Ci
sono band che invecchiano male e che si trascinano stancamente per
anni, manifestando un’afasia di contenuti e ispirazione che sa di
rimpianto e occasioni perdute. E poi ci sono band, come i Cheap Wine,
che non solo non hanno subito le angherie del tempo, ma a cui il
trascorrere degli anni ha trasmesso una nuova consapevolezza, una
maturità in cui cesello stilistico e slancio creativo convivono con
risultati stupefacenti.
A due anni di distanza dall’ottimo Dreams,
la band pesarese torna sulle scene con nuovo disco, autoprodotto e
nuovamente realizzato attraverso lo strumento del crowfunding, e fin dal
primo ascolto, stupisce come i Cheap Wine siano capaci di rinnovarsi
senza snaturare la propria identità artistica. Faces, infatti,
suona famigliare, di quella stessa famigliarità che si prova nel
ritrovare un amico o rinnovare una tradizione; ciò nonostante, nulla in
queste nove tracce suona come la riproposizione di clichè stereotipati o
formule prevedibili e consunte.
Non è solo il songwriting, come sempre ispirato e di qualità: in Faces
si ascolta una band consapevole dei propri mezzi, che potrebbe
viaggiare con il pilota automatico inserito, e che invece sta sugli
strumenti con palpabile entusiasmo e con una forza d’urto talora
travolgente. E non è un caso che questo sia un disco “molto suonato”,
con anche lunghe code strumentali a chiosare i brani, che trasmettono
all’insieme una connotazione quasi jammistica (e sarà interessante
ascoltare dal vivo, in un contesto, quindi, meno vincolante, come questa
componente verrà sviluppata).
Nonostante
l’approccio alle canzoni sia inequivocabilmente rock, la scaletta è
però attraversata da un mood cupo, in cui convivono riflessioni
malinconiche e contemplazione crepuscolare. Alla metrica precisa e
potente della sezione ritmica (Alan Giannini alla batteria e Andrea
Giaro al basso) e alle chitarre sferraglianti dei fratelli Diamantini,
fanno, infatti, da contrappunto le tastiere di Alessio Raffaelli, il cui
tocco asciutto e icastico diviene spesso l’elemento risolutivo in
chiave emozionale. Percezione, questa, evidente fin dall’apertura di Made To Fly,
la cui vibrante elettricità viene destabilizzata da poche note di
tastiera che sprofondano il brano verso un’inquietante penombra.
A
contribuire a questa tensione emotiva, ci sono poi le belle liriche di
Marco Diamantini, incentrate sul tema dell’identità, sviscerato tra
nichilismo, disperazione e desiderio di fuga: i volti che affollano le
nostre vite, alcuni indifferenti e sfumati, altri feroci e malevoli, e
le mille sfaccettature della nostra anima, che deve misurarsi con un
mondo ostile, in un alternarsi di disagio, sofferenza e inadeguatezza.
Se il precedente Dreams
era attraversato da lampi di luce e suggeriva una visione del mondo
filtrata attraverso la dimensione onirica del sogno e vividi barlumi di
speranza, in Faces la tensione scema solo nel finale, tra le volute psichedeliche di New Ground, i cui languidi arabeschi accompagnano “la fuga dalla città disperata” e segnano l’abbrivio per una nuova vita e un possibile riscatto.
Difficile
trovare il meglio in questi quaranta minuti di musica suonata e
arrangiata perfettamente, ma a voler operare necessariamente una scelta
indico la livida malinconia di The Swan And The Crow, il tiro diretto e il riff scorticato di Disguise e le cupe spire della title track, dalle sonorità contigue al post punk.
Se è indubitabilmente vero che il ”rock ‘n’ roll is a state of mind”(Misfit),
il merito dei Cheap Wine è quello di essere riusciti nuovamente a
materializzare questa inclinazione nel migliore dei modi, con un disco
potente e vibrante ma capace di suscitare nel contempo importanti
riflessioni esistenziali. E questo, è tutto ciò che il rock dovrebbe
fare. Sempre. Play It Loud, Think It Loud.
VOTO: 8
Blackswan, sabato 12/10/2019
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