una volta, lo sarai per sempre. Vale per Jackson
Lamb e i suoi uomini, “i Brocchi”: un branco di agenti segreti che
l’intelligence ha allontanato perché avevano commesso qualche errore
imperdonabile o coltivato un vizietto di troppo, senza però riuscire mai
ad azzopparli del tutto. E vale per Dickie Bow. Un vecchio leone, per
giunta cresciuto allo “zoo” di Berlino in piena Guerra fredda. Un’ombra
capace di infiltrarsi ovunque, di stare alle calcagna del suo target per
mesi e carpirne i segreti. Almeno finché non viene trovato morto su un
autobus vicino a Oxford. Jackson Lamb è stato a Berlino con Dickie prima
della caduta del Muro. E ora possiede il suo cellulare e il suo ultimo
segreto, oltre a sospettare che qualcuno stia escogitando un’operazione
in vecchio stile sovietico proprio nella tana del lupo, in piena Londra e
sotto al naso dei servizi segreti. La perfetta occasione di riscatto
per i Brocchi.
C’è
una tempo in cui le spy story andavano di moda; poi, con la distensione
dei rapporti fra occidente e Russia e con lo spostamento del focus sul
Medio Oriente, il genere ha perso progressivamente appeal. Quando però
trovi autori come Mick Herron, che sanno attualizzare temi ormai desueti
come quello della guerra fredda, ti verrebbe quasi voglia di non
leggere altro.
In
una Londra in subbuglio a causa di una serie di manifestazioni di
protesta contro il sistema bancario, lo scorbutico Jackson Lamb e la sua
squadra di spie, costrette a mansioni secondarie, indagano sulla strana
morte di un ex agente dell’MI5. Si troveranno ben presto a fare i conti
con un pericolosissimo complotto operato da cellule dormienti dei
servizi segreti sovietici.
Mick
Herron crea un intreccio pressoché perfetto, dimostrando di saper
gestire i tempi narrativi e di saper piazzare i colpi di scena in modo
tale da carpire con continuità l’attenzione del lettore, conducendolo,
in un crescendo rossiniano, verso un finale convulso e appassionante.
La
miglior freccia all’arco di Herron, però, resta la scrittura,
essenziale ma al contempo ricca di immagini, e attraversata da un
sottile filo di ironia, che non viene mai meno nemmeno nei passaggi più
drammatici del romanzo. Ne derivano, quindi, personaggi credibili, vivi e
meravigliosamente tratteggiati sotto il profilo psicologico (Jackson
Lamb prenderà lentamente forma davanti ai vostri occhi) e una serie di
dialoghi arguti e intelligenti, e soprattutto, mai banali.
Insomma, se il genere vi appassiona e siete alla ricerca del nuovo John Le Carrè, In Bocca Al Lupo è il libro che fa per voi.
Dopo averlo pubblicato in limited edition su vinile in occasione del Record Store Day, The Flaming Lips annunciano oggi King’s Mouth, il loro quindicesimo album in studio, in uscita il 19 luglio su Bella Union.
King’s Mouth
vede la band percorrere territori inesplorati. Queste 12 tracce
originali sono collegate fra loro dalla narrazione cinematica di Mick
Jones dei The Clash. Inoltre la musica è affiancata dall’istallazione
artistica del front man Wayne Coyne.
Presentata
nel 2015, l’istallazione ha mostrato i suoi visual e i suoi paesaggi
sonori psichedelici nel Nord America, presso musei quali Meow Wolf di
Santa Fe, NM, l’ American Visionary Art Museum di Baltimora, MD, il
Pacific Northwest College of Art Portland, OR e lo spazio creativo di
Wayne, The Womb, in Oklahoma City, OK. Una vera e propria meraviglia
artigianale, l’istallazione consiste in una gigantesca testa di metallo
che accoglie gli spettatori al suo interno. Una volta entrati, uno
spettacolo di LED inizia, accompagnato dalle musiche dell’album. L’album
accompagna l’esibizione dal punto di vista sonoro, consentendo ai fan
di ascoltarlo in qualsiasi momento. Ampliando
ulteriormente questo mondo sfaccettato e mostrando i dettagli di questo
affascinante mito della creazione, il tomo letterario che lo
accompagna, King’s Mouth: Immerse Heap Trip Fantasy Experience
racconta la storia di King’s Mouth attraverso parole e visual di Coyne,
aggiungendo così una nuova dimensione al progetto, tra i più ambiziosi
di sempre per la band.
