I GospelbeacH non danno mai fregature e chi segue la band fin dall’esordio sa con certezza che ogni disco, per quanto prevedibile, non sarà mai un brutto disco,
Let
It Burn, terzo full lenght della band, è, se possibile, ancora più
bello dei precedenti, anche se le frizzanti melodie di cui si compongono
le dieci canzoni in scaletta, oggi sono inevitabilmente intrecciate a
un filo di tristezza per la morte di Neil Casal, il chitarrista deceduto
il 26 agosto scorso. E non è un caso che la sei corde di Casal sia una
delle spezie più saporite di questi brani molto genuini e diretti,
baciati dal sole in California e attraversati da un eccitante senso per
la melodia, che scorre da una canzone all’altra per quaranta minuti di
ascolto decisamente accattivante.
Non
c’è nulla di nuovo nella musica dei GospelbeacH, e tutte queste canzoni
trasmettono un sentimento di famigliarità a chiunque abbia masticato
appena un po' la musica americana concepita nel secolo scorso. Ecco,
allora, che l’ascolto del disco evoca il nome di Tom Petty, quello dei
Byrds, di John Mellecamp e dei Fastball, e magari anche quello dei
Beatles, riletti, ovviamente, in chiave americanista come spesso
accadeva ai Jayhawks.
Tuttavia,
anche se le fonti di ispirazione sono palesi, è altrettanto evidente
che la band capitanata da Brent Rademaker non copia nulla, semmai
attinge allo stesso spirito e alla stessa atmosfera, creando non una
replica ma un omaggio a quei leggendari artisti. Ne deriva, dunque, che
anche se queste canzoni le abbiamo già ascoltate in anni diversi, da
decenni a questa parte, tutto risulta comunque fresco e divertito, anche
perché il songwriting è di ottimo livello e la band dà sempre
l’impressione di suonare in studio come dal vivo.
Bad
Habits apre il disco con una melodia morbida e zuccherina,
scompigliata, poi, da una coda tortuosa e da un assolo lungo e lunatico
di Casal: un concentrato di emozioni che da solo alza il livello
emozionale del disco. La successiva Dark Angel è un singolo di facile
presa, che palesa nel dna il codice genetico di Tom Petty e i suoi
Heartbraker, lo stesso della più morbida Good Kid, mentre I’m So High
possiede fattezze ed esuberanza rock, ma conquista soprattutto con una
godibilissima melodia pop.
Tra
gli high light del disco, giusto citare anche la conclusiva title
track, il cui retrogusto al miele ricorda alcune cose dei Fleetwood Mac
anni ’80, e soprattutto Get It Back, la migliore del lotto, che nasconde
un’anima soul e indossa sgargianti abiti pop, che portano con la mente e
le orecchie ai Jayhawks e, perché no, ai fab four.
I
GospelbeacH, in definitiva, allestiscono una scaletta di “nuove vecchie
canzoni", ma riescono a essere comunque credibili, forse proprio perché
non cercano mai di nascondere le proprie radici e la passione per la
musica con cui sono cresciuti. Semplicemente la ripropongono, con gioia e
con spensieratezza, come se suonassero sempre col sorriso sulle labbra,
liberi da mode e condizionamenti. E’ musica risaputa, forse, ma è
grande musica americana.
VOTO: 7,5
Blackswan, lunedì 04/11/2019
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