Originari
di Saratoga Springs (New York), i Phantogram (al secolo Josh Carter e
Sarah Barthel) hanno rappresentato nell’ultimo decennio una delle realtà
più interessanti del panorama indie statunitense.
Dopo qualche anno di silenzio, succeduti al chiacchierato Three
(2016), album che aveva scalato le classifiche di Billboard Alternative
fino ad aggiudicarsi la terza piazza, all’inizio di marzo il duo è
tornato sulle scene con la pubblicazione di questo nuovo Ceremony.
Un disco pensato a lungo e sofferto, nato in un momento difficile per
la band (la sorella di Sarah Barthel si è tolta la vita un paio di anni
fa) e figlio di molti dubbi, soprattutto sulla tenuta qualitativa delle
composizioni dopo l’inaspettato successo del capitolo precedente.
Superati
il lutto e le perplessità sul futuro della band, Josh Carter e Sarah
Barthel sono tornati a scrivere musica, si sono chiusi in uno studio a
Laurel Canyon, e hanno inciso Ceremony, un lavoro segnato da liriche
ambigue, ma con ovvi riferimenti esistenziali, che ne fanno il racconto
di un percorso di rigenerazione, dal dolore e dallo smarrimento a una
ritrovata normalità.
Ceremony
è un disco in cui l’elettronica ha come sempre un ruolo preponderante,
talvolta anche ingombrante (l’incedere martellante dell’inquietante In a Spiral,
pervasa da sussulti industrial), ma che riesce comunque a trovare una
buona sintonia con gli strumenti tradizionali, creando un magma sonoro
ondivago, eppure incredibilmente coeso, grazie ai pattern di batteria o
ai riff di synth che avviluppano in un abbraccio ossessivo quasi ogni
singolo brano.
Dear God
apre il disco con un campionamento soul, plasmandolo in una melodia
solare, che è probabilmente la cosa più vicina a una canzone allegra mai
scritta dalla band. Segue un filotto di brani brevi (tre minuti o poco
più), urgenti, lineari, che trovano ganci melodici immediati, ma perdono
punti sotto il profilo delle suggestioni sonore a cui il duo ci aveva
abituati in passato (una canzone come Love Me Now, ad esempio, viene imbrigliata da un’unica idea replicata allo sfinimento).
Il disco cresce, però, nella seconda parte, che regala i momenti migliori, sia in termini di pathos che di songwriting. Let Me Down è attraversata da tensione palpabile, Glowing
è un’elegia oscura, in cui l’ottima prova vocale della Barthel, ricorda
di primo acchito Billie Eilish (fan dischiarata della band), mentre Gaunt Kids,
conturba per il suo beat lunare e il doppio cantato straniante, per poi
sciogliersi in una ballata per pianoforte, che suona al contempo
sinistra e romantica.
Il vertice della scaletta è però la title track (l’unica che dura più di cinque minuti) posta al fine di Ceremony:
il cantato ipnagogico della Barthel e la ritmica cadenzata mutuata dal
trip hop crescono deragliando, in uno sfarfallio di tastiere, verso una
vorticosa coda elettrica. A dimostrazione che quando i Phantogram
scelgono di misurarsi con strade più impervie e recessi più bui,
riescono a stare al passo con il loro indubbio talento. In Ceremony,
purtroppo, non tutto fila come ci saremmo aspettati: non un brutto
disco, ma, tolti alcuni episodi, certamente affetto da un processo di
“normalizzazione”.
VOTO: 6,5
Blackswan, martedì 17/03/2020
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