Coyne afferma, “Le
qualità immersive e infantile di King’s Mouth nascono dalla stessa
scintilla e dallo stesso utero delle live performance dei The Flaming
Lips. Le avventure di The King’s Mouth sono adatte a tutte le persone,
di qualsiasi età, grandezza, cultura o religione.”
La
band recentemente si è unita alla The Colorado Symphony Orchestra per
una performance del loro album The Soft Bulletin del 1999, alla Denver’s
Boettcher Concert Hall. Questa esibizione segue quella originale del
2016 al Red Rocks Amphitheatre – considerata dalla critica come una
delle più importanti esibizioni mai tenute al Red Rocks in 75 anni.
DATA UNICA IN ITALIA 01 settembre – Piazza Duomo, Prato
Presi
singolarmente Les Claypool e Sean Lennon non hanno certo bisogno di
grandi presentazioni. Il primo, ha attraversato due decenni alla guida
dei Primus, proponendo una miscela sperimentale e azzardatissima di
rock, funk e hardcore; il secondo, come è intuibile dal cognome, è il
figlio di John e di Yoko Ono, e ha alle spalle un pugno di album segnati
in modo evidente dai cromosomi di papà, da cui ha preso il timbro
vocale e il gusto per la melodia.
Insieme,
invece, rappresentano più o meno una novità, visto che hanno iniziato
quasi per caso nel 2016, pubblicando un primo album sotto l’egida
Claypool Lennon Delirium, che molti avevano ritenuto una bizzarria
estemporanea senza alcun futuro. Invece, Monolith Of Phobos
(questo il titolo del loro primo disco) ha funzionato così bene che il
carrozzone si è rimesso in marcia, regalando ai fan un secondo,
splendido lavoro.
Spiegare cosa contenga South Of Reality
non è compito semplice: ci sono le esperienze di entrambi, ovviamente,
c’è il nume tutelare Zappa, ci sono i Beatles più psichedelici, c’è una
musica ricca di sperimentazione e intuizioni, suonata magistralmente
(Les Claypool è senza ombra di dubbio uno dei più grandi bassisti rock, a
cui bastano poche note per definire uno stile) e, particolare non di
poco conto, irresistibili melodie di derivazione lennoniana, che rendono
l’ascolto piacevolissimo anche a orecchie non particolarmente allenate.
Rispetto
al primo disco, le canzoni sono più lunghe e meglio definite nei
dettagli, ma concettualmente i contenuti sono i medesimi, come evidente
dallo straniante opener Little Fishes, costruita sul basso
elastico e potentissimo di Claypool (Mamma mia che suono!), che
funkeggia sulle aperture melodiche e sognanti di Sean. Tutte le canzoni
sono firmate da entrambi, ma appare chiarissimo chi ha avuto maggior
influenza nella costruzione dei singoli brani: Boriska, ad
esempio, risente maggiormente dell’influenza di Lennon e nonostante
l’architettura ardita del pezzo, è una melodia di chiara matrice
beatlesiana a fare la parte del leone, mentre Easily Charmed By Fools
spinge potentissima su un groove funky (e una chitarra acidissima) che
richiama alla mente l’approccio surreale e ironico alla composizione che
ha sempre segnato la produzione Primus.
Ogni
strumento è suonato dal duo, che ha curato anche la produzione del
disco, lavorando di cesello sui suoni e arricchendo i brani con sovra
incisioni e tocchi bizzarri che trasformano ogni singola canzone in una
cornucopia di sorprese da scoprire ascolto dopo ascolto (consiglio
l’utilizzo delle cuffie per una resa massimale).
Nove canzoni bellissime, seducenti e complesse, che trovano il loro zenith nella splendida Blood And Rockets, nipotina di A Day In The Life, che suona esattamente come suonerebbero oggi i Beatles di Sgt. Pepper.
Quindi,
non drogatevi, non serve. Per viaggiare e viaggiare benissimo
ascoltatevi Claypool e Lennon: a sud della realtà il delirio è
garantito.
