L’impatto
con questo disco non è dei migliori. La copertina brutta e respingente
(invisa agli stessi artisti e, pare, imposta dalla casa discografica)
farebbe girare al largo anche il più ottimista degli appassionati. Ed è
un peccato, perché l’esordio dei Dirty Shirley, band formata da Dino
Jelusic (Animal Drive/ Trans-Siberian Orchestra) e dal chitarrista
George Lynch (The End Machine/KXM/Lynch Mob/Dokken), è un disco di hard
rock/heavy metal che fin dal primo brano in scaletta promette (e
mantiene) sfracelli. Uno di quei dischi, insomma, da mettere nel lettore
a un volume esagerato per testare la tenuta delle casse e dei vetri del
salotto.
I
due, collaborando anche da lontano e coadiuvati dal batterista Will
Hunt (Evanescence) e il bassista Trevor Roxx, inanellano, infatti, un
filotto di canzoni da urlo, che cita i classici (Ronnie James Dio,
Rainbow, Alice In Chains e Soundgarden, tra gli altri), pur mantenendo,
nel suono e nelle intenzioni un taglio modernissimo. Tonnellate di
decibel, riff grintosissimi e assoli efficaci, si fondono alla
perfezione con melodie uncinanti, che talvolta sfiorano l’appeal
radiofonico, senza però mai sfociare nel banale o nel prevedibile.
La
sezione ritmica pesta di brutto, è solida e quadrata, e innerva di
potenza tutti i brani, e il lavoro George Lynch è da veterano del
genere: forgia il tiro pesante di riff spaccatutto e dispensa assoli
icastici e asciutti, senza mai sbrodolare e farsi prendere la mano. La
forza della band, però, risiede soprattutto nella prestazione eccelsa di
Dino Jelusik, giovane singer di origine croata, dotato di una voce
impostata, potente e dall’estensione notevole, avvezzo al colpo di
teatro e con un timbro polimorfo, ottimo sia sui bassi che sugli acuti.
Una sorta di via di mezzo fra Myles Kennedy e Ronnie James Dio, di cui, ad esempio, sembra un clone nell’iniziale Here Comes The King,
lungo brano d’apertura che porta nel dna i cromosomi dell’hard/heavy di
fine anni ’70 e inizio anni ’80. Il disco è vario e molto divertente,
bello nella prima parte, addirittura ottimo nella seconda, in cui
l’ispirazione del gruppo sembra levitare. Dirty Blues, canzone
che originariamente avrebbe dovuto dare il titolo all’album, spinge di
nuovo il piede sull’acceleratore, in un perfetto equilibrio tra
classicismo e modernità. I Diseppear è un brano meno immediato, dallo sviluppo più complesso, con echi grunge e continui cambi tempo, The Dying è il momento più melodico del lotto e ben si sposa con la successiva Last Man Standing, il cui riff potente si schiude in un ritornello di facile presa, facendo pensare agli Alter Bridge.
Il passo rapidissimo di Siren Song introduce alla seconda parte del disco, che si apre con l’hard rock blues di The Voice Of a Soul,
in cui alla consueta melodia acchiappona del ritornello si accosta un
lungo assolo di Lynch, che sale in cattedra, regalando uno dei momenti
più intensi della scaletta. La successiva Cold è un colpo al
cuore, omaggio agli anni ’90 e al grunge, sottotraccia Alice In Chains e
Soundgarden, rievocati da una disumana prestazione di Jelusic, nella
cui voce sembra prendere forma il fantasma di Chris Cornell.
Ammicca al grunge anche la successiva Escalator To Purgatory,
che inizia rock blues, digrigna immediatamente i denti con un riff
assai cupo e si apre poi in un ritornello che sembra uscito dalla penna
di Jerry Cantrell. Segue, Higher, altra perla, dallo sviluppo
tutt’altro che lineare che si sviluppa in un sali scendi di melodia e
potenza, che lascia storditi grazie all’ennesima prova di Jelusic.
Chiudono il disco Grand Master, psichedelica e dagli echi indiani, e un alternative version di Higher (forse migliore di quella presente in scaletta), presente come bonus track.
Non
è dato di sapere se quello dei Dirty Shirley sia un progetto stabile e
destinato a durare, o solo un’uscita estemporanea messa in piedi dalla
Frontiers; comunque sia, dischi come questo fanno bene a un genere che
troppo spesso annaspa nella mediocrità e nell’ovvio. Consigliatissimo.
VOTO: 8
Blackswan, venerdì 07/02/2020
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