Una
volta conosciuti, è praticamente impossibile non amare i PUP. Ma chi
sono i PUP? E perché dovrebbero starvi così simpatici? Iniziamo con il
dire che sono un gruppo rock canadese formatosi a Toronto nel 2010 e che
il loro nome è stato ispirato dalla nonna di Stefan Babcock, il
cantante della band. La trovate una cosa dolce? Bene, perché PUP è un
abbreviazione per Pathetic Use of Potential. La nonna di Stefan, non
appena saputo che suonava in una rock band, gli ha detto che era “un uso
patetico del suo potenziale”.
Il
mood è quello degli sfigati di periferia, che conoscono bene cosa
significa il disprezzo, l’ansia e la sensazione di perenne inadeguatezza
nei confronti degli altri e del mondo. Ma i PUP hanno anche un
grandissimo senso dell’umorismo, spesso nero, condito di ironia e
annegato nell’auto-ironia.
E
i quattro canadesi saranno anche dei perdenti, ma sanno come far
suonare i loro strumenti, come buttare fuori emozioni e pensieri nei
testi e come far vibrare i cuori di chi li ascolta. Con i loro primi due
album (PUP, 2013 e The Dream Is Over, 2016) si sono
fatti amare dalla critica musicale, hanno ricevuto i più vari
riconoscimenti (Juno Awards, Polaris Music Prize, CBC Radio Awards, Best
Breakout Rock Act per Rolling Stone, Prism Prize, etc.) e, soprattutto,
si sono fatti largo nei cuori dei fan di tutto il mondo.
Con Morbid Stuff,
prodotto, registrato e mixato da Dave Schiffman (Weezer, The Mars
Volta), i PUP hanno creato una sintesi perfetta di tutto quello che i
fan hanno imparato ad amare di loro in sole 11 tracce e 38 minuti
totali. Tantissimi cori da cantare a squarciagola abbracciati sotto il
palco, con le lacrime agli occhi e la voglia di divertirsi e buttare
fuori qualsiasi cosa si pensi non vada della propria vita o nella
propria persona, tante armonie di chitarra e attenzione all’intarsio
degli strumenti nella struttura delle canzoni, tanto umorismo e
auto-ironia, e tanti testi cupi e deprimenti, cantati e suonati con una
gioia e un’energia dalla quale non si può che uscirne coccolati e
rinvigoriti. E a livello musicale? Un suono che va dal rock al punk,
fino a raggiungere i migliori picchi hardcore con “Full Blown Meltdown” e
le valli del folk con l’inizio di “Scorpion Hill”.
Quattro
migliori amici, tante emozioni negative e tanta rabbia da deridere
insieme, per ritrovare insieme la giusta prospettiva e la giusta
speranza, nell’affrontare questo pazzo e assurdo mondo e i problemi che
ci arreca.
Scavando
al di sotto della dolcezza e del divertimento del lato sonoro, troviamo
dei testi come quelli di “Scorpion Hill”, in cui il disgusto e
l’inquietudine si trasformano in tristezza e nella necessità di
metabolizzare i contrasti, richiamandosi all’esperienza che la band ha
vissuto in tour, quando, trovandosi a dover soggiornare in casa di uno
sconosciuto, tra aghi usati, mozziconi di sigaretta e macchie di piscio e
sudore, notano la fotografia del figlio dell’uomo, sorridente per il
suo primo giorno di scuola.
“Sibling
Rivalry”, invece, è una canzone dedicata alla sorella di Stefan, per i
loro viaggi annuali pieni di disastri, mentre “Kids” è una canzone
d’amore da un depresso all’altro, perché quando trovi qualcuno che
comprende e condivide le tue peggiori paure, alla fine ti senti meno
solo e puoi tornare a sperare almeno un po’, sentendo l’animo un po’ più
leggero. Non pensate che si possa rendere gioioso tutto questo? Provare
per credere.
Un
assaggio dai testi della bella “See You At Your Funeral”, in cui Stefan
urla “Spero che il mondo esploda, spero che moriremo tutti e che
potremo vedere i momenti salienti dell'inferno. Spero che siano
trasmessi in televisione”.
Oltre
ai testi, i PUP danno del loro meglio nei video e nel rapporto con i
fan. Per la bellissima “Free At Last” (una delle canzoni migliori
dell’album, di cui il ritornello “solo perché sei di nuovo triste, ciò
non ti rende affatto speciale” rimane impresso nella mente così tanto
che vi ritroverete a canticchiarlo sovrappensiero senza rendervene
nemmeno conto) i PUP hanno condiviso testi e accordi del brano con i fan
qualche settimana prima dell’uscita del singolo, chiedendo loro di
realizzarne una cover. Senza aver mai sentito prima la canzone.
L’aspettativa della band era di ricevere al massimo una decina di video,
peccato che invece i fan abbiano spedito loro ben 253 cover, di cui
incredibilmente nessuna sembrava la loro e, ancora più
sorprendentemente, nessuna era uguale all’altra. La sintesi di tutta la
creatività e l’amore per i PUP la trovate nel video che hanno girato in
una notte (link alla fine della recensione), per la modica cifra di 25
dollari.
Volete
già andare a vederli dal vivo? Bene, un dollaro per ogni biglietto
venduto in prevendita andrà al Trevor Project, un’organizzazione che
fornisce consulenza e servizi di prevenzione del suicidio ai giovani
LGBTQ.
Preferite pensare intanto a comprare il cd o il vinile? Se volete, i PUP hanno preparato per voi il Kit in preparazione all’annientamento:
include cd o lp in edizione limitata, una camicia a maniche lunghe, uno
zaino con su cucito un cerotto, dei cerotti personalizzati, un
contenitore impermeabile e un multi-utensile con forchetta, cucchiaio,
ecc. Una versione in edizione limitata del kit, invece, fornisce un vero
e proprio gommone (di dimensioni normali, mica una miniatura).
Come si diceva all’inizio, come si fa a non amare i PUP?
Morbid Stuff
è la coperta di Linus per quando sei triste, depresso o stanco, il
disco che ti aiuta a versare e poi asciugare le lacrime, gettandole via
assieme alla voce, che perderai cantando a squarciagola i loro cori. È
l’album che ti fa ritrovare il sorriso, che ti fa divertire e che riesce
a farti ritrovare speranza ad ogni verso urlato insieme, facendoti solo
venire voglia di abbracciare la prima persona che ti capita a tiro.
Che entri a far parte delle vostre vite è possibile, ma che lo ritroviate tra le migliori uscite del 2019 è praticamente certo.
A voler utilizzare
alcune espressioni tanto care alla stampa anglosassone, si potrebbe parlare a
proposito degli irlandesi Fontaines D.C. di best
new thing o di new sensation.
D’altra parte, l’hype nei confronti della band di Dublino è stato costruito ad
arte in questi mesi, grazie a una narrazione orchestrata ad hoc e alla
pubblicazione di singoli (praticamente tutto il disco d’esordio) che hanno
creato una crescente attesa nei confronti di questa pubblicazione.
Tuttavia, il clamore
generato da questa opera prima non risiede solo nell’ottima comunicazione che
ha permesso di conoscere la band con ampio anticipo, ma soprattutto dal valore
artistico di un disco, per certi versi sorprendente. Che la musica dei
Fontaines D.C. sia clamorosamente derivativa è un dato di fatto su cui nemmeno
si dovrebbe discutere: queste canzoni, infatti, hanno i piedi immersi fino alle
caviglie nella fanghiglia post punk di inizio anni ’80, raccontano Dublino e
l’Irlanda nello stesso modo in cui facevano alcune band di combat rock del
periodo, e hanno come numi tutelari, citati spesso smaccatamente, alcuni gruppi
hanno fatto la storia del genere, Joy Division su tutti.
Ciò nonostante, sarebbe
ingiusto parlare di mera operazione di copia-incolla, perché questi ragazzi
sono riusciti, in pochissimo tempo a forgiare un suono tutto loro. C’è un
piglio garagista che identifica le loro performance, una veemenza tutta sangue
e sudore che da sempre identifica quelle rock’n’roll band che fanno
dell’immediatezza il loro punto di forza. E ci sta, quindi, che la tecnica e
l’attenzione agli arrangiamenti passino in secondo piano, cosa abbastanza
evidente all’ascolto di questo Dogrel. C’è, poi, il timbro vocale di Grian
Chatten, un crooner, monocorde e monotono, che ricorda un incrocio ansiogeno
fra Ian Curtis e Kele Okereke dei Bloc Party, a marchiare a fuoco queste
canzoni di grintosissimo post punk.
Tutto funziona a meraviglia
in Dogrel, a partire della splendida Big (godetevi il video, ne vale la pena)
brano che apre il disco con una dichiarazione d’amore nei confronti di Dublino.
Non ci sono momenti di stanca, e ogni singola canzone in scaletta regge alla
grande il confronto con band che di recente hanno imboccato la stessa strada
dei Fontaines D.C. (Shame e Idles, soprattutto): i tamburi battenti di Sha Sha Sha, che ruba un giro di
chitarra ai Clash (London Calling),
lo sconquasso noise di Too Real, la
melodia scartavetrata di Roy’s Tune,
gli echi Joy Division di The Lotts o
la conclusiva Dublin City Sky, che
evoca l’anima sfilacciata e alcolica di Shane MacGowan dei Pogues, sono tutti
episodi che rendono Dogrel un esordio
appassionato ed emozionante.
Non so dire se i
Fontaines D.C. siano destinati a durare nel tempo: l’andamento monocorde del
cantato e una certa ortodossia stilistica alla lunga potrebbero anche imboccare
il tunnel della ripetitività e finire per stancare. Tuttavia, c’è da
scommetterci, almeno per quanto riguarda il 2019, che il loro esordio comparirà
in vetta a tutte le classifiche di fine anno.
Formatisi
sulla chimica tra i due compositori – nonché fratello e sorella - Jack e
Lily Wolter, la miscela DIY di splendente dreampop, chitarre fuzz e
ondate indie-psych del quartetto viene immersa in squisite armonie e
melodie brillanti: una combinazione talmente intuitiva da far pensare
che si trovi nel loro sangue.
Per
celebrare l’annuncio, i Penelope Isles condividono un video
accattivante per il singolo “Chlorine”, che incorpora vecchi filmati in
bianco e nero e animazione. La band ha anche annunciato un cospicuo
numero di concerti per la primavera e l’autunno, assieme ad apparizioni
in molti festival estivi.
Fresco e ubriacante, etero e mordace, Until The Tide Creeps In
è un album di esperienze condivise, come spiega Jack: “lasciare casa,
andare via, affrontare le transizioni della vita e crescere. Ci sono sei
anni di differenza tra noi due, perciò abbiamo esperienze differenti ma
condividiamo un’ispirazione simile quando scriviamo musica.”
Questi
temi sono in primo piano già nell’opener “Chlorine”, un racconto
esuberante ma pungente di quello che Jack definisce “un divorzio di
famiglia”. Tra la sua beata calma di superficie e le mareggiate emotive,
chitarre “choppy” e armonie fluttuanti, è un invito coinvolgente: il
primo di molti in un album che crea il proprio mondo e lo naviga
fluentemente, trascinando l’ascoltatore nella corrente.
Quel
fluire prende la forma di malvage maniere melodiche su “Round”, un riff
scattante su una compulsione romantica. “Not Taking” assomiglia a un
tuffo nelle acque indie-psych di Perth, e si lega coi primi Tame Impala;
nel frattempo, metafore costiere e romanticismo indie-rock si fondono
in un effetto lussureggiante e struggente su “Underwater Record Store”,
scritta da Lily.
“È bello avere due compositori nella band perché io amo molto le canzoni di Lily,” dice Jack.
Nati
nel Devon e cresciuti sull’Isola di Man, il loro legame si saldò grazie
alla separazione, quando Jack andò via di casa per studiare arte
all’università all’età di 19 anni. “Quando me ne andai, Lily non era più
una sorellina noiosa e rompiscatole, era cresciuta e aveva iniziato a
suonate e scrivere canzoni. Ci avvicinammo molto. Avevo scritto alcune
canzoni, perciò fondammo una band chiamata Your Gold Teeth. Abbiamo
fatto qualche concerto e poi Lily parti per Brighton per studiare
composizione. Un paio d’anni dopo mi sono trasferito anch’io e abbiamo
dato vita ai Penelope Isles.”
Il
quartetto è completato da Jack Sowton e Becky Redford, che hanno già
suonato in trio con Lily a Brighton. Quando Lily tornò a casa per le
vacanze, l’idea di formare una band si sviluppò molto in fretta. Anche
se Jack e Lily scrivono separatamente, le canzoni vengono condivise ed è
questo che ha dato vita ai Penelope Isles, il tutto alimentato dalla
passione per l’alt-rock DIY: Pavement, Deerhunter, Pixies e Tame Impala
su tutti, assieme a Radiohead e The Thrills.
Prodotto
da Jack, l’album è stato co-mixato da Iggy B (i cui crediti includono
The Duke Spirit, John Grant, Spiritualized e Lost Horizons) nei Bella
Studios di Londra.
Il
mare d’inverno, soprattutto. Un cielo livido, freddo come l’acciaio: i
nembi si addensano, ribollenti di pioggia e di oscuri presagi, che si
materializzano proprio là in fondo, dove l’orizzonte sfiora con le dita
il filo sottile dell’acqua e un ultimo barbaglio di sole svanisce. Gli
smeraldi rilucenti del mare trasmutano la propria gioia in un’afflizione
torbida, sgranando gli ultimi verdi riflessi nel grigio opalescente
della nostalgia. Un’increspatura, un breve mulinello, e poi gorghi
sempre più ampi, la marina ribollente, l’impeto sempre più feroce della
risacca e, quindi lo schianto di un’onda, rumoroso e brutale, come solo
la natura sa essere.
C’è
il mare in inverno nel quarto disco dei La Dispute, quel mare che
accerchia il Michigan, paese di provenienza della band. Il panorama,
però, non è quello che trovi sulle cartoline: lo sguardo, semmai, è
pervaso da un romanticismo febbrile e disperato, uno sturm und drang
musicale che ha lo stesso suono del mare: il monotono sciabordio
dell’acqua, l’errante vagabondare delle onde, e poi, grido nella notte,
improvviso arriva il fragore, che spezza il cuore, come un dolore
inaspettato e definitivo.
E’ questo lo sviluppo sonoro delle dieci canzone che compongono Panorama,
full lenght che sublima la poetica di Jordan Dreyer, leader, cantante e
paroliere di una band che ha sempre messo al centro della narrazione un
lirismo duro e disperato: l’incedere morbido, talvolta avvolgente e
amniotico, che all’improvviso deraglia, trasfigurando lo spoken word del
cantante (il cui timbro ricorda quello di un Robert Smith alle prese
con attacchi di panico) in improvvisi accessi di rabbia belluina.
Ecco allora le montagne russe emotive di Fulton Street I,
il cui dipanarsi monotono del drive di chitarra progredisce
ciclicamente verso improvvisi crescendo, come se un pensiero, prima
dolcemente malinconico, prendesse lentamente le sembianze di uno
sconforto gonfio di lacrime sapide di ineluttabile consapevolezza. Una
consapevolezza, che permea di voluptas dolendi le chitarre slintiane di There You Are (Hiding Place),
spazzate via da una disperazione urlata, urgente e repentina, come solo
la disperazione sa esserlo, quando tocca le corde dell’anima.
E’ un saliscendi senza freni, Panorama,
una giostra impazzita, che ci costringe a fare i conti con un’emotività
insistente e invasiva. Si potrebbe parlare di emo-core, ma facendo ben
attenzione a non travisare la definizione. In Panorama la
melodia non serve a compensare l’impeto, non è il contraltare alla forza
bruta, come succede in certe band bimbominchia, che non hanno coraggio
di essere cattive fino in fondo, e hanno bisogno di escamotage
radiofonici per non spaventare e essere plausibili verso un vasto
pubblico. In queste canzoni, l’impianto melodico è, invece, strutturato
come una tappa di un percorso emotivo che porta, sempre,
inevitabilmente, a un’angosciosa afflizione. Canzoni che hanno un nobile
pedigree, grazie a quel costante richiamo delle chitarre agli Slint, e
che guardano in faccia senza timore reverenziale un capolavoro
dell’emo-core, come The Devil And The God Are Raging Inside Me dei Brand New. Disco emozionante ed emozionato: godetevi il Panorama.